Letture: Atti degli Apostoli 6,1-7; Salmo 32; Prima Lettera di san Pietro 2,4-9; Giovanni 14, 1-12
Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via? Gesù non risponde: “io conosco bene la strada e adesso ve la descrivo e poi vi passo le coordinate”; dice invece: «Guardami Tommaso, sono io la via». La strada verso Dio, verso il cuore caldo della vita, è la vita di Cristo. Guardi Gesù, come vive, come si commuove e tocca, come va incontro, come muore, e capisci Dio e la vita. E se voglio entrare in quel mistero metterò i miei passi sui suoi passi, preferirò coloro che lui preferiva, rinnoverò con le mie le sue scelte, mi muoverò solo dietro alla sua stella polare. J, Maritain mette in bocca a Gesù questo invito: «Non cercatemi in un luogo, ma là dove amo e sono amato».
“Io sono la verità”. Come io vivo è il vivere vero, come mi comporto con i piccoli e con le donne, con i poveri cristi e con i Pilato di turno, con gli uccelli e con i fiori del campo, con il Padre e l’ultima pecora… La verità è fatta di carne, ieri baciata, tra poco straziata. Verità disarmante è il suo muoversi libero, regale e amorevole tra le creature. Mai arrogante e sempre senza compromessi. Diritto e sicuro. La verità è coraggiosa e amabile. Quando invece è arrogante e senza tenerezza, è una malattia che ci fa tutti malati di violenza. La verità dura, dispotica, gridata da parole di pietra «è così e basta», non è la voce di Dio. Dio è verità amabile, di occhi e mani accesi! Io sono la vita. Parole che nessuna spiegazione può esaurire. Che hai a che fare con me, Gesù di Nazareth? La risposta è una pretesa eccessiva e sconcertante: io faccio vivere.
Io sono la vita. Allora più Vangelo entra in me, più vita si aggiunge alla vita. Quella vita che si oppone alla pulsione di morte, all’auto distruttività che coltiviamo in noi, alle paure, alla sterilità di una vita inutile. Vita è tutto ciò che possiamo mettere sotto questa nome: futuro, amore, casa, festa, riposo, desiderio, pasqua, felicità. Per questo fede e vita, sacro e realtà, hanno l’identica sorgente, e coincidono. I gesti e le parole di Gesù sono energia che sa scheggiare le corazze dure, fa fiorire la corteccia malata della storia, fa sognare terra nuova e cieli nuovi, se e quando la sua tenerezza attraversa le nostre mani. Il mistero di Dio non è lontano da te, è nella tua vita: vive nel tuo nascere, amare, dubitare, credere, perdere, illuderti, osare, generare… In ogni tuo amore è Lui che ama. Il mistero di Dio non è lontano, ma è la strada sottesa ai nostri passi. Se Dio è la vita, allora «c’è della santità nella vita, viviamo la santità del vivere» (Abraham Hescel). Per questo fede e vita, spiritualità e realtà non si oppongono, ma si incontrano e si baciano, come nei Salmi.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Il Vangelo di questa V domenica del Tempo di Pasqua si apre con un’affermazione da parte di Gesù che ci rassicura: «Non sia turbato il vostro cuore» (Gv 14,1). Nel contesto evangelico in cui ci troviamo, non ci è difficile immaginare che il turbamento dei discepoli sia dovuto al discorso che Gesù fa nei versetti che precedono quelli che abbiamo ascoltato: dopo aver annunciato il tradimento di Giuda, Egli parla ai discepoli (coloro che fino a quel momento lo hanno seguito) di un luogo in cui essi non possono più seguirlo (Gv 13,33). Arriva un momento nella vita del discepolo in cui ogni certezza deve crollare per fare spazio ad un oltre. Arriva un momento in cui il maestro non c’è più e il discepolo deve fare i conti con ciò che dal maestro ha appreso. A turbare il cuore dei discepoli è il pensiero che Gesù lascerà un vuoto incolmabile. Quello che in realtà farà Gesù sarà trasformare quel vuoto in un posto. I discepoli colgono il Suo andare al Padre come un abbandono, Gesù invece li rassicura, perché ciò che vedono non è il vuoto di un abbandono, ma il vuoto di un’accoglienza.
La Pasqua, in fondo, non è altro che imparare ad accogliere questo spazio inabitato: quando Maria di Magdala, poi Pietro e il discepolo amato, vanno al sepolcro, trovano una tomba vuota (Gv 20,1-10). Quando i discepoli torneranno a pescare dopo la morte di Gesù faranno ancora esperienza di reti vuote (Gv 21,1-3). Nel Vangelo di oggi Gesù ci consegna la via perché quel vuoto che percepiamo diventi un posto capace di accogliere orizzonti nuovi. Questa via è la fede: «Abbiate fede in Dio ed abbiate fede anche in me» (Gv 14,2). Ma veramente cos’è la fede?
Nel Vangelo di Giovanni una cosa è molto chiara: la fede ha a che fare con gli occhi. Il Battista «Fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio”» (Gv1,35). A Nicodemo, Gesù dice che «se uno non rinasce dall’alto non può vedere il regno di Dio» (Gv 3,3). In seguito alla moltiplicazione dei pani «la gente dopo aver visto il segno che aveva compiuto, disse: “questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo”» (Gv 6,14). Poi il vedere domina il racconto del cieco nato (cfr. Gv 9,1-41). Ma soprattutto questo verbo torna nel racconto della morte e risurrezione di Gesù. Dopo aver narrato la crocifissione, Giovanni annota «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero perché anche voi crediate» (Gv 19,35) e proprio davanti a quel sepolcro vuoto, il discepolo amato «vide e credette» (Gv 20,8). Anche Tommaso per credere vorrà «vedere il segno dei chiodi» (Gv 20,25). Ancora sarebbero numerosissimi i riferimenti al rapporto fede-visione nel Vangelo di Giovanni.
Anche nel racconto evangelico di questa domenica torna con evidenza questo tema. Per prima cosa, Gesù parla a Tommaso del Padre come di qualcuno che i discepoli hanno «isto e conosciuto» (Gv 14,7); anche tutto il dialogo con Filippo ruota attorno al tema della visione: «Mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8), «Filippo chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). I discepoli hanno visto Gesù, hanno vissuto con lui, ma solo se hanno il coraggio di spingere lo sguardo oltre possono vedere in Gesù, il Padre. «Non credete che io sono nel Padre e il Padre è in me?» (Gv 14, 10). C’è un passaggio che i discepoli sono chiamati a compiere: il passare dal vedere al vedere e credere. La domanda di Filippo è legittima: chiedendo a Gesù di mostrargli il Padre gli sta chiedendo di indicargli la meta e l’orientamento del suo cammino di discepolo, proprio nel momento in cui l’assenza del maestro comincia a farsi concreta. Gesù non butta via la richiesta di Filippo, ma la supera: non si limita ad indicargli la via, si fa lui stesso via al Padre.
Quest’immagine della via ci spiazza per la sua semplicità: la via è ciò che collega un luogo ad un altro. Gesù collega i suoi discepoli al Padre. Gli ultimi versetti ci aiutano ancora in questo salto della fede. Il Signore che ben conosce la nostra fatica a guardare oltre, ci consegna uno strumento: le opere. «Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro credetelo per le opere stesse». La fede allora non passa solo dagli occhi dei discepoli, ma anche dalle mani di Gesù. L’agire di Gesù, tutta la sua esistenza, fatta di gesti concreti, diventa per i suoi il luogo dove fare esperienza della relazione profonda tra Lui e il Padre. Sembrano risuonare le parole della Lettera di Giacomo: «mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Gc 2,18). Solo nelle opere può avvenire il passaggio di testimone tra un maestro e il suo discepolo. Gesù sale al Padre, ma rimarrà vivente nella sua Chiesa: vivente nello sguardo di chi lo ha seguito e nelle opere di chi ha creduto in lui.
Monastero di Sant’Agata Feltria
V domenica di Pasqua
Anno A
Letture: Atti degli Apostoli 6,1-7; Salmo 32; Prima Lettera di san Pietro 2,4-9; Giovanni 14, 1-12
Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via? Gesù non risponde: “io conosco bene la strada e adesso ve la descrivo e poi vi passo le coordinate”; dice invece: «Guardami Tommaso, sono io la via». La strada verso Dio, verso il cuore caldo della vita, è la vita di Cristo. Guardi Gesù, come vive, come si commuove e tocca, come va incontro, come muore, e capisci Dio e la vita. E se voglio entrare in quel mistero metterò i miei passi sui suoi passi, preferirò coloro che lui preferiva, rinnoverò con le mie le sue scelte, mi muoverò solo dietro alla sua stella polare. J, Maritain mette in bocca a Gesù questo invito: «Non cercatemi in un luogo, ma là dove amo e sono amato».
“Io sono la verità”. Come io vivo è il vivere vero, come mi comporto con i piccoli e con le donne, con i poveri cristi e con i Pilato di turno, con gli uccelli e con i fiori del campo, con il Padre e l’ultima pecora… La verità è fatta di carne, ieri baciata, tra poco straziata. Verità disarmante è il suo muoversi libero, regale e amorevole tra le creature. Mai arrogante e sempre senza compromessi. Diritto e sicuro. La verità è coraggiosa e amabile. Quando invece è arrogante e senza tenerezza, è una malattia che ci fa tutti malati di violenza. La verità dura, dispotica, gridata da parole di pietra «è così e basta», non è la voce di Dio. Dio è verità amabile, di occhi e mani accesi! Io sono la vita. Parole che nessuna spiegazione può esaurire. Che hai a che fare con me, Gesù di Nazareth? La risposta è una pretesa eccessiva e sconcertante: io faccio vivere.
Io sono la vita. Allora più Vangelo entra in me, più vita si aggiunge alla vita. Quella vita che si oppone alla pulsione di morte, all’auto distruttività che coltiviamo in noi, alle paure, alla sterilità di una vita inutile. Vita è tutto ciò che possiamo mettere sotto questa nome: futuro, amore, casa, festa, riposo, desiderio, pasqua, felicità. Per questo fede e vita, sacro e realtà, hanno l’identica sorgente, e coincidono. I gesti e le parole di Gesù sono energia che sa scheggiare le corazze dure, fa fiorire la corteccia malata della storia, fa sognare terra nuova e cieli nuovi, se e quando la sua tenerezza attraversa le nostre mani. Il mistero di Dio non è lontano da te, è nella tua vita: vive nel tuo nascere, amare, dubitare, credere, perdere, illuderti, osare, generare… In ogni tuo amore è Lui che ama. Il mistero di Dio non è lontano, ma è la strada sottesa ai nostri passi. Se Dio è la vita, allora «c’è della santità nella vita, viviamo la santità del vivere» (Abraham Hescel). Per questo fede e vita, spiritualità e realtà non si oppongono, ma si incontrano e si baciano, come nei Salmi.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Il Vangelo di questa V domenica del Tempo di Pasqua si apre con un’affermazione da parte di Gesù che ci rassicura: «Non sia turbato il vostro cuore» (Gv 14,1). Nel contesto evangelico in cui ci troviamo, non ci è difficile immaginare che il turbamento dei discepoli sia dovuto al discorso che Gesù fa nei versetti che precedono quelli che abbiamo ascoltato: dopo aver annunciato il tradimento di Giuda, Egli parla ai discepoli (coloro che fino a quel momento lo hanno seguito) di un luogo in cui essi non possono più seguirlo (Gv 13,33). Arriva un momento nella vita del discepolo in cui ogni certezza deve crollare per fare spazio ad un oltre. Arriva un momento in cui il maestro non c’è più e il discepolo deve fare i conti con ciò che dal maestro ha appreso. A turbare il cuore dei discepoli è il pensiero che Gesù lascerà un vuoto incolmabile. Quello che in realtà farà Gesù sarà trasformare quel vuoto in un posto. I discepoli colgono il Suo andare al Padre come un abbandono, Gesù invece li rassicura, perché ciò che vedono non è il vuoto di un abbandono, ma il vuoto di un’accoglienza.
La Pasqua, in fondo, non è altro che imparare ad accogliere questo spazio inabitato: quando Maria di Magdala, poi Pietro e il discepolo amato, vanno al sepolcro, trovano una tomba vuota (Gv 20,1-10). Quando i discepoli torneranno a pescare dopo la morte di Gesù faranno ancora esperienza di reti vuote (Gv 21,1-3). Nel Vangelo di oggi Gesù ci consegna la via perché quel vuoto che percepiamo diventi un posto capace di accogliere orizzonti nuovi. Questa via è la fede: «Abbiate fede in Dio ed abbiate fede anche in me» (Gv 14,2). Ma veramente cos’è la fede?
Nel Vangelo di Giovanni una cosa è molto chiara: la fede ha a che fare con gli occhi. Il Battista «Fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio”» (Gv1,35). A Nicodemo, Gesù dice che «se uno non rinasce dall’alto non può vedere il regno di Dio» (Gv 3,3). In seguito alla moltiplicazione dei pani «la gente dopo aver visto il segno che aveva compiuto, disse: “questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo”» (Gv 6,14). Poi il vedere domina il racconto del cieco nato (cfr. Gv 9,1-41). Ma soprattutto questo verbo torna nel racconto della morte e risurrezione di Gesù. Dopo aver narrato la crocifissione, Giovanni annota «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero perché anche voi crediate» (Gv 19,35) e proprio davanti a quel sepolcro vuoto, il discepolo amato «vide e credette» (Gv 20,8). Anche Tommaso per credere vorrà «vedere il segno dei chiodi» (Gv 20,25). Ancora sarebbero numerosissimi i riferimenti al rapporto fede-visione nel Vangelo di Giovanni.
Anche nel racconto evangelico di questa domenica torna con evidenza questo tema. Per prima cosa, Gesù parla a Tommaso del Padre come di qualcuno che i discepoli hanno «isto e conosciuto» (Gv 14,7); anche tutto il dialogo con Filippo ruota attorno al tema della visione: «Mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8), «Filippo chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). I discepoli hanno visto Gesù, hanno vissuto con lui, ma solo se hanno il coraggio di spingere lo sguardo oltre possono vedere in Gesù, il Padre. «Non credete che io sono nel Padre e il Padre è in me?» (Gv 14, 10). C’è un passaggio che i discepoli sono chiamati a compiere: il passare dal vedere al vedere e credere. La domanda di Filippo è legittima: chiedendo a Gesù di mostrargli il Padre gli sta chiedendo di indicargli la meta e l’orientamento del suo cammino di discepolo, proprio nel momento in cui l’assenza del maestro comincia a farsi concreta. Gesù non butta via la richiesta di Filippo, ma la supera: non si limita ad indicargli la via, si fa lui stesso via al Padre.
Quest’immagine della via ci spiazza per la sua semplicità: la via è ciò che collega un luogo ad un altro. Gesù collega i suoi discepoli al Padre. Gli ultimi versetti ci aiutano ancora in questo salto della fede. Il Signore che ben conosce la nostra fatica a guardare oltre, ci consegna uno strumento: le opere. «Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro credetelo per le opere stesse». La fede allora non passa solo dagli occhi dei discepoli, ma anche dalle mani di Gesù. L’agire di Gesù, tutta la sua esistenza, fatta di gesti concreti, diventa per i suoi il luogo dove fare esperienza della relazione profonda tra Lui e il Padre. Sembrano risuonare le parole della Lettera di Giacomo: «mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Gc 2,18). Solo nelle opere può avvenire il passaggio di testimone tra un maestro e il suo discepolo. Gesù sale al Padre, ma rimarrà vivente nella sua Chiesa: vivente nello sguardo di chi lo ha seguito e nelle opere di chi ha creduto in lui.
Monastero di Sant’Agata Feltria