Letture: Isaia 49,3.5-6; Salmo 39; Prima lettera ai Corinzi 1,1-3; Giovanni 1,29-34
Il mondo ci prova, ha tentato, ma non ce la fa a fiorire secondo il sogno di Dio: gli uomini non ce la fanno a raggiungere la felicità. Dio ha guardato l’umanità, l’ha trovata smarrita, malata, sperduta e se n’è preso cura. È venuto, e invece del ripudio o del castigo, ha portato liberazione e guarigione. Lo afferma il profeta roccioso e selvatico, Giovanni delle acque, quando dichiara: ecco l’agnello che toglie il peccato del mondo. Sono parole di guarigione, eco della profezia di Isaia, rilanciata dalla prima Lettura: ecco il mio servo, per restaurare le tribù di Giacobbe. Anzi, è troppo poco: per portare la mia salvezza fino all’estremità della terra. Giovanni parlava in lingua aramaica, come Gesù, come la gente del popolo, e per dire “ecco l’agnello” ha certamente usato il termine taljah, che indica al tempo stesso “agnello” e “servo”. E la gente capiva che quel giovane uomo Gesù, più che un predestinato a finire sgozzato come un agnello nell’ora dei sacrifici nel cortile del tempio, tra l’ora sesta e l’ora nona, era invece colui che avrebbe messo tutte le sue energie al servizio del sogno di Dio per l’umanità, con la sua vita buona, bella e felice.
Servo-agnello, che toglie il peccato del mondo. Al singolare. Non i peccati, ma piuttosto la loro matrice e radice, la linfa vitale, il grembo che partorisce azioni che sono il contrario della vita, quel pensiero strisciante che si insinua dovunque, per cui mi importa solo di me, e non mi toccano le lacrime o la gioia contagiosa degli altri, non mi importano, non esistono, non ci sono, non li vedo. Servo-agnello, guaritore dell’unico peccato che è il disamore. Non è venuto come leone, non come aquila, ma come agnello, l’ultimo nato del gregge, a liberarci da una idea terribile e sbagliata di Dio, su cui prosperavano le istituzioni di potere in Israele.
Gesù prende le radici del potere, le strappa, le capovolge al sole e all’aria, capovolge quella logica che metteva in cima a tutto un Dio dal potere assoluto, compreso quello di decretare la tua morte; e sotto di lui uomini che applicavano a loro volta questo potere, ritenuto divino, su altri uomini, più deboli di loro, in una scala infinita, giù fino all’ultimo gradino. L’agnello-servo, il senza potere, è un “no!” gridato in faccia alla logica del mondo, dove ha ragione sempre il più forte, il più ricco, il più astuto, il più crudele. E l’istituzione non l’ha sopportato e ha tolto di mezzo la voce pura, il sogno di Dio. Ecco l’agnello, mitezza e tenerezza di Dio che entrano nelle vene del mondo, e non andranno perdute, e porteranno frutto; se non qui altrove, se non oggi nel terzo giorno di un mondo che sta nascendo.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Nel quarto vangelo il Battesimo di Cristo al Giordano non viene narrato in presa diretta come nei sinottici, bensì filtrato e solo evocato da Giovanni Battista, che però non sta a raccontarci l’avvenimento, ma incide nel nostro immaginario due dense e folgoranti immagini, agnello e colomba, che attraverseranno i secoli parlandoci del mistero di Gesù. Ma quanti volti ha questo Gesù!? Come poter cogliere la sua identità a partire dagli indizi disseminati nei racconti, dalle metafore, dalle immagini riportate dagli evangelisti? Io sono il Bel Pastore, io la Porta delle pecore, io sono il Pane della vita, io la Vite, io la Via, la verità, la Vita… Tante tessere per provare a dire qualcosa di chi è Indicibile, per provare a definire l’Infinito.
Sin dal prologo l’autore si è affrettato a precisare che Giovanni “non era la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce” (v.8). La matura comunità giovannea ci regala ora il ritratto di un Battista che pare aver compiuto anch’egli un cammino, rispetto al personaggio tracciato dai sinottici. In riflessiva attesa, qui vive decentrato da sé, figura del credente che aspetta di ri-conoscere Gesù nel senso proprio del termine, il Salvatore, ansioso di cedergli il passo. Lui deve crescere; io invece, diminuire (3,30).
Mentre Gesù gli si fa incontro, il Battista interpreta gioioso la sua presenza con gli unici strumenti che all’uomo di fede sono dati, quelli della Parola. Rintraccia così nella Scrittura stessa le chiavi di lettura per riconoscere colui che, davvero, non conosceva ancora! È un’immagine del Messia che confrontata col volto del Signore che gli veniva incontro, gli ha fatto esclamare, come quando nella folla si scorge d’un tratto una persona amata, “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!”. Metafora ricchissima, memoria di un’antica liberazione avvenuta al tempo dell’Esodo, presentimento di un’altra ancora attesa, ma fatta vicina. L’agnello nel memoriale rituale della Pasqua (Es 12,5) era la carne che aveva nutrito il popolo all’inizio del cammino dalla terra di schiavitù e di morte verso la terra di vita.
Era il sangue, sparso sugli stipiti delle case, che aveva stornato la mano dell’angelo vendicatore del peccato. Era il centro della festa primaverile che continuava a raccogliere la famiglia nella gratitudine al Signore per il dono della libertà. Ed era anche l’immagine della mitezza inerme, vessata dalla violenza del mondo. Giovanni ha trovato l’atteso. Ma in realtà ha davanti il Mite, lui che mite non era. Ha trovato chi non alza la voce, lui che urlava: “razza di vipere”. Ha trovato chi non spezza la canna incrinata, lui che vedeva l’ascia alla radice dell’albero, ha riconosciuto colui che non vendica il peccato ma si offre per spazzarlo via, l’agnello che offrirà la sua vita per cancellare la nostra morte.
All’immagine dell’agnello pasquale si sovrappone quella cantata da Isaia 53,7: “era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”. Quel Servo sofferente, il non-violento che prende e porta su di sé il peccato dei suoi, per liberarli, appunto dalla catena ininterrotta del male, non reagendo ai colpi della violenza, ma spegnendola nella sua carne, sino a morirne per dare ad altri salvezza. Agnello, immagine entrata nella liturgia, ripresentata a ogni celebrazione, a volte slittata verso una indebita deriva sacrificale: l’agnello non è, nemmeno nel Levitico, vittima destinata al sacrificio espiatorio, ma a quello, ben più vitale, di comunione. E la Pasqua è tutta una festa, il passaggio dalla nostra zona di morte ad un’altra, inedita, possibilità di vita. “Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa [… ] con azzimi di sincerità e di verità” (1Cor 5,7-8).
Giovanni facendosi testimone perché Egli sia reso visibile a tutti rammenta di aver contemplato sopra di Lui lo Spirito del Signore scendere come una colomba dal cielo. Ancora un simbolo: la colomba che in Genesi dopo il diluvio non trova dove posarsi, perché il mondo è inondato dal fango, segno dell’ira divina, si carica ora di una valenza nuovissima e forte; è lo Spirito di Dio che si ferma e rimane per sempre sopra Gesù. Spirito della Genesi, librato sulle acque a presiedere il progredire di quella creazione che ha raggiunto ora la piena umanità nel Figlio, inondato per sempre dalla Vita del Padre. Visibilità della relazione d’amore che li unisce indissolubilmente e reciprocamente. Sarà questa Vita eccedente, comunicata poi a noi in dono, a spazzare, a togliere l’aridità del peccato, che è il rifiuto della gioia e l’inettitudine alla fraternità. Memoria indelebile della tenerezza fedele e tenace del nostro Dio verso ogni nostra fragilità.
Raffaela
Comunità Kairos
II domenica
Tempo ordinario, Anno A
Letture: Isaia 49,3.5-6; Salmo 39; Prima lettera ai Corinzi 1,1-3; Giovanni 1,29-34
Il mondo ci prova, ha tentato, ma non ce la fa a fiorire secondo il sogno di Dio: gli uomini non ce la fanno a raggiungere la felicità. Dio ha guardato l’umanità, l’ha trovata smarrita, malata, sperduta e se n’è preso cura. È venuto, e invece del ripudio o del castigo, ha portato liberazione e guarigione. Lo afferma il profeta roccioso e selvatico, Giovanni delle acque, quando dichiara: ecco l’agnello che toglie il peccato del mondo. Sono parole di guarigione, eco della profezia di Isaia, rilanciata dalla prima Lettura: ecco il mio servo, per restaurare le tribù di Giacobbe. Anzi, è troppo poco: per portare la mia salvezza fino all’estremità della terra. Giovanni parlava in lingua aramaica, come Gesù, come la gente del popolo, e per dire “ecco l’agnello” ha certamente usato il termine taljah, che indica al tempo stesso “agnello” e “servo”. E la gente capiva che quel giovane uomo Gesù, più che un predestinato a finire sgozzato come un agnello nell’ora dei sacrifici nel cortile del tempio, tra l’ora sesta e l’ora nona, era invece colui che avrebbe messo tutte le sue energie al servizio del sogno di Dio per l’umanità, con la sua vita buona, bella e felice.
Servo-agnello, che toglie il peccato del mondo. Al singolare. Non i peccati, ma piuttosto la loro matrice e radice, la linfa vitale, il grembo che partorisce azioni che sono il contrario della vita, quel pensiero strisciante che si insinua dovunque, per cui mi importa solo di me, e non mi toccano le lacrime o la gioia contagiosa degli altri, non mi importano, non esistono, non ci sono, non li vedo. Servo-agnello, guaritore dell’unico peccato che è il disamore. Non è venuto come leone, non come aquila, ma come agnello, l’ultimo nato del gregge, a liberarci da una idea terribile e sbagliata di Dio, su cui prosperavano le istituzioni di potere in Israele.
Gesù prende le radici del potere, le strappa, le capovolge al sole e all’aria, capovolge quella logica che metteva in cima a tutto un Dio dal potere assoluto, compreso quello di decretare la tua morte; e sotto di lui uomini che applicavano a loro volta questo potere, ritenuto divino, su altri uomini, più deboli di loro, in una scala infinita, giù fino all’ultimo gradino. L’agnello-servo, il senza potere, è un “no!” gridato in faccia alla logica del mondo, dove ha ragione sempre il più forte, il più ricco, il più astuto, il più crudele. E l’istituzione non l’ha sopportato e ha tolto di mezzo la voce pura, il sogno di Dio. Ecco l’agnello, mitezza e tenerezza di Dio che entrano nelle vene del mondo, e non andranno perdute, e porteranno frutto; se non qui altrove, se non oggi nel terzo giorno di un mondo che sta nascendo.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Nel quarto vangelo il Battesimo di Cristo al Giordano non viene narrato in presa diretta come nei sinottici, bensì filtrato e solo evocato da Giovanni Battista, che però non sta a raccontarci l’avvenimento, ma incide nel nostro immaginario due dense e folgoranti immagini, agnello e colomba, che attraverseranno i secoli parlandoci del mistero di Gesù. Ma quanti volti ha questo Gesù!? Come poter cogliere la sua identità a partire dagli indizi disseminati nei racconti, dalle metafore, dalle immagini riportate dagli evangelisti? Io sono il Bel Pastore, io la Porta delle pecore, io sono il Pane della vita, io la Vite, io la Via, la verità, la Vita… Tante tessere per provare a dire qualcosa di chi è Indicibile, per provare a definire l’Infinito.
Sin dal prologo l’autore si è affrettato a precisare che Giovanni “non era la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce” (v.8). La matura comunità giovannea ci regala ora il ritratto di un Battista che pare aver compiuto anch’egli un cammino, rispetto al personaggio tracciato dai sinottici. In riflessiva attesa, qui vive decentrato da sé, figura del credente che aspetta di ri-conoscere Gesù nel senso proprio del termine, il Salvatore, ansioso di cedergli il passo. Lui deve crescere; io invece, diminuire (3,30).
Mentre Gesù gli si fa incontro, il Battista interpreta gioioso la sua presenza con gli unici strumenti che all’uomo di fede sono dati, quelli della Parola. Rintraccia così nella Scrittura stessa le chiavi di lettura per riconoscere colui che, davvero, non conosceva ancora! È un’immagine del Messia che confrontata col volto del Signore che gli veniva incontro, gli ha fatto esclamare, come quando nella folla si scorge d’un tratto una persona amata, “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!”. Metafora ricchissima, memoria di un’antica liberazione avvenuta al tempo dell’Esodo, presentimento di un’altra ancora attesa, ma fatta vicina. L’agnello nel memoriale rituale della Pasqua (Es 12,5) era la carne che aveva nutrito il popolo all’inizio del cammino dalla terra di schiavitù e di morte verso la terra di vita.
Era il sangue, sparso sugli stipiti delle case, che aveva stornato la mano dell’angelo vendicatore del peccato. Era il centro della festa primaverile che continuava a raccogliere la famiglia nella gratitudine al Signore per il dono della libertà. Ed era anche l’immagine della mitezza inerme, vessata dalla violenza del mondo. Giovanni ha trovato l’atteso. Ma in realtà ha davanti il Mite, lui che mite non era. Ha trovato chi non alza la voce, lui che urlava: “razza di vipere”. Ha trovato chi non spezza la canna incrinata, lui che vedeva l’ascia alla radice dell’albero, ha riconosciuto colui che non vendica il peccato ma si offre per spazzarlo via, l’agnello che offrirà la sua vita per cancellare la nostra morte.
All’immagine dell’agnello pasquale si sovrappone quella cantata da Isaia 53,7: “era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”. Quel Servo sofferente, il non-violento che prende e porta su di sé il peccato dei suoi, per liberarli, appunto dalla catena ininterrotta del male, non reagendo ai colpi della violenza, ma spegnendola nella sua carne, sino a morirne per dare ad altri salvezza. Agnello, immagine entrata nella liturgia, ripresentata a ogni celebrazione, a volte slittata verso una indebita deriva sacrificale: l’agnello non è, nemmeno nel Levitico, vittima destinata al sacrificio espiatorio, ma a quello, ben più vitale, di comunione. E la Pasqua è tutta una festa, il passaggio dalla nostra zona di morte ad un’altra, inedita, possibilità di vita. “Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa [… ] con azzimi di sincerità e di verità” (1Cor 5,7-8).
Giovanni facendosi testimone perché Egli sia reso visibile a tutti rammenta di aver contemplato sopra di Lui lo Spirito del Signore scendere come una colomba dal cielo. Ancora un simbolo: la colomba che in Genesi dopo il diluvio non trova dove posarsi, perché il mondo è inondato dal fango, segno dell’ira divina, si carica ora di una valenza nuovissima e forte; è lo Spirito di Dio che si ferma e rimane per sempre sopra Gesù. Spirito della Genesi, librato sulle acque a presiedere il progredire di quella creazione che ha raggiunto ora la piena umanità nel Figlio, inondato per sempre dalla Vita del Padre. Visibilità della relazione d’amore che li unisce indissolubilmente e reciprocamente. Sarà questa Vita eccedente, comunicata poi a noi in dono, a spazzare, a togliere l’aridità del peccato, che è il rifiuto della gioia e l’inettitudine alla fraternità. Memoria indelebile della tenerezza fedele e tenace del nostro Dio verso ogni nostra fragilità.
Raffaela
Comunità Kairos