Il responsabile del Jesuit Refugee Service racconta la drammatica situazione della minoranza musulmana birmana.
Il responsabile del Jesuit Refugee Service racconta la drammatica situazione della minoranza musulmana birmana.
Sono passati sette anni da quando oltre settecentomila persone di etnia rohingya sono dovute fuggire dal Myanmar a causa delle violenze dell’esercito perpetrate nei loro confronti e rifugiarsi in Bangladesh. Oggi, «La situazione è più o meno la stessa. Le violenze nei campi continuano, con episodi di furto, atti vandalici, omicidi e rapimenti che si susseguono come prima», racconta ad AsiaNews padre Jerry Gomes, responsabile dei programmi del Jesuit Refugee Service nel Paese dell’Asia meridionale. L’esodo, infatti, è continuamente alimentato dal proseguimento della guerra civile birmana e delle persecuzioni.
Il problema, afferma il gesuita, è che sia i militari, che vogliono mantenere il governo dei generali, sia i gruppi ribelli, interessati a stabilire una democrazia, non sono propensi a inserire questa minoranza musulmana nella società. Il rimpatrio dei rohingya, dunque, non è una soluzione percorribile se prima non si crea una situazione pacifica e accogliente in Myanmar. Per questo, ma anche perché il Bangladesh ha risorse limitate, un intervento della comunità internazionale è di fondamentale importanza. Intanto, la Chiesa deve accogliere questi migranti come ospiti, prendendosi cura di loro.
A Cox’s Bazar, padre Jerry opera assieme a sei confratelli, due laici, diciannove dipendenti e quarantadue volontari a fianco della Caritas locale per dare aiuto ai rifugiati della minoranza musulmana che provengono dallo stato occidentale di Rakhine. In particolare, la sua azione è rivolta a bambini e adolescenti, accolti in questi sette anni in undici centri per un totale di 6.132 giovani assistiti, ai quali si aggiungono 1.879 madri in attesa e in allattamento e 2.500 caregiver. L’impegno nei confronti dei minori spazia dall’istruzione alla formazione professionale, dall’educazione informale alla cura mentale, fino all’educazione alla pace, sostenendo lo sviluppo della comunità rohingya senza lasciare indietro i disabili.
In generale, sono quattrocentomila i bambini e i ragazzi rohingya in età scolare che vivono nei campi profughi, ma ben centomila di loro non frequentano centri di apprendimento. Per questo le iniziative educative sono fondamentali, anche per portare avanti progetti di coesione sociale. Una pesante mancanza di fondi ostacola gli sforzi, ma la responsabilità impone che nessuna comunità debba essere lasciata indietro.
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