Santa Famiglia

Anno A

I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo». Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio». […]

Il Vangelo racconta di una famiglia guidata da un sogno. Oggi noi, a distanza, vediamo che il personaggio importante di quelle notti non è Erode il Grande, non è suo figlio Archelao, ma un uomo silenzioso e coraggioso, concreto e sognatore: Giuseppe, il disarmato che è più forte di ogni Erode. E che cosa fa Giuseppe? Sogna, stringe a sé la sua famiglia, e si mette in cammino. Tre azioni: seguire un sogno, andare e custodire. Tre verbi decisivi per ogni famiglia e per ogni individuo; di più, per le sorti del mondo. Sognare è il primo verbo. È il verbo di chi non si accontenta del mondo così com’è. Un granello di sogno, caduto dentro gli ingranaggi duri della storia, è sufficiente a modificarne il corso.

Giuseppe nel suo sogno non vede immagini, ascolta parole, è un sogno di parole. È quello che è concesso a ciascuno di noi, noi tutti abbiamo il Vangelo che ci abita con il suo sogno di cieli nuovi e terra nuova. Nel Vangelo Giuseppe sogna quattro volte (l’uomo giusto ha gli stessi sogni di Dio) ma ogni volta l’angelo porta un annunzio parziale, ogni volta una profezia breve, troppo breve; eppure per partire e ripartire, Giuseppe non pretende di avere tutto l’orizzonte chiaro davanti a sé, ma solo tanta luce quanta ne basta al primo passo, tanto coraggio quanto serve alla prima notte, tanta forza quanta basta per cominciare. Andare, è la seconda azione. Ciò che Dio indica, però, è davvero poco, indica la direzione verso cui fuggire, solo la direzione; poi devono subentrare la libertà e l’intelligenza dell’uomo, la creatività e la tenacia di Giuseppe. Tocca a noi studiare scelte, strategie, itinerari, riposi, misurare la fatica.

Il Signore non offre mai un prontuario di regole per la vita sociale o individuale, lui accende obbiettivi e il cuore, poi ti affida alla tua libertà e alla tua intelligenza. Il terzo verbo è custodire, prendere con sé, stringere a sé, proteggere. Abbiamo il racconto di un padre, una madre e un figlio: le sorti del mondo si decidono dentro una famiglia. È successo allora e succede sempre. Dentro gli affetti, dentro lo stringersi amoroso delle vite, nell’umile coraggio di una, di tante, di infinite creature innamorate e silenziose. «Compito supremo di ogni vita è custodire delle vite con la propria vita» (Elias Canetti), senza contare fatiche e senza accumulare rimpianti. Allora vedo Vangelo di Dio quando vedo un uomo e una donna che prendono su di sé la vita dei loro piccoli; è Vangelo di Dio ogni uomo e ogni donna che camminano insieme, dietro a un sogno. Ed è Parola di Dio colui che oggi mi affianca nel cammino, è grazia di Dio che comincia e ricomincia sempre dal volto di chi mi ama.

Letture: Siracide 3, 3-7.14-17; Salmo 127; Colossesi 3,12-21; Matteo 2,13-15.19-23

Ermes Ronchi
Avvenire

 

Il Vangelo di questa domenica, festa della Santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, riporta alla nostra attenzione la figura di Giuseppe, su cui abbiamo meditato già nella quarta domenica di Avvento. Questo giorno, così vicino al Natale del Signore, ci mette davanti il contesto famigliare all’interno del quale il bambino e l’uomo Gesù crescerà. Ogni uomo è dentro la sfida della famiglia, quella di provenienza e quella che si costruisce. Anche per la futura famiglia di Nazareth il percorso non è scevro da complicazioni. Erode il grande e poi Archelao saranno le prime minacce per il piccolo Gesù, tali da spostarsi prima in Egitto e poi stabilirsi nella regione di Galilea, lontano dalla Giudea. Protagonista di questo brano è proprio Giuseppe, nell’atto di difesa e protezione della sposa e del bambino.

La custodia di Giuseppe trae origine da una voce udita nel sogno. Il sogno, oltre ad indicare quell’esperienza della mente che tutti conosciamo, rappresenta il momento che va oltre la razionalità e le nostre possibilità, in cui, nell’impotenza e nella debolezza, è possibile un dialogo con Dio. Ritorna alla mente la figura di uno dei figli di Giacobbe, il patriarca Giuseppe, venduto come schiavo dai fratelli, dotato del potere di interpretare i sogni e di ammonire, grazie ad essi, riguardo al senso degli eventi.

Se guardiamo a questo racconto senza quel velo che copre, spesso, le storie che pensiamo di conoscere, risulta ben strano che questo padre e marito scelga, per il bene della famiglia, sulla base di una apparizione nel sonno. Non prevalgono il buonsenso, la convenienza, l’opportunità, le priorità di questo mondo: l’atteggiamento di Giuseppe è quello di chi si fa ascoltatore di una voce, è “avvertito” da qualcuno, da un angelo (colui che annuncia). Osserviamo, in Giuseppe, apertura e obbedienza a una parola, così lontane dall’autoreferenzialità con cui riteniamo che una famiglia, quando non destinata a navigare priva di direzione, si debba governare. La forza di Giuseppe, la fermezza del ruolo di padre affidatogli dalla Provvidenza, origina non da se stesso ma dall’obbedienza a Dio. Egli è padre perché sa essere figlio e, grazie a questo, imposterà una famiglia capace di obbedire a un progetto, di compiere una profezia. Diventerà un guardiano della vita che cresce, perché capace di farsi avvertire riguardo agli eventi.

Ognuno di noi è esposto a minacce che non conosce e che mettono in pericolo il Signore che abita in noi e in chi abbiamo accanto. Mettersi in ascolto della Parola di Dio, che attraverso degli “angeli”, degli annunciatori, ci mostra un sentiero, è la strada per una nuova idea di famiglia, così unica e diversa dagli schemi, così realmente aperta alla vocazione della vita dei suoi componenti, che in essa germoglia. Le difficoltà dei padri e, più in generale, delle famiglie di oggi è, in qualche modo, misura della distanza di orizzonte tra il modello della famiglia di Nazareth e le nostre. Tanto più esse sono attaccate ai propri obbiettivi da realizzare, tanto più arduo sarà ascoltare una voce che ci guidi. In questo senso la famiglia non sarà più da intendersi soltanto come unità funzionale o cellula sociale, ma sarà qualcosa di più: realtà amata e abitata da Dio come luogo in cui la protezione e il sostegno per crescere siano dati e ricevuti costantemente, in cui si realizzi, in modo imperfetto ma appassionante, e la maternità e la paternità con cui Egli ci ama e la fecondità misteriosa che ci rende “a sua immagine”.

Caterina Napolitano
Tuttavia