In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli […]».
Ma io vi dico. Gesù entra nel progetto di Dio non per rifare un codice, ma per rifare il coraggio del cuore, il coraggio del sogno. Agendo su tre leve decisive: la violenza, il desiderio, la sincerità. Fu detto: non ucciderai; ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, chi nutre rancore è potenzialmente un omicida. Gesù va diritto al movente delle azioni, al laboratorio dove si assemblano i gesti. L’apostolo Giovanni affermerà una cosa enorme: «Chi non ama suo fratello è omicida» (1 Gv 3,15). Chi non ama, uccide. Il disamore non è solo il mio lento morire, ma è un incubatore di violenza e omicidi. Ma io vi dico: chiunque si adira con il fratello, o gli dice pazzo, o stupido, è sulla linea di Caino… Gesù mostra i primi tre passi verso la morte: l’ira, l’insulto, il disprezzo, tre forme di omicidio.
L’uccisione esteriore viene dalla eliminazione interiore dell’altro. Chi gli dice pazzo sarà destinato al fuoco della Geenna. Geenna non è l’inferno, ma quel vallone alla periferia di Gerusalemme, dove si bruciavano le immondizie della città, da cui saliva perennemente un fumo acre e cattivo. Gesù dice: se tu disprezzi e insulti il fratello tu fai spazzatura della tua vita, la butti nell’immondizia; è ben più di un castigo, è la tua umanità che marcisce e va in fumo. Ascolti queste pagine che sono tra le più radicali del Vangelo e capisci per contrasto che diventano le più umane, perché Gesù parla solo della vita, con le parole proprie della vita: «Custodisci le mie parole ed esse ti custodiranno» (Prov 4,4), e non finirai nell’immondezzaio della storia.
Avete inteso che fu detto: non commettere adulterio. Ma io vi dico: se guardi una donna per desiderarla sei già adultero. Non dice semplicemente: se tu desideri una donna; ma: se guardi per desiderare, con atteggiamento predatorio, per conquistare e violare, per sedurre e possedere, se la riduci a un oggetto da prendere o collezionare, tu commetti un reato contro la grandezza di quella persona. Adulterio viene dal verbo a(du)lterare che significa: tu alteri, cambi, falsifichi, manipoli la persona. Le rubi il sogno di Dio. Adulterio non è tanto un reato contro la morale, ma un delitto contro la persona, deturpi il volto alto e puro dell’uomo. Terza leva: Ma io vi dico: Non giurate affatto; il vostro dire sia sì, sì; no, no. Dal divieto del giuramento, Gesù va fino in fondo, arriva al divieto della menzogna. Di’ sempre la verità e non servirà più giurare. Non abbiamo bisogno di mostraci diversi da ciò che siamo nell’intimo. Dobbiamo solo curare il nostro cuore, per poi prenderci cura della vita attorno a noi; c’è da guarire il cuore per poi guarire la vita.
Letture: Siracide 15,16-21; Salmo 118; 1 Corinzi 2,6-10; Matteo 5,17-37
Ermes Ronchi
Avvenire
Il brano di questa settimana si inserisce nel più ampio contesto del “discorso della montagna” che si apre con la proclamazione delle beatitudini, ossia quella condizione di “felicità”, dono gratuito della misericordia di Dio, a cui sono chiamati tutti gli uomini, a prescindere dai propri meriti, in quanto figli destinati al regno e all’amore incondizionato del Padre. Alle beatitudini seguono i due detti, quello sul sale e sulla luce, che mirano a mettere a fuoco quali sono le modalità esistenziali con cui i discepoli sono nel mondo e che vengono presentate come una caratteristica immanente del cristiano e non un obiettivo da raggiungere.
Poi, a partire dai versetti di questa settimana e sino alla conclusione del capitolo 5, il discorso si sposta sul rapporto con la Legge che riceve la sua chiave interpretativa proprio nel versetto 17: Gesù non è venuto per abolire la Legge ma per portarla a compimento nella sua pienezza, spostando l’attenzione da un piano di mera precettistica ad una autentica adesione del cuore. Gesù, quindi, è ben lungi dal proporre una rigida e sterile osservanza della Legge quanto piuttosto un vivere la legge a partire dalla buona novella del regno che Gesù ha proclamato. Il discorso che qui viene fatto sembra essere un richiamo ad una serie di modalità del vivere (cristiano) in cui si può attuare l’essere discepoli. In apertura, Gesù chiarisce il suo ruolo nell’economia della storia della salvezza: Egli è colui che permette la piena realizzazione della relazione tra l’uomo e Dio che nella vecchia alleanza è stata stabilita attraverso la Legge e i Profeti e che qui trova la sua piena espressione.
In questo panorama si inserisce il concetto di “giustizia”, che viene ad essere una parola chiave dell’intero capitolo. “‘Giustizia’ in Matteo […] ha prima di tutto un valore soggettivo: è la fedeltà, la coerenza della nostra obbedienza alla volontà di Dio espressa nella legge” (cfr. A. Mello, Evangelo secondo Matteo, 1995, p. 113), una autentica ricerca di adesione alla volontà di Dio. In ciò si basa la differenza con l’interpretazione della “giustizia” da parte degli scribi e dei farisei, categorie di persone, che qui stanno a rappresentare tutti coloro che, nella strenua osservanza del precetto, attuano una distorsione della propria relazione con Dio alla ricerca di un riconoscimento autocentrato (Mt 6, 1: “State attenti a non fare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro”).
Nella presentazione della Legge, Gesù non si limita ad “aggiungere” qualcosa (il valore della particella che introduce la seconda proposizione dei versetti 21-34 non è necessariamente avversativo ma può essere esplicativo) ma sposta proprio la prospettiva di osservazione al cuore dell’uomo: la vera giustizia, ossia l’adesione obbediente alla volontà di Dio, si realizza nella misura in cui l’uomo vive autenticamente e in pienezza la sua relazione con il fratello. Pertanto, se Gesù nella prima parte di queste coppie di versetti si rivolge ad un generico “voi” (“Avete inteso che fu detto…”) nella seconda parte si rivolge ad un “tu” specifico, ognuno di noi, chiamato a vivere nella radicalità e nella coerenza la relazione con il fratello, non attraverso uno svuotamento della legge, ma attraverso una ricerca di giustizia più profonda.
In questa prospettiva, può essere compreso con il comandamento del “Non uccidere” non può riferirsi soltanto ad una effettiva eliminazione fisica di un altro ma come, in un percorso di coerenza, il piano si sposti ad ogni occasione in cui la relazione con il fratello sia distorta dall’ira. Matteo è l’unico tra gli evangelisti che pone in relazione la riconciliazione con il fratello (la parola “riconciliazione” in bocca a Gesù compare significativamente solo in Mt 5, 23) con l’offerta di culto. La riconciliazione con il fratello deve precedere qualsiasi offerta cultuale e deve partire dal “ricordarsi” se il fratello ha qualcosa contro di noi, senza che avvenga più una distinzione tra chi arreca e chi subisce l’offesa.
Nel percorso che, attraverso la meditazione e la maturazione, porta alla riconciliazione con i fratelli, la prima cosa da fare è sanare il conflitto e ripristinare la relazione. Non si può rivolgere il proprio culto al Padre senza che prima non si sia ripristinata la relazione con il fratello. In tal senso, in questo passo di Matteo la riconciliazione diventa la cartina di tornasole per l’autentico significato del culto. Il vero fondamento di una vita riconciliata con i fratelli è il cuore riconciliato con Dio. Analogamente, anche nei versetti relativi all’adulterio (vv. 27-31) il piano viene spostato dai fatti e dal fenomenico, al piano più profondo delle intenzioni del cuore, dal momento che il discorso non verte su un inasprimento in termini moralistici quanto ancora una volta a guardare le ragioni profonde del cuore e all’essere umano in quanto tale.
Così, la stessa radicalità e autenticità è richiesta anche nel parlare perché non avvenga che il nostro cuore sia diviso e ambiguo, facendoci essere delle persone doppie tra ciò che diciamo e ciò che poi mettiamo in pratica, consegnandoci ancora una volta ad una sterile ed esteriore espressione del culto, e una adesione alla legge che si basi solo sull’apparire. Piuttosto la cifra che unifica il cuore è proprio la relazione con il prossimo in cui si misura e si realizza quel processo di interiorizzazione della legge che passa attraverso una costante e coerente vigilanza sulle intenzioni profonde del cuore, perché quel “tu” a cui Gesù si rivolge sa di essere amato e accettato incondizionatamente sino in fondo e nelle sue debolezze dal Padre.
Luisa
Comunità Kairòs
VI domenica
Tempo ordinario, Anno A
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli […]».
Ma io vi dico. Gesù entra nel progetto di Dio non per rifare un codice, ma per rifare il coraggio del cuore, il coraggio del sogno. Agendo su tre leve decisive: la violenza, il desiderio, la sincerità. Fu detto: non ucciderai; ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, chi nutre rancore è potenzialmente un omicida. Gesù va diritto al movente delle azioni, al laboratorio dove si assemblano i gesti. L’apostolo Giovanni affermerà una cosa enorme: «Chi non ama suo fratello è omicida» (1 Gv 3,15). Chi non ama, uccide. Il disamore non è solo il mio lento morire, ma è un incubatore di violenza e omicidi. Ma io vi dico: chiunque si adira con il fratello, o gli dice pazzo, o stupido, è sulla linea di Caino… Gesù mostra i primi tre passi verso la morte: l’ira, l’insulto, il disprezzo, tre forme di omicidio.
L’uccisione esteriore viene dalla eliminazione interiore dell’altro. Chi gli dice pazzo sarà destinato al fuoco della Geenna. Geenna non è l’inferno, ma quel vallone alla periferia di Gerusalemme, dove si bruciavano le immondizie della città, da cui saliva perennemente un fumo acre e cattivo. Gesù dice: se tu disprezzi e insulti il fratello tu fai spazzatura della tua vita, la butti nell’immondizia; è ben più di un castigo, è la tua umanità che marcisce e va in fumo. Ascolti queste pagine che sono tra le più radicali del Vangelo e capisci per contrasto che diventano le più umane, perché Gesù parla solo della vita, con le parole proprie della vita: «Custodisci le mie parole ed esse ti custodiranno» (Prov 4,4), e non finirai nell’immondezzaio della storia.
Avete inteso che fu detto: non commettere adulterio. Ma io vi dico: se guardi una donna per desiderarla sei già adultero. Non dice semplicemente: se tu desideri una donna; ma: se guardi per desiderare, con atteggiamento predatorio, per conquistare e violare, per sedurre e possedere, se la riduci a un oggetto da prendere o collezionare, tu commetti un reato contro la grandezza di quella persona. Adulterio viene dal verbo a(du)lterare che significa: tu alteri, cambi, falsifichi, manipoli la persona. Le rubi il sogno di Dio. Adulterio non è tanto un reato contro la morale, ma un delitto contro la persona, deturpi il volto alto e puro dell’uomo. Terza leva: Ma io vi dico: Non giurate affatto; il vostro dire sia sì, sì; no, no. Dal divieto del giuramento, Gesù va fino in fondo, arriva al divieto della menzogna. Di’ sempre la verità e non servirà più giurare. Non abbiamo bisogno di mostraci diversi da ciò che siamo nell’intimo. Dobbiamo solo curare il nostro cuore, per poi prenderci cura della vita attorno a noi; c’è da guarire il cuore per poi guarire la vita.
Letture: Siracide 15,16-21; Salmo 118; 1 Corinzi 2,6-10; Matteo 5,17-37
Ermes Ronchi
Avvenire
Il brano di questa settimana si inserisce nel più ampio contesto del “discorso della montagna” che si apre con la proclamazione delle beatitudini, ossia quella condizione di “felicità”, dono gratuito della misericordia di Dio, a cui sono chiamati tutti gli uomini, a prescindere dai propri meriti, in quanto figli destinati al regno e all’amore incondizionato del Padre. Alle beatitudini seguono i due detti, quello sul sale e sulla luce, che mirano a mettere a fuoco quali sono le modalità esistenziali con cui i discepoli sono nel mondo e che vengono presentate come una caratteristica immanente del cristiano e non un obiettivo da raggiungere.
Poi, a partire dai versetti di questa settimana e sino alla conclusione del capitolo 5, il discorso si sposta sul rapporto con la Legge che riceve la sua chiave interpretativa proprio nel versetto 17: Gesù non è venuto per abolire la Legge ma per portarla a compimento nella sua pienezza, spostando l’attenzione da un piano di mera precettistica ad una autentica adesione del cuore. Gesù, quindi, è ben lungi dal proporre una rigida e sterile osservanza della Legge quanto piuttosto un vivere la legge a partire dalla buona novella del regno che Gesù ha proclamato. Il discorso che qui viene fatto sembra essere un richiamo ad una serie di modalità del vivere (cristiano) in cui si può attuare l’essere discepoli. In apertura, Gesù chiarisce il suo ruolo nell’economia della storia della salvezza: Egli è colui che permette la piena realizzazione della relazione tra l’uomo e Dio che nella vecchia alleanza è stata stabilita attraverso la Legge e i Profeti e che qui trova la sua piena espressione.
In questo panorama si inserisce il concetto di “giustizia”, che viene ad essere una parola chiave dell’intero capitolo. “‘Giustizia’ in Matteo […] ha prima di tutto un valore soggettivo: è la fedeltà, la coerenza della nostra obbedienza alla volontà di Dio espressa nella legge” (cfr. A. Mello, Evangelo secondo Matteo, 1995, p. 113), una autentica ricerca di adesione alla volontà di Dio. In ciò si basa la differenza con l’interpretazione della “giustizia” da parte degli scribi e dei farisei, categorie di persone, che qui stanno a rappresentare tutti coloro che, nella strenua osservanza del precetto, attuano una distorsione della propria relazione con Dio alla ricerca di un riconoscimento autocentrato (Mt 6, 1: “State attenti a non fare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro”).
Nella presentazione della Legge, Gesù non si limita ad “aggiungere” qualcosa (il valore della particella che introduce la seconda proposizione dei versetti 21-34 non è necessariamente avversativo ma può essere esplicativo) ma sposta proprio la prospettiva di osservazione al cuore dell’uomo: la vera giustizia, ossia l’adesione obbediente alla volontà di Dio, si realizza nella misura in cui l’uomo vive autenticamente e in pienezza la sua relazione con il fratello. Pertanto, se Gesù nella prima parte di queste coppie di versetti si rivolge ad un generico “voi” (“Avete inteso che fu detto…”) nella seconda parte si rivolge ad un “tu” specifico, ognuno di noi, chiamato a vivere nella radicalità e nella coerenza la relazione con il fratello, non attraverso uno svuotamento della legge, ma attraverso una ricerca di giustizia più profonda.
In questa prospettiva, può essere compreso con il comandamento del “Non uccidere” non può riferirsi soltanto ad una effettiva eliminazione fisica di un altro ma come, in un percorso di coerenza, il piano si sposti ad ogni occasione in cui la relazione con il fratello sia distorta dall’ira. Matteo è l’unico tra gli evangelisti che pone in relazione la riconciliazione con il fratello (la parola “riconciliazione” in bocca a Gesù compare significativamente solo in Mt 5, 23) con l’offerta di culto. La riconciliazione con il fratello deve precedere qualsiasi offerta cultuale e deve partire dal “ricordarsi” se il fratello ha qualcosa contro di noi, senza che avvenga più una distinzione tra chi arreca e chi subisce l’offesa.
Nel percorso che, attraverso la meditazione e la maturazione, porta alla riconciliazione con i fratelli, la prima cosa da fare è sanare il conflitto e ripristinare la relazione. Non si può rivolgere il proprio culto al Padre senza che prima non si sia ripristinata la relazione con il fratello. In tal senso, in questo passo di Matteo la riconciliazione diventa la cartina di tornasole per l’autentico significato del culto. Il vero fondamento di una vita riconciliata con i fratelli è il cuore riconciliato con Dio. Analogamente, anche nei versetti relativi all’adulterio (vv. 27-31) il piano viene spostato dai fatti e dal fenomenico, al piano più profondo delle intenzioni del cuore, dal momento che il discorso non verte su un inasprimento in termini moralistici quanto ancora una volta a guardare le ragioni profonde del cuore e all’essere umano in quanto tale.
Così, la stessa radicalità e autenticità è richiesta anche nel parlare perché non avvenga che il nostro cuore sia diviso e ambiguo, facendoci essere delle persone doppie tra ciò che diciamo e ciò che poi mettiamo in pratica, consegnandoci ancora una volta ad una sterile ed esteriore espressione del culto, e una adesione alla legge che si basi solo sull’apparire. Piuttosto la cifra che unifica il cuore è proprio la relazione con il prossimo in cui si misura e si realizza quel processo di interiorizzazione della legge che passa attraverso una costante e coerente vigilanza sulle intenzioni profonde del cuore, perché quel “tu” a cui Gesù si rivolge sa di essere amato e accettato incondizionatamente sino in fondo e nelle sue debolezze dal Padre.
Luisa
Comunità Kairòs