Letture: Isaia 35,1-6a.8a.10; Salmo 145; Lettera di Giacomo 5,7-10; Matteo 11,2-11
Sei tu o dobbiamo aspettare un altro? Giovanni Battista, il più grande tra i nati di donna, non ha più le idee chiare. Lui, “più che un profeta”, dubita e chiede aiuto. Non so voi, ma io credo e dubito al tempo stesso; e Dio gode che io mi ponga e gli ponga delle domande. Non so voi, ma io credo e non credo, in duello, come il padre disperato del racconto di Marco, che ha un figlio che lo spirito butta nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo, e confessa a Gesù: “io credo, ma tu aiutami perché non credo” (Mc 9,23). E Gesù risponde in modo meraviglioso: non offre definizioni, pensieri, idee, teologia, neppure risponde con un sì o un no, prendere o lasciare. Racconta delle storie. C’era una volta un cieco… e nel paese vicino viveva uno zoppo dalla nascita. Racconta sei storie che hanno comunicato vita, così come era accaduto nei sei giorni della creazione, quando la vita fioriva in tutte le sue forme. Sei storie di nuova creazione.
Gesù parte dagli ultimi della fila, non comincia da pratiche religiose, ma dalle lacrime: ciechi, storpi, sordi, lebbrosi, morti, poveri…; da dove la vita è più minacciata. E fa per loro un vestito di carezze. Non guarisce gente per rinforzare le fila dei discepoli, per farne degli adepti, per tirarli alla fede come pesci presi all’amo della salute ritrovato, ma per restituirli a umanità piena e guarita, perché siano uomini liberi e totali. E non debbano più piangere. La Bibbia è fatta soprattutto di narrazioni, Le storie dicono che senso diamo al mondo, cioè “che storia ci stiamo raccontando?”. Tutte le grandi narrazioni dicono questo: come si affronta la morte, raccontano di come si fa a non morire, a ripartire. Sono iniziazione alla vita. Ai discepoli inviati da Giovanni Gesù chiede di entrare in una nuova narrazione del mondo. Entrano e vedono nascere la terra nuova e il nuovo cielo. E chiede loro di continuare il racconto: raccontate ciò che vedete e udite.
Poi il racconto si fa domanda: Cosa siete andati a vedere nel deserto? Un bravo oratore? Un trascinatore di folle? Un leader carismatico? Forse una canna sbattuta dal vento? Un opportunista che piega la schiena pur di restare al suo posto? Che cosa siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Preoccupato dell’abito firmato? Del macchinone da far vedere? Che cosa siete andati a vedere? Perché Dio non si dimostra, si mostra. Nel deserto hanno visto un corpo marchiato, scolpito, inciso dalla Parola. Giovanni ha offerto un anticipo di corpo, un capitale di incarnazione e la profezia è diventata carne e sangue. Noi tutti ci nutriamo di storie, e questa è la narrazione di cui la terra ha più bisogno per nutrirsi: storie di credenti credibili.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Davanti al card. Borromeo, che lo rimprovera per non aver unito in matrimonio Renzo e Lucia, don Abbondio risponde: «il coraggio, uno non se lo può dare». Forse siamo rimasti anche noi lì: davanti alle ingiustizie, davanti alle nostre responsabilità, ci convinciamo che in fondo non è colpa nostra; gli ostacoli sono più grandi e insormontabili. Ma anche davanti alle delusioni, quando non ci sentiamo compresi, siamo portati a gettare la spugna, ci diciamo che non vale la pena. Lo scoraggiamento è un tratto caratteristico del nostro tempo, ma è anche una sconfessione di Dio, vuol dire rinunciare a vedere la sua opera nella storia.
La liturgia di questa terza domenica di Avvento ci invita a guardare meglio, a guardare più in profondità, per ritrovare coraggio. C’è un sentiero che si apre nella steppa. Dio traccia una strada là dove sembra impossibile (Is 35,8). È proprio allora che riconosciamo lo stile di Dio, quando ci accorgiamo che la salvezza viene dall’impensabile, proprio da dove non ci aspettavamo: «lo zoppo salterà come un cervo» (Is 35,6). Per Israele quella via santa che si apre nell’impossibile è la via del ritorno: mentre è in esilio, il popolo non vede più la terra. Forse la sogna, c’è un desiderio, un pensiero nostalgico da scacciare perché fa male. E invece siamo invitati a non perdere mai la speranza, ma a imitare l’agricoltore, che dopo la semina ha davanti a sé solo una terra brulla, senza erba (Gc 5,7). Nessun segno parla di vita. Ma nel suo cuore, l’agricoltore vede già il fiore, lo desidera, lo attende, spera. La speranza ci fa vedere quello che non c’è ancora. Per questo chi spera è già nella gioia, perché vede con lo sguardo del cuore l’opera di Dio.
In questa domenica infatti Gesù insiste su questa azione: vedere. Ai discepoli del Battista che lo interrogano sulla sua identità, Gesù suggerisce di riferire quello che vedono, alla gente che lo ascolta, Gesù chiede cosa sono andati a vedere nel deserto. Molte volte infatti la nostra vita dipende da come guardiamo: davvero guardiamo come stanno le cose? Molto spesso ci facciamo una nostra idea, parola che non a caso viene proprio dal verbo vedere in greco.
L’idea è una visione interiore che tante volte sostituisce il vedere autentico: non vediamo più perché siamo occupati dalle nostre idee, le diamo per scontato. E molte volte sono idee non solo false, ma sono anche idee che ci deprimono, che ci avvelenano. Quando non guardiamo più la realtà, quando non vediamo più chi ci sta accanto, quando non riconosciamo più gli errori che stiamo facendo, quando non guardiamo più il modo in cui stiamo trattando gli altri, abbiamo fatto delle nostre idee i nostri idoli. Le nostre idee dominano e orientano la nostra vita, le adoriamo, soffriamo per loro. ma la realtà sta da un’altra parte e soprattutto non vediamo più quello che Dio sta operando nella nostra storia.
Persino Giovanni Battista deve uscire dalla sua idea di Dio. Giovanni, in questa pagina del Vangelo, è in prigione, ma sembra che la vera prigione, quella più pericolosa, sia un’altra: è la prigione delle idee, delle convinzioni. Se Giovanni non avesse cercato di uscire dalla prigione interiore delle sue convinzioni su Dio, non avrebbe mai incontrato il Messia. Giovanni, tra l’altro, è anche capace di farsi aiutare: trovandosi in prigione, manda altri a chiedere, cioè a vedere, a rendersi conto della realtà di Dio. Ma a volte siamo così superbi che non ci facciamo neanche aiutare e preferiamo rimanere chiusi nella prigione del nostro io.
Per quanto possiamo contemplare l’azione di Dio non riusciremo mai a conoscerlo fino in fondo: Dio ci trascende, ci sfugge, è sempre oltre, non può essere com-preso: si comprehendis non est Deus, diceva Sant’Agostino. La gioia davanti all’opera di Dio consiste allora nel guardare, lasciandosi sorprendere, anzi lasciandosi liberare dalle idee autoreferenziali, che molto spesso costituiscono le sbarre della nostra prigione interiore.
P. Gaetano Piccolo
Rigantur mentes
III domenica di Avvento
Anno A
Letture: Isaia 35,1-6a.8a.10; Salmo 145; Lettera di Giacomo 5,7-10; Matteo 11,2-11
Sei tu o dobbiamo aspettare un altro? Giovanni Battista, il più grande tra i nati di donna, non ha più le idee chiare. Lui, “più che un profeta”, dubita e chiede aiuto. Non so voi, ma io credo e dubito al tempo stesso; e Dio gode che io mi ponga e gli ponga delle domande. Non so voi, ma io credo e non credo, in duello, come il padre disperato del racconto di Marco, che ha un figlio che lo spirito butta nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo, e confessa a Gesù: “io credo, ma tu aiutami perché non credo” (Mc 9,23). E Gesù risponde in modo meraviglioso: non offre definizioni, pensieri, idee, teologia, neppure risponde con un sì o un no, prendere o lasciare. Racconta delle storie. C’era una volta un cieco… e nel paese vicino viveva uno zoppo dalla nascita. Racconta sei storie che hanno comunicato vita, così come era accaduto nei sei giorni della creazione, quando la vita fioriva in tutte le sue forme. Sei storie di nuova creazione.
Gesù parte dagli ultimi della fila, non comincia da pratiche religiose, ma dalle lacrime: ciechi, storpi, sordi, lebbrosi, morti, poveri…; da dove la vita è più minacciata. E fa per loro un vestito di carezze. Non guarisce gente per rinforzare le fila dei discepoli, per farne degli adepti, per tirarli alla fede come pesci presi all’amo della salute ritrovato, ma per restituirli a umanità piena e guarita, perché siano uomini liberi e totali. E non debbano più piangere. La Bibbia è fatta soprattutto di narrazioni, Le storie dicono che senso diamo al mondo, cioè “che storia ci stiamo raccontando?”. Tutte le grandi narrazioni dicono questo: come si affronta la morte, raccontano di come si fa a non morire, a ripartire. Sono iniziazione alla vita. Ai discepoli inviati da Giovanni Gesù chiede di entrare in una nuova narrazione del mondo. Entrano e vedono nascere la terra nuova e il nuovo cielo. E chiede loro di continuare il racconto: raccontate ciò che vedete e udite.
Poi il racconto si fa domanda: Cosa siete andati a vedere nel deserto? Un bravo oratore? Un trascinatore di folle? Un leader carismatico? Forse una canna sbattuta dal vento? Un opportunista che piega la schiena pur di restare al suo posto? Che cosa siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Preoccupato dell’abito firmato? Del macchinone da far vedere? Che cosa siete andati a vedere? Perché Dio non si dimostra, si mostra. Nel deserto hanno visto un corpo marchiato, scolpito, inciso dalla Parola. Giovanni ha offerto un anticipo di corpo, un capitale di incarnazione e la profezia è diventata carne e sangue. Noi tutti ci nutriamo di storie, e questa è la narrazione di cui la terra ha più bisogno per nutrirsi: storie di credenti credibili.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Davanti al card. Borromeo, che lo rimprovera per non aver unito in matrimonio Renzo e Lucia, don Abbondio risponde: «il coraggio, uno non se lo può dare». Forse siamo rimasti anche noi lì: davanti alle ingiustizie, davanti alle nostre responsabilità, ci convinciamo che in fondo non è colpa nostra; gli ostacoli sono più grandi e insormontabili. Ma anche davanti alle delusioni, quando non ci sentiamo compresi, siamo portati a gettare la spugna, ci diciamo che non vale la pena. Lo scoraggiamento è un tratto caratteristico del nostro tempo, ma è anche una sconfessione di Dio, vuol dire rinunciare a vedere la sua opera nella storia.
La liturgia di questa terza domenica di Avvento ci invita a guardare meglio, a guardare più in profondità, per ritrovare coraggio. C’è un sentiero che si apre nella steppa. Dio traccia una strada là dove sembra impossibile (Is 35,8). È proprio allora che riconosciamo lo stile di Dio, quando ci accorgiamo che la salvezza viene dall’impensabile, proprio da dove non ci aspettavamo: «lo zoppo salterà come un cervo» (Is 35,6). Per Israele quella via santa che si apre nell’impossibile è la via del ritorno: mentre è in esilio, il popolo non vede più la terra. Forse la sogna, c’è un desiderio, un pensiero nostalgico da scacciare perché fa male. E invece siamo invitati a non perdere mai la speranza, ma a imitare l’agricoltore, che dopo la semina ha davanti a sé solo una terra brulla, senza erba (Gc 5,7). Nessun segno parla di vita. Ma nel suo cuore, l’agricoltore vede già il fiore, lo desidera, lo attende, spera. La speranza ci fa vedere quello che non c’è ancora. Per questo chi spera è già nella gioia, perché vede con lo sguardo del cuore l’opera di Dio.
In questa domenica infatti Gesù insiste su questa azione: vedere. Ai discepoli del Battista che lo interrogano sulla sua identità, Gesù suggerisce di riferire quello che vedono, alla gente che lo ascolta, Gesù chiede cosa sono andati a vedere nel deserto. Molte volte infatti la nostra vita dipende da come guardiamo: davvero guardiamo come stanno le cose? Molto spesso ci facciamo una nostra idea, parola che non a caso viene proprio dal verbo vedere in greco.
L’idea è una visione interiore che tante volte sostituisce il vedere autentico: non vediamo più perché siamo occupati dalle nostre idee, le diamo per scontato. E molte volte sono idee non solo false, ma sono anche idee che ci deprimono, che ci avvelenano. Quando non guardiamo più la realtà, quando non vediamo più chi ci sta accanto, quando non riconosciamo più gli errori che stiamo facendo, quando non guardiamo più il modo in cui stiamo trattando gli altri, abbiamo fatto delle nostre idee i nostri idoli. Le nostre idee dominano e orientano la nostra vita, le adoriamo, soffriamo per loro. ma la realtà sta da un’altra parte e soprattutto non vediamo più quello che Dio sta operando nella nostra storia.
Persino Giovanni Battista deve uscire dalla sua idea di Dio. Giovanni, in questa pagina del Vangelo, è in prigione, ma sembra che la vera prigione, quella più pericolosa, sia un’altra: è la prigione delle idee, delle convinzioni. Se Giovanni non avesse cercato di uscire dalla prigione interiore delle sue convinzioni su Dio, non avrebbe mai incontrato il Messia. Giovanni, tra l’altro, è anche capace di farsi aiutare: trovandosi in prigione, manda altri a chiedere, cioè a vedere, a rendersi conto della realtà di Dio. Ma a volte siamo così superbi che non ci facciamo neanche aiutare e preferiamo rimanere chiusi nella prigione del nostro io.
Per quanto possiamo contemplare l’azione di Dio non riusciremo mai a conoscerlo fino in fondo: Dio ci trascende, ci sfugge, è sempre oltre, non può essere com-preso: si comprehendis non est Deus, diceva Sant’Agostino. La gioia davanti all’opera di Dio consiste allora nel guardare, lasciandosi sorprendere, anzi lasciandosi liberare dalle idee autoreferenziali, che molto spesso costituiscono le sbarre della nostra prigione interiore.
P. Gaetano Piccolo
Rigantur mentes