Natale del Signore

Anno A

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. […]

Auguri. Buon Natale! L’augurio più bello ci viene dalla liturgia di questo giorno in cui la chiesa ci propone il Prologo al Vangelo di Giovanni, i primi diciotto versetti del suo Vangelo, che sono un testo nel quale l’evangelista riassume tutta la teologia del suo libro. L’evangelista inizia questo Prologo correggendo la Scrittura e lo termina smentendola. Infatti, come inizia? “In principio era il Verbo”. L’evangelista si rifà al primo libro della Bibbia, il libro della Genesi, che incominciava con queste parole: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. Ma lui non è d’accordo. Prima ancora di creare il cielo e la terra, in principio c’era già il Verbo. Il termine indica la parola creatrice, quella che realizza il progetto di Dio nella creazione. E l’evangelista si distacca anche dalla spiritualità giudaica dell’epoca. In questa spiritualità si diceva che all’inizio c’erano le dieci parole di Dio che sono il fondamento dei dieci comandamenti. Per l’evangelista c’è un’unica parola che si manifesterà in un unico comandamento, quello dell’amore vicendevole, che Gesù darà ai suoi.

Quindi fin dall’inizio c’era questo progetto di Dio, questa parola creatrice di Dio, che era di comunicare vita all’umanità. Non possiamo qui commentare tutto il Prologo, scegliamo soltanto alcuni versetti, quindi salto al versetto 4. “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Nella tradizione ebraica si diceva che la luce – e per luce si intendeva la legge – era la vita degli uomini. Anche qui l’evangelista prende le distanze: non è la luce la vita degli uomini, cioè un qualcosa di esterno, la legge che l’individuo deve osservare, ma la vita è la luce degli uomini. La risposta al desiderio di pienezza di vita che ogni persona si porta dentro è la luce interiore che guida i suoi passi. E l’evangelista garantisce che questa “luce splende nelle tenebre”. La luce non deve lottare contro le tenebre, non deve sprecare energie, deve soltanto espandere il suo splendore. “E le tenebre non l’hanno vinta”. Ecco la garanzia che le forze nemiche di questo progetto di vita non l’hanno vinta. Abbiamo visto che tutto quello che è vita, che è espressione di vita procede da Dio, tutto quello che non ha vita, la soffoca o la limita, rappresenta le tenebre secondo il vangelo.

In questo vangelo Gesù, poco prima di essere arrestato dirà: “Coraggio: io ho vinto il mondo!”. Quindi chi si mette a fianco della vita e della luce è sempre vincitore. Al centro del Prologo, al versetto più importante, si legge: “Venne fra i suoi e i suoi non l’hanno accolto”. È un monito dell’evangelista rivolto a tutte le comunità affinché non ripetano gli errori di Israele, che ha atteso tanto il Signore e quando è venuto non l’ha riconosciuto. Perché? Dio fa nuove tutte le cose. Chi pensa coi parametri dell’antico di poter scoprire il nuovo, si inganna. Per accogliere Dio che fa nuove tutte le cose è necessaria una conversione, un cambio continuo. E per comprenderlo bisogna come lui porre il bene dell’uomo come valore principale della propria esistenza. E quindi c’è il rischio che, nel nome del Dio del passato, non si riconosca e non si accolga il Dio che si manifesta nel presente. Dio è sempre nuovo e, per accogliere questo Dio che si fa nuovo, bisogna essere sempre nuovi. C’è il rischio che, in nome della tradizione, della dottrina del Dio del passato, non si scopra e non si accolga il Dio che si fa nuovo.

Ed ecco al centro del Prologo, il versetto più importante. “A quanti però lo hanno accolto”. Con Gesù Dio non è più da cercare, ma da accogliere, non è più l’uomo orientato verso Dio, ma Dio che chiede di essere accolto nella vita dell’uomo e di non vivere più per Lui, ma vivere di Lui e con Lui e come Lui andare verso gli altri. “A quanti però lo hanno accolto ha dato il potere di diventare Figli di Dio”. Figli di Dio, secondo questo vangelo, non si nasce, ma si diventa. È una libera proposta che Dio fa agli uomini e che gli uomini devono accettare. Diventare figli di Dio significa avere la sua stessa vita, cioè la condizione divina, una vita capace di superare la morte. E l’evangelista continua: “E il Verbo si fece carne”. L’evangelista non scrive, come ci saremmo aspettati, “si fece uomo”, ma usa un termine greco (s£rx) che indica la debolezza dell’umanità. È importante questo. Non si realizza in un super uomo da ammirare, ma nella debolezza della condizione umana. E questo è tanto più importante perché ci fa capire che non esistono doni di Dio che non passino attraverso l’umanità delle persone. Per questo, più la persona sarà umana e più il divino splenderà in lui.

“Il Verbo si fece carne e venne ad abitare” – letteralmente “venne a mettere al sua tenda”, come il Dio dell’Antico Testamento che aveva la sua tenda in mezzo al popolo – “in mezzo a noi”. La traduzione dice “in mezzo a noi”, ma l’evangelista scrive “in noi”. Non sta in mezzo a noi, ma in noi. Il Dio di Gesù è talmente innamorato degli uomini che chiede di essere accolto per fondersi con loro, dilatare la loro capacità d’amore e far sì che ogni persona e ogni comunità diventino l’unico vero santuario nel quale si irradia l’amore di Dio. Quindi non in mezzo a noi, ma in noi. In questo vangelo Gesù dirà che in chi lo ama lui e il Padre verranno a prenderne dimora. Quindi non c’è più un santuario a cui andare, ma ogni individuo diventa il santuario che deve andare verso i lontani, gli emarginati.

E, concludendo questa analisi, saltando al versetto 17, questo Gesù che realizza il progetto di Dio indica una nuova relazione con il Padre. E qual è? “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè”. La legge era qualcosa di esterno all’uomo che l’uomo doveva osservare. “La grazia e la verità” che indica l’amore fedele di Dio – “vennero per mezzo di Gesù”. C’è una nuova relazione con Dio. Non è più basata sull’osservanza della legge, ma sull’accoglienza del suo amore; non più sui meriti delle persone, ma sui loro bisogni. Questa è la novità proposta da Gesù. Il credente non è più colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi, ma è colui che assomiglia al Padre accogliendo e praticando un amore simile al suo. Abbiamo visto che l’evangelista inizia correggendo al scrittura e la termina smentendola: “Dio nessuno lo ha mai visto”.

Come può Giovanni scrivere questo? Eppure Mosè, Aronne ed altri hanno visto Dio. No. L’evangelista non è d’accordo. Hanno avuto esperienze limitate ed, essendo esperienze limitate, non possono esprimere la pienezza della volontà di Dio. “Dio nessuno lo ha mai visto”, solo il “Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre” – cioè nella piena intimità del Padre – “è lui che lo ha rivelato”. E da qui inizia l’invito dell’evangelista a centrare tutta l’attenzione su Gesù. Gesù non è come Dio, ma Dio è come Gesù. Quando Filippo gli dirà: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”, Gesù gli risponderà: “Non hai capito che chi vede me vede il Padre?”. Allora l’invito dell’evangelista da questo momento è “centratevi su Gesù”. Soltanto comprendendo Gesù, i suoi gesti e le sue parole si arriverà a capire chi è Dio.

Letture: Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

p. Alberto Maggi
Il dialogo