L’azione di grazie di Paolo nel naufragio del mondo

La preghiera apre la porta alla speranza: una lettura di Atti 27 per vedere dove va la nave dell’umanità

L’incontro con il Signore risorto sulla strada di Damasco ha avuto l’effetto di ribaltare completamente la vita di Paolo. Egli non ha soltanto smesso di perseguitare i cristiani o per dirla con il linguaggio degli Atti degli Apostoli, “quelli della via”, ma ha iniziato a guardare il mondo, le persone, gli eventi della storia sotto la luce del Signore Risorto. Nonostante avversità e prove della vita Paolo è, sì, l’uomo della preghiera, ma soprattutto l’uomo del rendimento di grazie, l’uomo eucaristico. Questa sua attitudine al rendimento di grazie è ben riscontrabile in quasi tutte le sue lettere, che si aprono sempre con un esplicito riferimento al suo fare eucarestia, perché quella comunità a cui lui sta rivolgendo il suo scritto è opera di Dio, è frutto di quella Parola, che una volta annunziata si sviluppa e cresce. Paolo è ben consapevole che l’esistenza di una comunità di discepoli del Signore non è ascrivibile soltanto alla fatica apostolica, ma è principalmente opera dello Spirito del Signore che precede e predispone i cuori all’accoglienza della Parola.

È quanto mai significativo il modo con cui Paolo apre la lettera rivolta alla comunità di Filippi: «Rendo grazie (faccio eucarestia) al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi. Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo dal primo giorno fino al presente. Sono convinto che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù» (Fil 1,3-6). Paolo riconosce che il Vangelo è giunto a Filippi prima del suo arrivo, dato che nel racconto degli Atti viene detto che mentre egli è in preghiera durante la notte, riceve una visione dove un macedone lo supplica dicendo: «Vieni in Macedonia e aiutaci» (At 16,9). Paolo non ha difficoltà ad ammettere che l’opera della evangelizzazione è innanzitutto opera del Signore, che agisce con il suo Spirito nelle profondità del cuore umano, predisponendolo all’accoglienza della parola degli apostoli.

1. Il senso dell’azione di grazie in Paolo

Nella preghiera di rendimento di grazie Paolo intende riconoscere che la diffusione del Vangelo in mezzo ai popoli, che non condividono la fede ebraica, è opera del Signore, grazie al dinamismo sprigionato dall’evento della sua resurrezione. Il mondo è abbracciato dalla sua luce e la sua Signoria non conosce confini. Se il seme del Vangelo trova un terreno disponibile, tutto questo è certamente opera di Dio. Questo sguardo contemplativo, che cerca di cogliere la presenza attiva di Dio nella storia umana, offre a Paolo la possibilità di affrontare le contraddizioni e le chiusure degli uomini con la ferma convinzione che il vero protagonista è Lui. La fede nella resurrezione del Signore diventa la chiave interpretativa della storia, che gli permette di vedere una luce oltre il buio degli eventi presenti. Tutto, anche il negativo, rientra nel modo provvidenziale di come Dio conduce la storia umana verso il porto della salvezza. Si può ben dire che l’ascolto orante della Scrittura e la memoria della passione gloriosa del Signore con la luce della sua resurrezione costituiscono gli assi portanti, che gli consentono di affrontare le contraddizioni della storia con lo sguardo rivolto a Colui che deve venire per instaurare il suo Regno.

L’altro motivo che spinge Paolo a rendere grazie al Signore è strettamente legato al fatto che egli coglie la crescita e la vitalità di una comunità cristiana come un dono di Dio per lui. L’esistenza di una comunità, che cerca di vivere alla luce del Vangelo diventa per Paolo un motivo di consolazione. Grazie a tutto ciò egli si sente confermato nella sua fede in Cristo Gesù e nel suo ministero apostolico. Scrivendo alla comunità di Tessalonica così egli si esprime: «Dobbiamo sempre rendere grazie a Dio per voi, fratelli, come è giusto, perché la vostra fede fa grandi progressi e l’amore di ciascuno di voi verso gli altri va crescendo. Così noi possiamo gloriarci di voi nelle Chiese di Dio, per la vostra perseveranza e la vostra fede in tutte le vostre persecuzioni e tribolazioni che sopportate» (2Ts 1,3-4). Il crescere di questa comunità sulle vie del Vangelo costituisce per Paolo la conferma del suo servizio apostolico. Resta, comunque, ben saldo in lui che l’edificazione di una comunità resta opera di Dio e della sua Parola, mentre il compito dell’apostolo si limita ad assecondare l’azione di Dio e di aiutare coloro, che credono, a discernere la loro corrispondenza o meno alla Parola del Vangelo.

2. Stare dentro la storia con lo sguardo rivolto all’invisibile

Paolo, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, è colui che ha sperimentato sulla sua pelle la potenza dello Spirito del Signore, capace di sconvolgere i piani dell’uomo. Ciò che è accaduto sulla via di Damasco ha costretto Paolo a cogliere in positivo la novità cristiana. Egli è costretto a prendere atto che quel Gesù di Nazareth, che è stato crocifisso e che il Padre-Dio ha resuscitato, segna un ulteriore irruzione di Dio nella storia degli uomini. La Signoria di Cristo costituisce per Paolo il vero punto di riferimento per comprendere, dentro la confusione degli accadimenti, la vera direzione della storia umana. L’esperienza, tutta interiore, della presenza di Cristo con il suo Spirito nel cuore dell’umanità abilita Paolo a saper scorgere anche negli eventi più disastrosi l’avanzata del Vangelo, che spinge l’umanità verso il ritorno alla casa del Padre.

È proprio questo sguardo illuminato dall’ascolto della Parola e dalla presenza amorosa dello Spirito del Signore a consentire a Paolo di leggere in modo totalmente nuovo l’evento della sua carcerazione e del conseguente trasferimento a Roma in seguito alla sua espressa volontà di appellarsi a Cesare. Da un punto di vista semplicemente umano il motivo della carcerazione ed il modo con cui si è protratto il suo rimanere legato ad una catena costituirebbero validi motivi per diffidare della forza del Vangelo, mentre Paolo accoglie tutto questo come il modo più vero di dare testimonianza alla verità del Vangelo, che nella debolezza trova il suo punto di forza.

3. Dove va la nave dell’umanità?

Se nel carcere di Cesarea Paolo ha potuto guardare da vicino la meschinità e l’arroganza dei potenti, nel viaggio in mare per raggiungere Roma egli rivive simbolicamente l’avventura umana, così tristemente rinchiusa tra delirio di onnipotenza e sconquasso generale. Il racconto del viaggio per nave alla volta di Roma occupa tutto il capitolo 27 degli Atti degli Apostoli, dove l’evangelista Luca si dilunga in dovizie di particolari con l’intento di far cogliere all’ascoltatore/lettore come la salvezza sia un dono gratuito del Signore, offerto a tutta l’umanità. Tutto ha inizio a Cesarea, dove Paolo è tenuto in prigione e dove risiede il governatore romano Festo, che avendo accolto la richiesta di Paolo di appellarsi a Cesare, decide di inviarlo a Roma. Così Paolo ed altri prigionieri vengono affidati al centurione Giulio della coorte Augusta, il cui compito, probabilmente, poteva essere quello di scortare i convogli diretti a Roma, sia che si trattasse di prigionieri sia anche di merci.

Il viaggio si svolge in due tempi, perché una volta giunti a Mira di Licia il centurione decide di far salire Paolo e gli altri prigionieri su una nave oneraria, un mercantile, che portava grano dall’Egitto a Roma. Fin da subito la navigazione si presenta molto faticosa: «Navigammo lentamente, dice il testo, parecchi giorni, giungendo a fatica all’altezza di Cnido. Poi siccome il vento non ci permetteva di approdare, prendemmo a navigare al riparo di Creta dalla parte di Salmone; la costeggiammo a fatica e giungemmo in una località chiamata Buoni Porti» (At 27,7-8). A rendere faticosa la navigazione è la presenza del vento, che con la sua azione imprevedibile prima rende difficile, ma in seguito sconvolge completamente i progetti degli uomini. Di fronte a questo quadro atmosferico Paolo ritiene opportuno che sia il caso di fermarsi e di rinviare la navigazione a tempi più favorevoli, tenendo anche conto che era già passata la festa dell’Espiazione e la navigazione a mare aperto era considerata pericolosa. Con molta chiarezza egli si rivolge a tutti dicendo: «Uomini, vedo che la navigazione sta per diventare pericolosa e molto dannosa non solo per il carico e per la nave, ma anche per le nostre vite» (At 27,10).

Le parole di Paolo sono espressione di una sapienza, che tiene conto dei limiti che caratterizzano la nostra avventura umana, ma che l’umanità tende a sottovalutare, confidando, piuttosto, nella propria abilità e nei propri manufatti tecnologici. Ed in effetti l’evangelista annota che: «il centurione dava ascolto al pilota e al comandante della nave, più che alle parole di Paolo» (At 27,11). La grande tentazione dell’umanità è sempre quella di lasciarsi guidare dalla propria hybris, che può essere tradotta con orgoglio o con superbia, e che frequentemente travalica nel delirio di onnipotenza. Si tratta, cioè, di quella tendenza tutta umana di credere che l’umanità abbia la forza e l’intelligenza sufficiente per poter padroneggiare le forze della natura, credendo di poter garantire la propria sicurezza grazie a quei manufatti, che ha saputo costruire e dimenticando di essere creatura limitata nel tempo e nello spazio.

Il Salmo 107 ci offre un’immagine plastica di questa presunzione umana: «Altri, che scendevano in mare sulle navi e commerciavano sulle grandi acque videro le grandi opere del Signore e le sue meraviglie nel mare profondo. Egli parlò e scatenò un vento burrascoso che fece alzare le onde: salivano fino al cielo, scendevano negli abissi, si sentivano venir meno nel pericolo. Ondeggiavano e barcollavano come ubriachi: tutta la loro abilità era svanita». Torna anche qui la presenza del vento che scompagina e confonde i progetti umani ed è chiaro che in tutto questo c’è da cogliere il protagonismo di Dio, che con il suo Spirito spinge la storia umana verso un futuro da ricevere in dono.

Di fronte alla decisione del centurione di proseguire la navigazione Paolo non aggiunge altre parole, ma resta in un silenzio orante in compagnia di questa umanità, che spesso non sa di andare incontro ad un esito negativo. Il racconto prosegue dicendo che: «non molto tempo dopo si scatenò dall’isola un vento di uragano, detto euroaquilone. La nave fu travolta e non riusciva a resistere al vento: abbandonati in sua balia andavamo alla deriva. (…) Da vari giorni non comparivano più né sole, né stelle e continuava una tempesta violenta: ogni speranza di salvarci era ormai perduta» (At 27,15-20). Ciò che Paolo temeva è diventato realtà, ma nella sua condizione di uomo incatenato egli non poteva fare altrimenti. Egli, così, si ritrova a condividere la medesima tragedia, che avvolge la storia umana, subendo la stessa sorte di uomini perduti. Il racconto degli Atti ci tiene a sottolineare che «ogni speranza di salvezza era perduta». Come diceva il Salmo 107 anche qui: «tutta la loro bravura era svanita», per cui c’è solo da sperare che una mano provvidente li sospinga verso terra.

Nella disperazione del naufragio si fa strada un fatto nuovo: la condizione di perduti accomuna tutti quelli che si ritrovano all’interno della nave in un unico destino, per cui non esistono più distinzioni o privilegi di uno rispetto agli altri, perché nessuno si può salvare da solo e così anche Paolo si rende conto di essere inserito in questa storia umana, che procede di fallimento in fallimento e di dover condividere con tutti la stessa sorte. Su quella nave di disperati Paolo si alza in piedi e si pone nel mezzo, perché ha una parola da dire a questa umanità immersa nelle tenebre. Ed è una parola, che proviene da un ascolto attento alla volontà di Dio, perciò egli può dire con franchezza: «Uomini avreste dovuto dar retta a me e non salpare da Creta (…) ma ora vi invito a farvi coraggio, perché non ci sarà alcuna perdita di vite umane in mezzo a voi, ma solo della nave. (…) Ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato detto» (At 27,21-25).

L’annuncio che fa Paolo è davvero un evangelo, una bella notizia, perché questa nostra storia umana per quanto possa presentarsi come una nave alla deriva, non è una semplice storia di perdizione, ma di salvezza. Una storia di salvezza che si fa strada proprio dentro il naufragio e non nonostante questo. Lì dove si infrange l’iniziativa umana, si fa strada l’opera ricreatrice di Dio come una vera esperienza pasquale, dove l’ultima parola non è la morte, ma la vita. L’annunzio di salvezza, che fa Paolo, non riguarda un piccolo numero di privilegiati, ma egli ci tiene a precisare che il progetto di Dio riguarda «tutti i tuoi compagni di navigazione» (At 27,24). Nella Pasqua del Figlio, Dio ha inteso abbracciare tutta l’umanità, preda dei suoi deliri e della sua disperazione e fa in modo che anche l’esperienza negativa del fallimento si tramuti in possibilità di una vita nuova ad immagine del Cristo crocifisso e glorioso, realizzazione piena della vera umanità.

4. Il segno del pane spezzato e condiviso come inizio e fondamento di una nuova umanità

Paolo non si limita soltanto a dare l’annuncio di una salvezza donata gratuitamente a un mondo di perduti, ma sul ponte di quella nave allo sfascio ed immersa in una notte tenebrosa egli ha il coraggio di celebrare l’eucarestia, di compiere l’atto del rendimento di grazie, facendo memoria della Pasqua del Signore. La luce della Pasqua permette a Paolo di cogliere il senso di questo naufragio, visto come opera del vento dello Spirito, che tutto travolge, perché tutto sia trasformato nella novità del Cristo risorto e vivente. Nella notte del mondo c’è una sola speranza, che possa trarre fuori dall’abisso in cui tende ad incagliarsi la nave della storia umana e che apra la porta per un futuro possibile e più umano e questa speranza ci viene donata proprio dal segno eucaristico: «Fino allo spuntar del giorno Paolo esortava tutti a prendere cibo dicendo: oggi è il quattordicesimo giorno che passate digiuni nell’attesa, senza mangiare nulla. Vi invito perciò a prendere cibo: è necessario per la vostra salvezza. Neanche un capello del vostro capo andrà perduto. Detto questo prese un pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare. Tutti si fecero coraggio ed anch’essi presero cibo» (At 27,33-36).

Nell’azione di Paolo è lo stesso Signore che si fa presente con il suo gesto, che è allo stesso tempo: riconoscere la vita come dono e farne di essa a sua volta un pane spezzato, che sazia la fame di comunione e di vera fraternità. Con questo gesto, che coinvolge tutto l’orientamento della propria vita, il mondo, da luogo di maledizione e di perdizione, si trasforma in luogo di benedizione. Paolo su quella nave in frantumi fa ripartire la storia da quell’umile gesto, che il suo Signore ha consegnato ai suoi discepoli ed a tutta l’umanità. Non per nulla il testo parla del giorno che sta spuntando, perché solo se si entra nella logica di quel gesto si esce da una storia notturna e fallimentare e si apre davanti all’umanità la prospettiva di un’alba di luce.

Paolo esordisce il suo invito a prendere cibo parlando di un oggi ed è l’oggi della salvezza, che irrompe in quel gesto di amore, e che Dio ha reso leggibile nella carne umana di Gesù, fattasi pane spezzato ed offerto per essere mangiato ed assimilato. Egli, così facendo, non si presenta come colui che condanna, ma come colui che ci propone la via per uscire dall’abisso, in cui la storia di uomini e donne tende ricacciarsi con ostinazione. All’invito di Paolo di prendere cibo, il testo dice che “tutti si fecero coraggio e anch’essi presero cibo”. In effetti tutti partecipano di quell’unico pane, su cui è stata pronunziata la preghiera di benedizione e che Paolo ha spezzato per tutti loro. Quell’unico pane, riconosciuto come dono di Dio, stabilisce tra tutti costoro una vera relazione di comunione. Mangiare alla stessa tavola e condividere lo stesso pane crea inevitabilmente legami di vera fraternità.

L’esperienza del naufragio paradossalmente ha permesso l’uscita dai propri egoismi e dalle profonde divisioni tra le persone per ritrovare la verità della condizione umana, dove nessuno può avanzare la pretesa di salvarsi a scapito degli altri. Solo adesso l’evangelista Luca ci fa sapere che «sulla nave eravamo complessivamente duecentosettantasei persone»; un mondo che per un momento ha assaporato il valore della fraternità. L’evangelista Luca attraverso il racconto di questo naufragio, da una parte ci spinge a non restare alla semplice superficie degli avvenimenti, perché la nave dell’umanità, pur sballottata di qua e di là in balia di forze che la sovrastano, porta con sé la presenza invisibile, ma reale del suo Dio, dall’altra parte, attraverso la figura dell’apostolo Paolo, indica a tutti i cristiani il senso del loro stare in mezzo alla comunità degli uomini e delle donne. Essi, pur restando dentro una storia di fallimenti, sono pronti a porre quel “gesto del rendere grazie e dello spezzare il pane”, che trae fuori la storia umana dall’abisso della perdizione e del non-senso. È il gesto del Signore Risorto, vera speranza per tutta l’umanità.

P. Gregorio Battaglia
Mercoledì della spiritualità 2024 della Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto

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