Ascensione del Signore

Anno A

Letture: Atti 1,1-11; Salmo 46; Efesini 1, 17-23; Matteo 28, 16-23

Ascensione: finito il tempo del pane e del pesce attorno al fuoco sulla riva del lago. Finito il tempo dei nomi pronunciati uno per uno, che sulle sue labbra parevano bruciare. L’ascensione è la festa di Lui diversamente presente: Gesù non è andato lontano, ma avanti e nel profondo; non oltre le nubi ma oltre le forme. Se prima era con i discepoli, ora sarà dentro di loro.​L’ultimo suo appuntamento è nella Galilea degli inizi, hanno camminato insieme per tre anni; e se non hanno capito molto, lo hanno però molto amato. E ci sono tutti all’appuntamento sull’ultima montagna. «Andate!». Si è appena fatto trovare e subito li invita a partire, li spinge a pensare in grande, a guardare lontano: apre il mondo, cancella frontiere, li manda a immergersi nell’umano innumerevole.

«Battezzate»: immergete ogni vita nell’oceano di Dio, che sia sommersa e sollevata dalla sua onda mite e possente… Cosa devono fare i discepoli? Creare un laboratorio di immersione in Dio, per il mondo. Dare agli uomini l’esperienza e la coscienza che sono immersi in un oceano d’amore, e non se ne rendono conto. «Andate!». Per arruolare devoti? Per far crescere i numeri del gruppo? No, per una pandemia da spargere sulla terra, di fuoco e libertà. Andate, profumate di cielo le vite che incontrate, “insegnate a vivere bene” (san Bernardo), mostrate il mestiere del vivere buono, così come l’avete visto da me. Insegnate ad essere felici, direbbe Mosè. Insegnate a donare, cioè ad essere vivi, direbbe Paolo. «Fate discepoli tutti i popoli»: Gesù non dà l’ordine di indottrinare il mondo. Il termine “discepolo” nella sua etimologia significa colui che impara, “l’imparante”.

«Fate discepoli» vuol dire allargate le menti delle persone, insegnate loro ad essere gli imparanti, coloro che non smettono mai di apprendere e di accogliere. «Alcuni però dubitavano»: Gesù lascia sulla terra quasi niente: un gruppetto di undici uomini impauriti, confusi, che dubitano ancora, e un nucleo di donne coraggiose e fedeli. Se ne va, compiendo un atto di enorme fiducia: affida la sua verità a gente che dubita, mostra la strada per i confini del mondo a gente che zoppica. Grande Gesù, che non si pone come uno che ti risolve i problemi, ma come colui che offre orizzonti, che fa più grande la vita. Ma non li lascia soli con i loro limiti: «io sono con voi tutti i giorni» fino alla fine del mondo. Tu lo puoi anche mollare, ma lui non ti molla mai. Ha intriso di Dio il mondo, e ne ha impregnato anche la tua vita; il mondo e tu ne siete battezzati. Se solo io fossi capace di sentire e godere questo, camminerei sulla terra con passo di danza come dentro un battesimo infinito.

P. Ermes Ronchi
Avvenire

 

È sempre più diffuso tra i giovani, e non solo, l’ossessione per la propria immagine, che si traduce in un’illusoria ricerca della perfezione. Le persone che hanno una certa fragilità nella propria auto-percezione, perché si vedono inadeguati, brutti, difettosi, possono soffrire di quella che viene chiamata dismorfofobia: una percezione alterata di sé in senso negativo. La conseguenza è la ricerca malata di una perfezione inesistente: molti diventano competitivi, vivono di confronto, sperimentano la frustrazione, fino ad arrivare talvolta alla depressione. L’uso compulsivo e continuo dei filtri per postare le proprie immagini sui social denuncia probabilmente una difficoltà seria nell’accettazione della propria immagine.

Anche se non abbiamo questo rapporto con i social, la dismorfofobia può manifestarsi in tanti altri modi. In forme meno significative, possiamo preoccuparci anche noi di voler mostrare un’immagine perfetta di noi stessi, non necessariamente a livello estetico, ma magari nelle nostre competenze, nel nostro modo di vivere, nella capacità di gestire le situazioni. Le letture di questa domenica possono essere al contrario un invito a riconoscere il nostro valore e le nostre potenzialità anche quando non siamo perfetti, quando ci rendiamo conto che abbiamo dei limiti e che possiamo ancora crescere su alcuni aspetti. Sia nel testo degli Atti degli Apostoli che nei versetti del Vangelo di Matteo ci viene infatti consegnata l’immagine di Dio che si fida di noi così come siamo, anche con le nostre imperfezioni.

La prima immagine di imperfezione è resa dal testo del Vangelo di Matteo con un numero: i discepoli sono undici, manca un pezzo, non c’è più quel numero simmetrico e così significativo per la vita di Israele che è il numero dodici. La scena fotografa un gruppo che ha vissuto una defezione, un gruppo che ha fatto l’esperienza del proprio limite. Nonostante questo, i discepoli non usano un filtro per fingere di essere sempre dodici. No, qualcosa è avvenuto, modificando l’immagine della prima comunità. Non a caso, il testo degli Atti degli Apostoli registra un tentativo di aggiustamento da parte dei discepoli: chiedono infatti a Gesù se sia quello il tempo in cui ricostruirà il Regno di Israele. Si rendono conto infatti che quel numero undici non è più adatto ai loro sogni di gloria, sperano in un intervento della provvidenza per risistemare quello che è andato storto.

La seconda immagine di imperfezione è resa dal Vangelo attraverso l’accostamento di due verbi che descrivono l’atteggiamento dei discepoli: prima si prostrano, poi dubitano (Mt 28,17). Siamo noi, con i nostri cammini imperfetti. Ci prostriamo, un po’ perché siamo convinti, un po’ perché lo fanno gli altri, un po’ perché lo sentiamo. Ma mentre ci prostriamo, stiamo già dubitando. Non ci fidiamo di noi stessi, non ci fidiamo di Dio. Nella nostra vita ci sono sempre tratti di ipocrisia, non siamo mai definitivamente coerenti con noi stessi.

Nonostante questi evidenti tratti di imperfezione, ciò che colpisce è che il Signore affidi comunque a questa comunità traballante, incredula, diffidente, la missione di annunciare il Regno di Dio. L’imperfezione diventa il vuoto che lo Spirito santo riempie. Quando ci riteniamo perfetti, ci illudiamo di bastare a noi stessi, il nostro io pervade ogni spazio, non c’è posto per lo Spirito. Quando ci riconosciamo limitati, inadeguati e incapaci, il cuore si apre ad accogliere la forza che viene da Dio. Ciò che importa dunque è evitare di coprire l’imperfezione con i filtri della rassegnazione o, al contrario, con lo strenuo tentativo di fare tutto da soli. L’imperfezione si affronta lasciandosi riempire dallo Spirito.

Se fossimo perfetti e autosufficienti non avremmo bisogno di essere accompagnati da Gesù. Con noi il Signore non avrebbe nulla da fare. E invece è proprio la nostra inadeguatezza che fa pronunciare a Gesù parole rassicuranti: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Egli è l’Emmanuele, colui che non ci lascia mai, come una mamma che accompagna la mano del figlio, perché sa che, qualora togliesse quella mano, il figlio farebbe solo scarabocchi. A volte infatti ci permette anche di farli questi scarabocchi, forse proprio quando rischiamo di pensare di non avere bisogno di lui. Ora i discepoli possono andare ad annunciare, perché sono diventati consapevoli della loro imperfezione. Andranno a raccontare come il Signore ha operato nelle loro vite storte e traballanti. Non annunciano se stessi e i propri meriti o le proprie capacità, ma testimoniano la grandezza di Dio, che sarà tanto più evidente quanto più povere saranno state le loro vite. Questa dovrebbe essere la consapevolezza della Chiesa: inviati con i nostri limiti, affidati per sempre a Colui che cammina con noi!

P. Gaetano Piccolo
Rigantur mentes