V domenica

Tempo ordinario, Anno A

Letture: Isaia 58, 7-10; Salmo 111; Prima lettera ai Corinzi 2,1-5; Matteo 5,13-16

Voi siete il sale, voi siete la luce. Siete come un istinto di vita che penetra nelle cose, come il sale, si oppone al loro degrado e le fa durare. Siete un istinto di bellezza, che si posa sulla superficie delle cose, le accarezza, come la luce, e non fa violenza mai, ne rivela invece forme, colori, armonie e legami. Così il discepolo-luce è uno che ogni giorno accarezza la vita e rivela il bello delle persone, uno dai cui occhi emana il rispetto amoroso per ogni vivente. Voi siete il sale, avete il compito di preservare ciò che nel mondo vale e merita di durare, di opporvi a ciò che corrompe, di far gustare il sapore buono della vita. Voi siete la luce del mondo. Una affermazione che ci sorprende, che Dio sia luce lo crediamo; ma credere che anche l’uomo sia luce, che lo sia anch’io e anche tu, con i nostri limiti e le nostre ombre, questo è sorprendente. E lo siamo già adesso, se respiriamo vangelo: la luce è il dono naturale di chi ha respirato Dio.Chi vive secondo il vangelo è una manciata di luce gettata in faccia al mondo (Luigi Verdi).

E non impalcandosi a maestro o giudice, ma con i gesti: risplenda la vostra luce nelle vostre opere buone. Sono opere di luce i gesti dei miti, di chi ha un cuore bambino, degli affamati di giustizia, dei mai arresi cercatori di pace, i gesti delle beatitudini, che si oppongono a ciò che corrompe il cammino del mondo: violenza e denaro. Quando due sulla terra si amano compiono l’opera: diventano luce nel buio, lampada ai passi di molti, piacere di vivere e di credere. In ogni casa dove ci si vuol bene, viene sparso il sale che dà sapore buono alla vita. Mi sembra impossibile, da parte di Gesù, riporre tanta stima e tanta fiducia in queste sue creature! In me, che lo so bene, non sono né luce né sale.

Eppure il vangelo mi incoraggia a prenderne coscienza: Non fermarti alla superficie di te, al ruvido dell’argilla di cui sei fatto, cerca in profondità, verso la cella segreta del cuore, scendi nel tuo santuario e troverai una lucerna accesa, una manciata di sale: frammento di Dio in te. L’umiltà della luce e del sale: la luce non illumina se stessa, nessuno mangia il sale da solo. Così ogni discepolo deve apprendere la loro prima lezione: a partire da me, ma non per me. La povertà del sale e della luce è perdersi dentro le cose, senza fare rumore né violenza, e risorgere con loro. Come suggerisce il profeta Isaia: Illumina altri e ti illuminerai, guarisci altri e guarirà la tua ferita (Isaia 58,8). Non restare curvo sulle tue storie e sulle tue sconfitte, chi guarda solo a se stesso non si illumina mai. Tu occupati della terra e della città, e la tua luce sorgerà come un meriggio di sole.

P. Ermes Ronchi
Avvenire

 

Il rischio di sprecare la propria vita, di non sapere cosa farne, c’è sempre stato, ma forse oggi è ancora più frequente. Si può buttare la vita per pigrizia, perché non ci va di prenderci delle responsabilità, si può sprecare la vita perché ci si ripiega su se stessi, ci si illude di essere felici mettendo il proprio io prima di ogni altra cosa, si può spegnere la propria vita perché ci alimentiamo di quel rancore che non permette alla fiamma di bruciare.

I versetti del capitolo 5 di Matteo, che leggiamo in questa domenica, seguono immediatamente la pericope delle beatitudini, anzi ripartano proprio da quel voi con cui il testo si era chiuso: in quel voi ci siamo tutti noi che oggi leggiamo e ascoltiamo questo testo. Quel voi, alla fine del testo sulle beatitudini, era riferito a coloro che sono perseguitati e oltraggiati a causa del Vangelo. È il voi che si riferisce alla comunità perseguitata: nelle difficoltà è difficile continuare a credere. Quando veniamo offesi, siamo tentati di rispondere con altro male, quando siamo criticati, siamo portati a difenderci dando giudizi ancora più sferzanti, quando siamo nella tempesta, pensiamo che Dio ci abbia abbandonato. È difficile continuare a essere felici quando le cose non vanno bene.

Al contrario è proprio quello il momento in cui possiamo vivere più pienamente la beatitudine, aggrappandoci in maniera più forte al Signore. In quei momenti di difficoltà ci prende la tentazione di buttare via tutto e di spegnerci. È in questo contesto forse che possiamo leggere le due immagini che Gesù propone ai suoi discepoli: il sale e la luce. In entrambi i casi possiamo parlare di una metafora missionaria, perché il sale e la luce vengono presentati come qualcosa che serve per altri: sale della terra e luce del mondo. La terra e il mondo sono delle esagerazioni che non si capiscono bene in relazione al sale e alla luce, ma forse servono semplicemente per dire che la prospettiva indica un’apertura, qualcosa che non riguarda solo noi stessi. È una parola insolita che esagera e incuriosisce.

Il sale richiama innanzitutto l’immagine del sapore: in diverse lingue c’è questa affinità tra il sapore e la sapienza, ciò che è insipido è immagine di ciò che è insipiente, stolto. Il sale infatti è associato anche alla prudenza: occorre aggiungerlo nella misura giusta! Tutto, anche l’amore, va vissuto con discrezione. Si può sbagliare anche esagerando nell’amore: lo zelo eccessivo per qualcosa di buono, per esempio lo zelo di una giovane suora per il suo percorso di studi, può portare a non vedere più la consorella anziana che le chiede aiuto; l’attaccamento alla propria opera, da parte di un missionario o di qualcuno che vi ha dedicato anni di lavoro, può impedire di fare delle scelte con libertà; il sacrificio per il proprio lavoro, da parte di chi ne fa il luogo della propria realizzazione, può portare a fare terra bruciata nelle relazioni.

Il sale è immagine dell’amore anche perché dà sapore scomparendo: lascia il gusto, ma non lo vedi più. L’amore a cui siamo chiamati è quello che ci fa scomparire. Se stai sempre in mezzo, anche se a fin di bene, quello non è amore. Se non sai farti da parte, quello non è vero amore. Se pretendi che bisogna sempre vederti perché tu sei capace, perché tu fai le scelte giuste e sei indispensabile, quello non è amore. Il sale scompare, ma fa la differenza: una cosa è un cibo in cui è stata messa una giusta dose di sale, un cosa è un cibo in cui il sale non c’è. Il discepolo di Cristo fa la differenza là dove è chiamato a stare.

Il sale è immagine dell’amore perché da solo non serve a niente. Non si mangia il sale, ma lo si usa per condire il cibo che prepari per qualcuno. L’amore non serve a niente se non c’è qualcuno da amare. Puoi avere nel tuo cuore un profondo desiderio di amare, ma non serve a niente se non cominci mai a viverlo. Noi suoi discepoli siamo il sale, siamo cioè coloro che sono chiamati ad amare così. Se non amiamo in questo modo a che cosa serve essere suoi discepoli? Se non rispondiamo a questa vocazione chi darà sapore alle relazioni? La nostra vita di discepoli non servirà a niente, come il sale che non serve più e può essere calpestato.

Anche l’immagine della luce ci rimanda agli altri. La luce infatti serve affinché altri possano camminare sicuri, evitare i pericoli, percorrere la strada giusta. Il primo esempio di luce per gli altri indicato da Gesù è la città sul monte: noi siamo chiamati a essere punto di riferimento. La città che splende nella notte permette a chi viaggia di orientarsi nel buio della notte. Se la città non risplende è difficile camminare perché tutto diventa tenebra, facilmente si può sbagliare strada, si può essere vittima di agguati o di bestie feroci. C’è una responsabilità a cui siamo chiamati. Noi cristiani, noi come comunità ecclesiale, noi come Chiesa, siamo per gli altri città sul monte che splende? Gesù sembra dire alla comunità perseguitata che proprio il modo in cui si sta nella persecuzione può diventare luce che orienta il cammino di chi guarda.

La seconda immagine può essere letta sia a un livello comunitario che personale: la luce che non si mette sotto un secchio. La luce è nel linguaggio biblico anche immagine della Legge (Torah) che aiuta a camminare sulla giusta via, ma è anche immagine del Messia che viene. È immagine inoltre della comunità che è chiamata a vivere in modo tale da essere un esempio per gli altri, ma possiamo leggere questa immagine anche su un piano individuale. Accade a volte, infatti, di mettere la propria vita sotto un secchio. E così la vita si spegne. A volte cioè ci chiudiamo, ci rifiutiamo di vivere, ci basta sopravvivere. Credo che qui Gesù ci stia anche invitando a non sprecare la nostra vita, a non rimanere tutta la vita sotto un secchio. Questa luce non è fatta per essere spenta. Capisco che a volte quel secchio possono avercelo messo addosso altri. Chiediamo allora al Signore di tirarci fuori, gridiamogli che noi vogliamo splendere, perché siamo stati pensati per questo.

La luce che orienta anche la vita degli altri è quella che brilla attraverso le nostre azioni. In questa domenica ce lo ricorda anche il profeta Isaia: la nostra luce splende nelle tenebre se dividiamo il nostro pane con chi ha fame, se sappiamo accogliere chi non ha nessuno, se copriamo coloro che sono rimasti nudi, senza dignità… Matteo chiama opere belle (ta kala erga) quelle azioni attraverso le quali possiamo far splendere la nostra luce. Non sono semplicemente azioni buone, non c’è nulla di moralistico, non è un modo di mettersi a posto la coscienza, ma le opere belle sono quelle di cui ci siamo presi cura, quelle che abbiamo realizzato con passione, quelle attraverso cui lasciamo splendere la bellezza del Vangelo. Siamo tutti chiamati a essere artisti della vita, artigiani di bellezza!

P. Gaetano Piccolo
Rigantur mentes