Caino e Abele. Storia di un dialogo mancato

Volti di fraternità e sororità nella fede biblica. L’esperienza dei due fratelli tra oscuramento della ragione e mancanza di cura.

1. Il contesto familiare

Il libro della Genesi pone all’inizio dell’umanità sia la storia di Adamo ed Eva, come prima coppia, da cui tutto discende, sia la storia di Caino e Abele, i primi a sperimentare la difficile coabitazione dell’essere fratelli. Caino e Abele, stando al racconto della Genesi, vengono partoriti dalla prima coppia subito dopo la cacciata dal giardino, dove Dio inizialmente li aveva posti. Questi nostri progenitori non soltanto non sono riusciti a dialogare con Dio, da cui di fatto si nascondono, ma non riescono a dialogare nemmeno tra loro due. La loro condizione dopo l’uscita dal giardino dell’Eden è sostanzialmente contrassegnata dalla maledizione, perché di fatto il peccato ha messo in crisi tutte quelle relazioni, che contraddistinguono l’esistenza umana.

Dio rivolgendosi alla donna le dice: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto ed egli ti dominerà» (Gen 3,16). All’uomo Dio dice: «maledetto il suolo per causa tua. Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te» (Gen 3,17). Se il peccato è sostanzialmente il rifiuto della relazione con l’altro e con quella alterità, che è Dio stesso, per porre al centro di tutto il proprio ego e le proprie pulsioni, non fa alcuna meraviglia che tutto subisca una distorsione. Caino ed Abele nascono in questo nuovo contesto, dove il rapporto di coppia non è più fondato sulla reciprocità, secondo il disegno di Dio Creatore, ma sulla volontà di potenza, che richiede la sottomissione dell’altro. Eva, in quanto soggetto dotato di minore potenza muscolare, è, così, costretta a subire la signoria di Adamo.

È quanto mai significativa l’esclamazione di Eva di fronte all’esperienza esaltante del primo parto. Nel ritrovarsi tra le braccia questo primo figlio, che è Caino ella dice: «Ho acquistato un uomo grazie al Signore» (Gen 4,1). La Bibbia di Gerusalemme nella nota relativa a questo versetto così commenta: «È il giubilo della prima donna che, da serva di uno sposo, diventa madre di un uomo. Un gioco di parole accosta il nome Caino (in ebraico Qayn) al verbo acquistare (in ebraico qanah)». Eva non parla di figlio, né di un dono ricevuto da custodire, ma di aver acquistato un uomo e quindi di poter avere un diritto di possesso su di lui, dando vita così ad un regime matriarcale.

Caino, in quanto primogenito in assoluto, si ritrova a vivere questo legame con la madre, che vede in lui non tanto un figlio da accudire, quanto un maschio da tenere legato a sé. Il testo biblico non aggiunge altre parole su questo primo evento generativo, che lega visceralmente la madre al figlio, e non accenna per nulla su quanto tutto questo abbia potuto pesare sulla crescita e maturazione di lui. Possiamo, però immaginare la sorpresa e la reazione di Caino, quando viene detto che Eva «generò un fratello a lui, di nome Abele» (Gen 4,2). L’arrivo di un fratello pone, certamente, a Caino problemi non indifferenti, perché egli è costretto dalla nuova situazione a dover reimpostare tutto il proprio mondo relazionale, tenendo conto, inoltre, che un figlio nei confronti dei genitori ha tutto da guadagnare, ma non così un fratello nei confronti dell’altro.

2. La fraternità: un’esperienza impossibile?

È innegabile che tra Caino e Abele esista un legame naturale, dovuto al vincolo di sangue, ma per il testo della Genesi tutto questo non è sufficiente a garantire una vera relazione fraterna. Troppi fattori rendono faticosa, se non impossibile la coesistenza e di questi il primo è dato dalla diversità. Fratelli e sorelle si ritrovano ad essere uguali nella loro titolarità di figli e figlie, ma questa uguaglianza di base non garantisce la loro pacifica convivenza.

Il testo biblico dopo aver dato la notizia che Eva ha partorito Abele, aggiunge subito dopo: «Ora Abele era pastore di greggi, mentre Caino era lavoratore del suolo» (Gen 4,2). Ciò che emerge subito in questa prima fraternità è la diversa attitudine lavorativa, che porta con sé una grande differenza culturale e con questa una diversa visione del mondo. In quanto pastore, Abele è un nomade, uno che deve spostarsi alla ricerca di nuovi pascoli e tutto questo lo porta ad ampliare lo sguardo, a saper cogliere ogni cosa come dono gratuito, che si riceve dall’alto. Caino, invece, in quanto coltivatore della terra è un sedentario ed è portato a considerare il proprio rapporto con la terra in chiave di possesso. Il suo rapporto con i frutti, che la terra gli dona, è molto particolare, perché egli sa che tutto è dovuto soprattutto alla sua iniziativa ed alla sua capacità regolatrice.

Caino e Abele sono fratelli, ma allo stesso tempo sono due mondi culturali completamente diversi. Questa diversità, ci viene da chiederci, è un impedimento allo svolgimento di una vita fraterna o può costituire una ricchezza, che fa crescere entrambi? In questo senso si può dire che la fraternità è allo stesso tempo un dato di fatto, che non si può negare, ma è anche una sfida, che richiede un’uscita da sé stessi per andare incontro all’altro con tutta la sua diversità culturale e religiosa. Se non si ha la forza di uscire da se stessi e dalle proprie certezze si cade nella tentazione di voler omologare l’altro a se stesso, per cui la presenza dell’altro, in quanto diverso, diventa inevitabilmente fonte di conflitto.

A complicare il rapporto tra i due, secondo il testo della Genesi, contribuisce in maniera non indifferente l’agire stesso di Dio, che non si ritiene obbligato a rispettare i diritti di preminenza di uno sull’altro e nel caso di Caino si tratterebbe di tener conto del diritto di primogenitura. Del resto nel corso della storia della salvezza Dio scompaginerà sempre i codici umani, che tendono a fissare chi ha più diritto degli altri e con libertà eleggerà il più piccolo, il più debole, perché «se l’uomo vede l’apparenza, il Signore vede il cuore» (1Sam 16,7). Così il testo presenta l’avvenimento: «Trascorso del tempo, Caino presentò frutti del suolo come offerta al Signore, mentre Abele presentò a sua volta primogeniti del suo gregge ed il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta» (Gen 4,3-5).

Dio guarda in modo diverso le due offerte e questo sicuramente si riflette in un andamento più o meno favorevole per quanto riguarda le attività di ognuno. Se Caino si è reso conto che Dio non è stato benevolo con lui è certamente legato al fatto di non essersi sentito benedetto nel suo lavoro agricolo. Mi sembra molto interessante aggiungere la lettura che di questo fatto fa Filone Alessandrino e che in seguito verrà ripresa dai Padri della Chiesa. Egli preferisce parlare delle diposizioni interiori dei due fratelli, per cui di Caino è detto che egli è acharistos, cioè, senza gratitudine, mentre di Abele è detto che egli è eucaristos, cioè, disposto al rendimento di grazie. L’evangelista Giovanni nella sua prima lettera accenna al comando ricevuto fin dal principio e che consiste nell’amarsi gli uni gli altri e si premura subito di precisare: «non come Caino, che era dal Maligno ed uccise suo fratello. E per qual motivo l’uccise? Perché le sue opere erano malvagie, mentre quelle di suo fratello erano giuste» (1Gv 3,11-12). Ciò che comunque la storia di Caino e Abele mette in evidenza è il fatto che il diverso successo delle due offerte costituisce la scintilla, che fa scatenare il conflitto.

3. L’irritazione di Caino e l’oscuramento della ragione

Gen 4,5: «Caino si adirò molto ed il suo volto era abbattuto»: per il racconto biblico questa è la reazione di Caino al mancato successo della sua offerta. Bruciante di ira, il suo volto è tutto ricurvo su se stesso, incapace com’è di rivolgersi sia verso l’alto, sia verso il fratello. Egli si sente oggetto di una plateale ingiustizia e non riesce a comprendere perché Dio gli abbia preferito il più piccolo. Questa fiammata di ira ha come suo effetto quello di impedirgli una riflessione più serena su come vadano le cose nel concreto dell’esistenza, perché nel corso della vita non tutto fila liscio, secondo le nostre aspettative, ma essa si presenta sovente con alti e bassi, che non sempre dipendono dalla volontà del soggetto.

Di fronte a questa isterica reazione di Caino Dio è pronto ad intervenire, facendo sentire la sua voce nell’intimo della sua coscienza: «Il Signore disse allora a Caino: Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta: verso di te è il suo istinto e tu lo dominerai» (Gen 4,6-7). Questo passo è così commentato dal biblista Broccardo: «Dio sta mettendo davanti a Caino la possibilità di scegliere: “il peccato ti attira a sé (la bramosia) con tutta la sua forza, ma tu puoi opporti, hai la capacità di dominarlo”. […] Egli può dominare il desiderio del peccato: deve scegliere. Dio non abbandona Caino, anzi nel momento della decisione (della tentazione) si vede ancora di più il rapporto particolare che lo lega a lui: Il Signore gli rivolge la parola, gli spiega la situazione, lo incoraggia a fare la sua scelta».

Di fatto Caino, che ha patito lo scandalo di una benedizione mancata, si ritrova nella condizione di un uomo tentato, messo alla prova ed è proprio per questo che la Voce, che parla nell’intimo dell’uomo, lo invita a non prestare ascolto a quel leone accovacciato alla porta e pronto a compiere il balzo per prendere il dominio della sua volontà. Questa immagine del leone pronto a sbranare verrà ripresa, in seguito, da Pietro nella sua prima lettera dove dice: «Siate, sobri, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo come leone ruggente va in giro cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede» (1Pt 5,8).

Dio ha rivolto a Caino ben due “perché?” ed è logico pensare che Egli si attenda un abbozzo di risposta. Caino, invece, non si lascia smuovere da questa provocazione e resta bloccato nella sua irritazione e nella sua grande invidia per il successo del fratello. Egli rifiuta di dialogare con Dio, con quella Voce che gli parla dal di dentro. Eppure, commenta E. Wiesel: «Caino avrebbe potuto rispondere e dire quello che aveva nel cuore. Preferì, invece, tacere, avvelenare la sua collera repressa, trasformarla in odio. Così facendo privò se stesso del diritto di giudicare Dio, uccidendo suo fratello. […] Ah! Se Caino avesse scelto la parola, piuttosto che la violenza, se avesse tenuto davanti a Dio questo discorso: Padrone dell’universo ascoltami bene. (…) Riconosci che ho tutte le ragioni di gridarti il mio smarrimento e la mia collera: […] Se Caino avesse parlato così, come sarebbe stata diversa la storia dell’umanità!».

4. E se Dio richiedesse il sangue?

La mancata risposta da parte di Caino ci porta ad avanzare un’ipotesi, strettamente legata al tipo di offerta, messa in atto dal fratello Abele. Egli, offrendo i primogeniti del gregge, ha di fatto versato del sangue, per cui si può anche pensare che nel cuore di Caino si fosse potuto insinuare questo dubbio: il Dio da adorare è forse un dio che preferisce il versamento del sangue? Si tratta certamente di una tentazione aberrante, ma forse questa idea gli si poteva presentare come via di uscita dalla sua grande frustrazione. Del resto questo modo di pensare ad un Dio, che ama richiedere il versamento del sangue, ha trovato lungo i secoli un consenso non indifferente. È sufficiente ricordare che nel libro dei Giudici Iefte nel momento in cui deve affrontare gli Ammoniti fa il seguente voto: «Se Tu consegni nelle mie mani gli Ammoniti, chiunque uscirà per primo dalle porte di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per il Signore ed io lo offrirò in olocausto» (Gdc 11,30-31).

Anche nella tradizione cristiana alcuni tendono a leggere il sangue versato da Gesù in chiave giuridica come la satisfactio atta a placare l’ira di Dio. Caino, chiuso nel suo mutismo, potrebbe aver elaborato questo pensiero al fine di far volgere a sé lo sguardo di Dio. E per ottenere tutto questo cosa c’è di meglio che offrire a Dio un sacrificio più cruento e cioè il sangue del fratello? Visto in questo modo l’ipotesi di uccidere Abele acquisterebbe una connotazione sacerdotale. Così facendo Caino trasferirebbe la sua frustrazione sul piano religioso, dando al suo sentimento di odio un valore sacro e santificante. Certo tutto questo non trova un esplicito riferimento nel testo biblico, ma non mancano ancora oggi persone che nutrono pensieri simili a questo.

5. “Dov’è tuo fratello?”: non c’è fraternità senza cura

Gen 4,8: «Caino parlò al fratello Abele. Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise». Il testo nell’affermare che Caino rivolse la parola al fratello non dice nulla sul contenuto. Si ha l’impressione che la parola si smorzi in bocca a Caino, mentre a parlare nei fatti è la mano, pronta a togliere la vita al fratello. Se la parola muore nel suo nascere, l’invidia, che si è tramutata in odio, spinge Caino ad alzare la mano contro il fratello, che a sua volta non aveva commesso alcun male nei suoi confronti. Così Caino pensa di risolvere il suo groviglio interiore nel peggiore dei modi, senza capire che la morte del fratello è anche morte di sé stesso.

v. 9: «Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è tuo fratello?” Egli rispose: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?”». Il Signore torna ad intervenire, ma non si presenta in tono accusatorio, piuttosto si limita a porre la seconda grande domanda della storia degli inizi. La prima è quella rivolta ad Adamo: «Dove sei?» (Gen 3,9) e la seconda è questa rivolta a Caino. L’interrogativo, che Dio pone a Caino, non è di carattere informativo, ma esistenziale. Il chiedere conto del fratello significa spingere Caino a prendere coscienza che l’aver eliminato il fratello non gli ha facilitato la vita, anzi l’ha resa più incomprensibile. La risposta che dà Caino indica, invece, la mancata presa di coscienza della gravità del gesto compiuto. Restando alla risposta di Caino mi sembra interessante la proposta di lettura avanzata da Wiesel: «Caino dice: Lo yadati hašomer akhi anoki. Cambiando punteggiatura, anzi sopprimendo la virgola si ha: “Non sapevo di essere considerato il custode di mio fratello”. […] Forse non era cosciente della sua responsabilità. Adesso sa, ma è troppo tardi per tornare indietro».

La domanda che Dio rivolge a Caino è, in effetti, una domanda che Dio pone ad ogni creatura umana, in quanto fratello o sorella. L’altro/a non è un estraneo, un nemico, una presenza fastidiosa, ma è un fratello o una sorella in umanità ed entrambi portano il nome di Abele, che vuol dire semplicemente soffio, respiro. La vera grandezza di ogni persona umana consiste nel rendersi conto che il respiro, che è l’altro, è affidato alla mia responsabilità. Se ci si potesse rendere conto che in un mondo di fratelli e sorelle in umanità il respiro di ognuno è nelle mani degli altri e che sfuggire a questa responsabilità significa uccidere la vita sulla terra, allora la fratellanza universale non sarebbe più una pura utopia, ma un nuovo modo di fare storia. Caino ed Abele non sono riusciti a comprendere che le loro esistenze, così fragili e strettamente legate alla loro capacità di respirare, li rendevano di fatto responsabili l’uno dell’altro. Questa mancata assunzione di responsabilità ci porta a chiederci: come mai Abele di fronte alla parola non detta da Caino non abbia provato lui a rivolgere una sua parola al fratello? Nel racconto Abele sembra aver assunto un atteggiamento passivo, tanto da lasciare l’impressione di essere una vittima predestinata.

6. L’accusa e la sentenza

Gen 4,10: «Riprese: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo. Ora sii maledetto, lontano dal suolo che ha aperto la bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano”» (Gen 4,10). Dio non molla la presa su Caino e dopo l’interrogatorio si passa direttamente all’accusa: «Che hai fatto?». Se Dio è il giudice, il pubblico ministero è costituito da quella «voce del sangue di tuo fratello che grida verso di me». Dio è colui che ascolta il grido dei poveri, il grido degli oppressi e Mosé nel libro dell’Esodo si sentirà dire da Dio: «Ho osservato la miseria del mio popolo, ho udito il suo grido» (Es 3,7). In questo caso il giudizio non ammette attenuanti e ad esso fa seguito una sentenza molto dura: «Ora sii maledetto, lontano dalla terra». Caino aveva immaginato che il sacrificio del fratello gli potesse spalancare le porte della benedizione ed invece adesso che il reato è stato consumato è costretto a fare i conti con un mondo che gli si rivolta contro. L’introduzione della violenza contro il fratello porta ad una disarmonia globale, per cui lo stesso rapporto con la terra diventa oltremodo faticoso.

v. 13: «Disse Caino al Signore: Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono» (Gen 4,13). Davanti al disastro compiuto Caino deve constatare con amarezza che la sua colpa è troppo grande, ma questa presa d’atto non lo porta a invocare il perdono da parte di Dio. Egli è convinto che Dio non possa perdonare un peccato che è troppo grande. Da questo momento egli si sente come un uomo inquieto, che non sa trovare una sua stabilità interiore tanto che il racconto biblico ci tiene ad informarci che «Caino si allontanò dal Signore e abitò nella regione di Nod» e “Nod” vuol proprio dire “essere vagabondo”. L’ultima parola non è quella di Caino, ma è quella data dalla fedeltà di Dio, che «impose un segno, perché nessuno incontrandolo lo colpisse» (Gen 4,15). Caino, il maledetto, il randagio è segnato dalla misericordia di Dio, che lo mette al riparo dalla vendetta altrui e gli concede del tempo per ridare alla propria vita un orientamento ben diverso dallo schema dell’invidia e della violenza.

P. Gregorio Battaglia
Mercoledì della Bibbia 2022, Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto