Letture: Isaia 11,1-10; Salmo 71; Romani 15,4-9; Matteo 3,1-12
Nel deserto della Giudea e sulle rive attorno al lago di Galilea, per Giovanni e per Gesù le parole generative sono le stesse : “convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2). Tre annunci in uno. A) Esiste un regno, cieli nuovi e terra nuova, un mondo nuovo che preme per venire alla luce. B) Un regno incamminato. I due profeti non dicono cos’è il Regno, ma dove è. Lo fanno con una parola calda di speranza: “vicino”. Dio è vicino, è qui. Seconda buona notizia: il Pellegrino eterno ha camminato molto, il suo esodo approda qui, alla radice del vivere, non ai margini della vita, si fa intimo come un pane nella bocca, una parola detta sul cuore portata dal respiro: infatti “vi battezzerà nello Spirito Santo”, vi immergerà dentro il soffio e il mare di Dio, sarete avvolti, intrisi, impregnati della vita stessa di Dio, in ogni vostra fibra.
C) Convertitevi, ossia mettetela in cammino la vostra vita, non per una imposizione da fuori ma per una seduzione. La vita non cambia per decreto-legge, ma per una bellezza almeno intravista: sulla strada che io percorro, il cielo è più vicino e più azzurro, la terra più dolce di frutti, ci sono più sorrisi e occhi con luce. Convertitevi: giratevi verso la luce, perché la luce è già qui. Infatti viene uno che è più grande di me. I due profeti usano lo stesso verbo e sempre al tempo presente: «Dio viene». Non: verrà, un giorno; oppure: sta per venire, sarà qui tra poco. E ci sarebbe bastato. Semplice, diretto, sicuro: viene. Come un seme che diventa albero, come la linea mattinale della luce, che sembra minoritaria ma è vincente, piccola breccia, piccolo buco bianco che ingoia il nero della notte. Giorno per giorno, continuamente, Dio viene. Anche se non lo vedi, viene; anche se non ti accorgi di lui, è in cammino su tutte le strade.
È bello questo mondo immaginato colmo di orme di Dio. Isaia, il sognatore, annuncia che Dio non sta non solo nell’intimo, in un’esperienza soggettiva, ma si è insediato al centro della vita, come un re sul trono, al centro delle relazioni e delle connessioni tra i viventi, rete che raccoglie insieme, in armonia, il lupo e l’agnello, il leone e il bue, il bambino e il serpente, uomo e donna, arabo ed ebreo, musulmano e cristiano, bianco e nero, russo e ucraino, per il fiorire della vita in tutte le sue forme. Dio viene. Io credo nella buona notizia di Isaia, Giovanni, Gesù. Lo credo non per un facile ottimismo. Il cristiano non è ottimista, ha speranza. L’ottimista tra due ipotesi sceglie quella più positiva o probabile. Io scelgo il Regno per un atto di fede: perché Dio si è impegnato con noi, in questa storia, ha le mani impigliate nel folto di questa vita, con un intreccio così scandaloso con la nostra carne da arrivare fino al legno di una mangiatoia e di una croce.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Di Giovanni parlano non solo i vangeli, ma anche gli storici, come l’ebreo Giuseppe Flavio, il quale lo descrive come un «uomo buono, che esortava i giudei a condurre una vita virtuosa e a praticare la giustizia vicendevole e la pietà verso Dio, invitandoli ad accostarsi insieme al battesimo». Il “veniente” che Giovanni immagina non sarà affatto il Messia Gesù di Nazaret: il Battista lo aveva immaginato come un giudice spietato, che sarebbe venuto non a salvare, ma a regolare i conti proponendo la soluzione più facile per rimediare al dilagare del peccato: la morte del peccatore. Gesù non eserciterà mai in tal modo il suo ruolo messianico, e se riprenderà alcune parole del Battista, come quella sulla conversione (cf. Mt 4,17: «Convertitevi»), dirà di essere venuto non per la rovina, ma per la salvezza dei peccatori.
Nonostante l’errore di prospettiva, dalle parole del Battista si coglie un urgente appello alla conversione, caratteristico del tempo di Avvento. La parola greca usata per esprimere tale annuncio è metánoia, che alla lettera potremmo scomporre in due concetti, “oltre” (meta) la “mente” (nous), per dire un “cambiamento di parere”. Soprattutto Gesù, più che il Battista (il quale invitava a una revisione dei costumi e alla correzione delle ingiustizie), chiederà una conversione del modo di pensare per accogliere il regno e la sua novità. Il Battista si trova in una condizione alquanto anomala, che doveva suscitare stupore: nonostante fosse figlio di un sacerdote (cf. Lc 1), vive nel deserto della Giudea.
Questo elemento deve aver impressionato la memoria dei suoi contemporanei, ed è rimasto nel racconto di Luca, e cioè il fatto che Giovanni deve essersi staccato dalla “professione” del padre: «il figlio unico di un sacerdote di Gerusalemme aveva infatti l’obbligo solenne di subentrare al padre nella sua funzione e di garantire, mediante un matrimonio e dei figli, la continuità della propria stirpe sacerdotale. Se questa era la reale situazione storica, a un certo punto Giovanni deve aver voltato le spalle e deve aver scandalosamente – per occhi giudei – rifiutato il suo obbligo di essere sacerdote sulle orme del padre». Da questo gesto clamoroso parte la storia del Giovanni che conosciamo, e che il vangelo di Matteo ci presenta oggi.
Il Battista deve essere andato volutamente vicino al luogo da cui era salito al cielo Elia, il profeta del fuoco che aveva tentato di riportare Israele a Dio, il cui ritorno avrebbe preceduto il Messia. Forse per questa ragione Giovanni veste come Elia (2Re 1,8), ma poiché la sua dieta era basata sulle regole di purità giudaiche, essendo le locuste insetti di cui ci si può nutrire (Lv 11,22), ed essendo il miele delle api altrettanto kosher (a meno che qui non si intendessero altri alimenti, come ad es. carrube e datteri), è però possibile che il Precursore avesse anche altre preoccupazioni. Poiché l’impurità impediva di accostarsi a Dio, Giovanni non compie solo gesti ascetici, ma evita di vestirsi di tessuti toccati da donne o di mangiare cibi toccati da altri, per paura di contaminarsi.
Anche se il Battista non ha visto con chiarezza il volto del Messia, ha vissuto coerentemente fino in fondo la sua attesa, nel deserto e vicino al Giordano, dove battezzava. Il tempo di Avvento è un’occasione da non sprecare e per stare, anche oggi, nel nostro deserto, rientrando in noi stessi, cambiando mentalità e vita, per aprirci a Colui che deve venire. Le parole pronunciate da Giovanni, poi, soprattutto oggi sono attuali, non solo perché annunciano la conversione per il perdono dai peccati, ma anche perché sono confermate e rese credibili da una vita autentica: il Battista vive in modo essenziale, e senza alcuna forma di narcisismo è tutto proteso verso chi lui non conosce ancora, ma che già riconosce come più forte di lui. Dal Battista impariamo anche noi a non guardare tanto a noi stessi, ma ad aprirci agli altri e all’Altro, e soprattutto impariamo a cercare, magari anche lì dove viviamo, un nostro piccolo deserto dove non risuoni solo la nostra voce, ma quella dell’unica Parola che salva.
P. Giulio Michelini
La parte buona
II domenica di Avvento
Anno A
Letture: Isaia 11,1-10; Salmo 71; Romani 15,4-9; Matteo 3,1-12
Nel deserto della Giudea e sulle rive attorno al lago di Galilea, per Giovanni e per Gesù le parole generative sono le stesse : “convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2). Tre annunci in uno. A) Esiste un regno, cieli nuovi e terra nuova, un mondo nuovo che preme per venire alla luce. B) Un regno incamminato. I due profeti non dicono cos’è il Regno, ma dove è. Lo fanno con una parola calda di speranza: “vicino”. Dio è vicino, è qui. Seconda buona notizia: il Pellegrino eterno ha camminato molto, il suo esodo approda qui, alla radice del vivere, non ai margini della vita, si fa intimo come un pane nella bocca, una parola detta sul cuore portata dal respiro: infatti “vi battezzerà nello Spirito Santo”, vi immergerà dentro il soffio e il mare di Dio, sarete avvolti, intrisi, impregnati della vita stessa di Dio, in ogni vostra fibra.
C) Convertitevi, ossia mettetela in cammino la vostra vita, non per una imposizione da fuori ma per una seduzione. La vita non cambia per decreto-legge, ma per una bellezza almeno intravista: sulla strada che io percorro, il cielo è più vicino e più azzurro, la terra più dolce di frutti, ci sono più sorrisi e occhi con luce. Convertitevi: giratevi verso la luce, perché la luce è già qui. Infatti viene uno che è più grande di me. I due profeti usano lo stesso verbo e sempre al tempo presente: «Dio viene». Non: verrà, un giorno; oppure: sta per venire, sarà qui tra poco. E ci sarebbe bastato. Semplice, diretto, sicuro: viene. Come un seme che diventa albero, come la linea mattinale della luce, che sembra minoritaria ma è vincente, piccola breccia, piccolo buco bianco che ingoia il nero della notte. Giorno per giorno, continuamente, Dio viene. Anche se non lo vedi, viene; anche se non ti accorgi di lui, è in cammino su tutte le strade.
È bello questo mondo immaginato colmo di orme di Dio. Isaia, il sognatore, annuncia che Dio non sta non solo nell’intimo, in un’esperienza soggettiva, ma si è insediato al centro della vita, come un re sul trono, al centro delle relazioni e delle connessioni tra i viventi, rete che raccoglie insieme, in armonia, il lupo e l’agnello, il leone e il bue, il bambino e il serpente, uomo e donna, arabo ed ebreo, musulmano e cristiano, bianco e nero, russo e ucraino, per il fiorire della vita in tutte le sue forme. Dio viene. Io credo nella buona notizia di Isaia, Giovanni, Gesù. Lo credo non per un facile ottimismo. Il cristiano non è ottimista, ha speranza. L’ottimista tra due ipotesi sceglie quella più positiva o probabile. Io scelgo il Regno per un atto di fede: perché Dio si è impegnato con noi, in questa storia, ha le mani impigliate nel folto di questa vita, con un intreccio così scandaloso con la nostra carne da arrivare fino al legno di una mangiatoia e di una croce.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Di Giovanni parlano non solo i vangeli, ma anche gli storici, come l’ebreo Giuseppe Flavio, il quale lo descrive come un «uomo buono, che esortava i giudei a condurre una vita virtuosa e a praticare la giustizia vicendevole e la pietà verso Dio, invitandoli ad accostarsi insieme al battesimo». Il “veniente” che Giovanni immagina non sarà affatto il Messia Gesù di Nazaret: il Battista lo aveva immaginato come un giudice spietato, che sarebbe venuto non a salvare, ma a regolare i conti proponendo la soluzione più facile per rimediare al dilagare del peccato: la morte del peccatore. Gesù non eserciterà mai in tal modo il suo ruolo messianico, e se riprenderà alcune parole del Battista, come quella sulla conversione (cf. Mt 4,17: «Convertitevi»), dirà di essere venuto non per la rovina, ma per la salvezza dei peccatori.
Nonostante l’errore di prospettiva, dalle parole del Battista si coglie un urgente appello alla conversione, caratteristico del tempo di Avvento. La parola greca usata per esprimere tale annuncio è metánoia, che alla lettera potremmo scomporre in due concetti, “oltre” (meta) la “mente” (nous), per dire un “cambiamento di parere”. Soprattutto Gesù, più che il Battista (il quale invitava a una revisione dei costumi e alla correzione delle ingiustizie), chiederà una conversione del modo di pensare per accogliere il regno e la sua novità. Il Battista si trova in una condizione alquanto anomala, che doveva suscitare stupore: nonostante fosse figlio di un sacerdote (cf. Lc 1), vive nel deserto della Giudea.
Questo elemento deve aver impressionato la memoria dei suoi contemporanei, ed è rimasto nel racconto di Luca, e cioè il fatto che Giovanni deve essersi staccato dalla “professione” del padre: «il figlio unico di un sacerdote di Gerusalemme aveva infatti l’obbligo solenne di subentrare al padre nella sua funzione e di garantire, mediante un matrimonio e dei figli, la continuità della propria stirpe sacerdotale. Se questa era la reale situazione storica, a un certo punto Giovanni deve aver voltato le spalle e deve aver scandalosamente – per occhi giudei – rifiutato il suo obbligo di essere sacerdote sulle orme del padre». Da questo gesto clamoroso parte la storia del Giovanni che conosciamo, e che il vangelo di Matteo ci presenta oggi.
Il Battista deve essere andato volutamente vicino al luogo da cui era salito al cielo Elia, il profeta del fuoco che aveva tentato di riportare Israele a Dio, il cui ritorno avrebbe preceduto il Messia. Forse per questa ragione Giovanni veste come Elia (2Re 1,8), ma poiché la sua dieta era basata sulle regole di purità giudaiche, essendo le locuste insetti di cui ci si può nutrire (Lv 11,22), ed essendo il miele delle api altrettanto kosher (a meno che qui non si intendessero altri alimenti, come ad es. carrube e datteri), è però possibile che il Precursore avesse anche altre preoccupazioni. Poiché l’impurità impediva di accostarsi a Dio, Giovanni non compie solo gesti ascetici, ma evita di vestirsi di tessuti toccati da donne o di mangiare cibi toccati da altri, per paura di contaminarsi.
Anche se il Battista non ha visto con chiarezza il volto del Messia, ha vissuto coerentemente fino in fondo la sua attesa, nel deserto e vicino al Giordano, dove battezzava. Il tempo di Avvento è un’occasione da non sprecare e per stare, anche oggi, nel nostro deserto, rientrando in noi stessi, cambiando mentalità e vita, per aprirci a Colui che deve venire. Le parole pronunciate da Giovanni, poi, soprattutto oggi sono attuali, non solo perché annunciano la conversione per il perdono dai peccati, ma anche perché sono confermate e rese credibili da una vita autentica: il Battista vive in modo essenziale, e senza alcuna forma di narcisismo è tutto proteso verso chi lui non conosce ancora, ma che già riconosce come più forte di lui. Dal Battista impariamo anche noi a non guardare tanto a noi stessi, ma ad aprirci agli altri e all’Altro, e soprattutto impariamo a cercare, magari anche lì dove viviamo, un nostro piccolo deserto dove non risuoni solo la nostra voce, ma quella dell’unica Parola che salva.
P. Giulio Michelini
La parte buona