II domenica di Quaresima

Anno A

Letture: Genesi 12, 1-4; Salmo 32; 2 Timoteo 1,8-10; Matteo 17, 1-9

La Quaresima, quel tempo che diresti sotto il segno della penitenza, ci spiazza subito con un Vangelo pieno di sole e di luce. Dai quaranta giorni del deserto di sabbia, al monte della trasfigurazione; dall’arsura gialla, ai volti vestiti di sole. La Quaresima ha il passo delle stagioni, inizia in inverno e termina in primavera, quando la vita intera mostra la sua verità profonda, che un poeta esprime così: «Tu sei per me ciò ch’è la primavera per i fiori» (G. Centore). «Verità è la fioritura dell’essere» (R. Guardini). «Il Regno dei cieli verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme» (G. Vannucci). Il percorso della realtà è come quello dello spirito: un crescere della vita. Gesù prende con sé i tre discepoli più attenti, chiama di nuovo i primi chiamati, e li conduce sopra un alto monte, in disparte. Geografia santa: li conduce in alto, là dove la terra s’innalza nella luce, dove l’azzurro trascolora dolcemente nella neve, dove nascono le acque che fecondano la terra. «E si trasfigurò davanti ai loro occhi».

Nessun dettaglio è riferito se non quello delle vesti di Gesù diventate splendenti. La luce è così eccessiva che non si limita al corpo, ma dilaga verso l’esterno, cattura la materia degli abiti e la trasfigura. Le vesti e il volto di Gesù sono la scrittura, anzi la calligrafia del cuore. L’entusiasmo di Pietro, quella esclamazione stupita: che bello qui! Ci fanno capire che la fede per essere pane, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un “che bello” gridato a pieno cuore. Il compito più urgente dei cristiani è ridipingere l’icona di Dio: sentire e raccontare un Dio luminoso, solare, ricco non di troni e di poteri, ma il cui tabernacolo più vero è la luminosità di un volto; un Dio finalmente bello, come sul Tabor.

Ma a noi non interessa un Dio che illumini solo se stesso e non illumini l’uomo, «non ci interessa un divino che non faccia fiorire l’umano. Un Dio cui non corrisponda la fioritura dell’umano, il rigoglio della vita, non merita che a Lui ci dedichiamo» (D. Bonhoeffer). Come Pietro, siamo tutti mendicanti di luce. Vogliamo vedere il mondo in altra luce, venire davvero alla luce, perché noi nasciamo a metà, e tutta la vita ci serve per nascere del tutto. Viene una nube, e dalla nube una Voce, che indica il primo passo: ascoltate lui! Il Dio che non ha volto, ha invece una voce. Gesù è la Voce diventata Volto e corpo. Il suo occhi e le sue mani sono il visibile parlare di Dio. Come il Signore Gesù abbiamo dentro non un cuore di tenebra ma un seme di luce. La via cristiana altro non è che la fatica gioiosa di liberare tutta la luce e la bellezza seminate in noi.

P. Ermes Ronchi
Avvenire

 

Il cammino quaresimale, dopo averci condotto nel deserto dove abbiamo contemplato Gesù messo alla prova nelle varie tentazioni, oggi ci conduce su un alto monte dove lo contempliamo trasfigurato, rivestito di quella gloria di Figlio di Dio che aveva prima di farsi uomo come noi. Tutti e tre i vangeli sinottici narrano questo evento e lo collocano dopo la professione di fede di Pietro e dopo il primo annuncio della passione, morte e resurrezione di Gesù; questo sottolinea l’importanza e la storicità di questo evento. Il monte della trasfigurazione non è localizzato dai tre evangelisti, ma viene definito l’alto monte in disparte. La tradizione è solita identificare questo luogo con il monte Tabor, che svetta sulla pianura della Galilea raggiungibile “dopo sei giorni” da Cesarea, luogo da dove proveniva Gesù.

Gesù era solito salire sui monti a pregare. Il monte, nel vangelo di Matteo, è il luogo della rivelazione di Dio: sul monte hanno avuto luogo le tentazioni di Gesù (Mt 4,8), il discorso delle beatitudini (Mt 5,1) e le apparizioni del Risorto (Mt 28,16). Gesù, infatti, sul Monte va a cercare, nella relazione col Padre, nel dialogo intimo con Lui, il significato di ciò che sta vivendo. Questa volta però non sale da solo, ma prende con sé tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, che sono tre dei quattro discepoli che Gesù aveva chiamato per primi (4,18-22) e che troviamo spesso vicini a Lui, coinvolti in modo particolare nella sua vita. Gesù li porta sul monte alto, in disparte, per mostrare loro la gloria del Padre riflessa sul Suo volto, ovvero rivelare la bontà e l’amore di Dio. Vuole quasi confermare la dichiarazione di Pietro: “Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16) e, nello stesso tempo, vuole aiutare e incoraggiare i suoi discepoli ad accettare, nella fede, lo scandalo della croce. Egli stesso, poco prima, li aveva invitati a seguirlo sulla stessa sua via (Mt 16,24-25).

L’evangelista Matteo riferisce che sul monte Gesù “fu trasfigurato davanti a loro”, dando così risalto all’azione di Dio. Gesù cambiò d’aspetto e solo Matteo annota la trasformazione del volto di Gesù che diventa radioso come il sole e spende poche battute, rispetto a Marco, per dire che le vesti divennero bianche come la luce. “Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui”. I discepoli per un attimo hanno contemplato Gesù nella sua qualità divina ed ora accanto a lui vedono altre due figure: Mosè ed Elia, due grandi personaggi dell’Antico Testamento, rappresentanti la legge e i profeti e che riassumono tutta la storia della salvezza. Un aspetto significativo è che entrambi questi profeti sono stati sull’Oreb e sono stati destinatari di una rivelazione da parte di Dio (Es 24; 1Re 19).

Anche la loro morte è degna di nota: Mosè e morto prima di entrare nella terra promessa (Dt 34), Elia è stato rapito su un carro di fuoco come da un turbine (2Re 2); infatti è di questo che Gesù sta parlando con loro, come esplicita Luca 9, 31: “del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme”. Ed è qui che Pietro, coraggioso e impulsivo come sempre, si intromette nel discorso, verbalizzando i propri sentimenti: “Signore è bello per noi esser qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia” (v. 4). Un intervento indubbiamente inopportuno. Non ha ancora ascoltato e ha parlato prima di cogliere il senso profondo di questo avvenimento. Tant’è che, mentre Pietro sta ancora parlando, “una nube luminosa” avvolge il gruppetto e i tre discepoli sono in grado di ascoltare la voce divina: “Questi è il Figlio mio, il prediletto: in lui ho posto il mio amore. Ascoltatelo!” (v. 5b).

Questa è la seconda volta che Dio parla: già nel momento del Battesimo di Gesù era intervenuto per proclamare Gesù il Figlio prediletto. Ora aggiunge l’imperativo: “ascoltatelo” perché ora la voce non è solo per Gesù. È un invito che non può essere disatteso. È un ascolto che deve farsi obbedienza e sequela di Gesù, al quale occorre porre una fiducia incondizionata per seguirlo sempre e dovunque, perché in lui il progetto di Dio trova piena realizzazione.

Dopo l’ascolto della voce di Dio, solo Matteo descrive così dettagliatamente la caduta dei discepoli: “caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore” (v. 6). Interessante che Matteo metta questa reazione in relazione non con la visione di Gesù trasfigurato, ma con l’ascolto della voce divina, fino all’intervento di Gesù che li conforta, che infonde loro coraggio: “Alzatevi e non temete”. In questo gesto di Gesù si manifesta la bontà di Dio che sempre si china sull’uomo per aiutarlo a risollevarsi dai momenti di difficoltà e di scoraggiamento. Ora tutto è ritornato alla normalità, non ci sono più Mosè ed Elia, non si vede più la nube luminosa, né si sente la voce di Dio. Rimane solo Gesù. Lui è quello che conta. Solamente da lui viene la salvezza per l’uomo e la trasfigurazione è una speranza che raggiunge tutti gli uomini. Tutto il racconto della trasfigurazione ha nello sfondo la croce. Senza croce, senza affrontare la vita in modo che diventi obbedienza a Dio, non ci può essere alcuna trasfigurazione e resurrezione. La logica di Dio è diversa dalla nostra: la gloria passa attraverso il dolore e la morte. Lo è stato per Gesù e lo è anche per noi, che siamo fatti a sua immagine.

Monastero di Sant’Agata Feltria