IV domenica di Quaresima

Anno A

Letture: 1 Samuele 16, 1.4 6-7. 10-13; Salmo 22; Efesini 5, 8-14; Giovanni 9, 1-41

Un uomo nato cieco, così povero che possiede soltanto se stesso. E Gesù si ferma proprio per lui. Arriva la prima domanda: perché cieco? Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori? Gesù ci allontana immediatamente dall’idea che il peccato sia la spiegazione del male, la chiave di volta della religione. La bibbia non da risposte al perché del male innocente, le cerchi invano. Neppure Gesù lo spiega. Fa altro: lui libera dal male, si commuove, si avvicina, tocca, abbraccia, fa rialzare. Il dolore più che spiegazione vuole condivisione. Gesù spalma un petalo di fango sulle palpebre del cieco, lo manda alla piscina di Siloe, torna che ci vede: uomo finalmente dato alla luce. Nella nostra lingua partorire si dice anche “dare alla luce”. Gesù dà alla luce, partorisce vita piena. Il filo rosso del racconto è una seconda domanda, incalzante, ripetuta sette volte: come ti si sono aperti gli occhi? Tutti vogliono sapere come si fa, come ci si impadronisce del segreto di occhi nuovi e migliori, tutti sentono di avere occhi incompiuti.

Lo sappiamo: basta una lacrima e non vedi più. Quanti occhi acutissimi ho visto spegnersi: dicevano di vederci bene ed è bastata una lacrima, l’unghiata di un dolore, e si sono annebbiati, gli orizzonti e le strade scomparsi. Di fronte alla gioia dell’uomo “dato alla luce”, che vede per la prima volta il sole, il blu del cielo e gli occhi di sua madre, anche gli alberi, se potessero, danzerebbero; anche i fiumi batterebbero le mani, dice il salmo. I farisei, no. Non vedono il cieco illuminato ma solo un articolo violato: Niente miracoli di sabato. Non si salvano vite, oggi. C’è il riposo santo. Avete sei giorni per farvi guarire, non di sabato. Di sabato Dio vi vuole ciechi! Ma che religione è mai quella che non guarda al bene dell’uomo, ma che parla solo di se stessa, a se stessa? Una fede che non si interessi dell’umano non merita che ad essa ci dedichiamo (Bonhoeffer).

C’è un’infinita tristezza nella pagina. I farisei mettono Dio contro l’uomo, ed è il peggior dramma che possa capitare alla nostra fede, a tutte le fedi: mostrano che è possibile essere credenti, senza essere buoni; credenti e duri di cuore. È facile ed è mortale. E invece no, gloria di Dio non è il sabato osservato, ma un mendicante che si alza, che torna a vita piena, “uomo finalmente promosso a uomo” (P. Mazzolari). E il suo sguardo che illumina il mondo dà gioia a Dio più di tutti i comandamenti osservati Come lui, torniamo ad avere occhi di bambini, di figli amati: occhi aperti, occhi meravigliabili, occhi grati e fiduciosi, occhi speranzosi, occhi che ridono o piangono con chi sta loro davanti; occhi, insomma, contagiati di cielo. Signore metti luce nei miei pensieri, luce nelle mie parole, luce nel mio cuore.

P. Ermes Ronchi
Avvenire

 

Al centro della quarta domenica di Quaresima – che nella tradizione latina prende nome di domenica Laetare, dall’incipit dell’introito della celebrazione eucaristica, Laetare Jerusalem, “Rallegrati, Gerusalemme” – vi è il tema della luce, o meglio dell’illuminazione, del passaggio dalle tenebre alla luce espresso nel vangelo dal racconto della guarigione dell’uomo cieco dalla nascita, racconto che acquista il senso di una pedagogia verso la fede in Cristo. Nella seconda lettura il tema riveste valenza battesimale ed è colto nelle sue implicazioni etiche: l’illuminazione battesimale impegna a una vita di conversione (“Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore: camminate dunque come figli della luce”: Ef 5,8).

In parallelo con questo annuncio, la prima lettura presenta l’unzione regale di David da parte di Samuele: il gesto e le parole del profeta che consacrano il Messia rinviano alle parole e ai gesti di Gesù, “luce del mondo” (Gv 9,5), che dona luce a chi è nelle tenebre con gesti e parole che evocano la dinamica sacramentale. Al tempo stesso, la prima lettura è tutta giocata sul tema dello sguardo: “Ti mando da Iesse il Betlemita, perché ho visto tra i suoi figli un re” (dice Dio a Samuele in 1Sam 16,1: la Bibbia CEI traduce “mi sono scelto”). E poi c’è la differenza di sguardi tra il Signore e l’uomo.

Così tutte e tre le letture pongono il problema del discernimento. Si tratta del difficile discernimento di Samuele per scegliere colui che Dio ha eletto tra i figli di Iesse. Per discernere occorre guardare come Dio stesso guarda, nella coscienza che se “l’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore” (1Sam 16,7), o, come recita l’antica versione siriaca, “l’uomo guarda con gli occhi, il Signore guarda con il cuore”. Dove c’è un significativo passaggio da una relazione che rischia la cosificazione a una relazione autentica: si passa da ciò che viene guardato a colui che guarda e a come guarda. Dove si pone l’accento sullo sguardo di chi guarda, di chi discerne.

A volte nelle relazioni di discernimento, di accompagnamento e di formazione si sbaglia proprio mettendo l’accento sull’altro fino ad oggettivarlo e dimenticando che ciò che è fondamentale è come io guardo, è il lavoro su di me. Nella seconda lettura il discernimento è richiesto al battezzato che, nella situazione in cui è “luce nel Signore”, è chiamato a discernere ciò che è gradito a Dio (cf. Ef 5,10-11). Il brano evangelico si apre con il diverso sguardo di Gesù e dei discepoli su un cieco, e prosegue con il percorso che porta il cieco guarito a discernere la vera qualità di Gesù e a confessare la fede in lui, mentre altri protagonisti dell’episodio si chiudono a tale discernimento e restano nella cecità spirituale (cf. Gv 9,39-41).

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Luciano Manicardi