VII domenica

Tempo ordinario – Anno A

Letture: Levitico 19,1-2.17-18; Salmo 102; Prima Corinzi 3,16-23; Matteo 5,38-48

Da tre domeniche camminiamo sui crinali da vertigine del discorso della montagna. Vangeli davanti ai quali non sappiamo bene come stare: se tentare di edulcorarli, oppure relegarli nel repertorio delle pie illusioni. Ci soccorre un elenco di situazioni molto concrete che Gesù mette in fila: schiaffo, tunica, miglio, denaro in prestito. E le soluzioni che propone, in perfetta sintonia: l’altra guancia, il mantello, due miglia. Molto semplice, niente che un bambino non possa capire, nessuna teoria complicata, solo gesti quotidiani, una santità che sa di abiti, di strade, di gesti, di polvere. “Gesù parla della vita con le parole proprie della vita” (C. Bobin). Fu detto occhio per occhio. Ma io vi dico: Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra.

Quello che Gesù propone non è la sottomissione dei paurosi, ma una presa di posizione coraggiosa: “tu porgi”, fai tu il primo passo, tocca a te ricominciare la relazione, rammendando tenacemente il tessuto dei legami continuamente lacerato. Sono i gesti di Gesù che spiegano le sue parole: quando riceve uno schiaffo nella notte della prigionia, Gesù non risponde porgendo l’altra guancia, ma chiede ragione alla guardia: se ho parlato male dimostramelo. Lo vediamo indignarsi, e quante volte, per un’ingiustizia, per un bambino scacciato, per il tempio fatto mercato, per le maschere e il cuore di pietra dei pii e dei devoti. E collocarsi così dentro la tradizione profetica dell’ira sacra.

Non ci chiede di essere lo zerbino della storia, ma di inventarsi qualcosa – un gesto, una parola – che possa disarmare e disarmarci. Di scegliere, liberamente, di non far proliferare il male, attraverso il perdono “che strappa dai circoli viziosi, spezza la coazione a ripetere su altri ciò che hai subito, strappa la catena della colpa e della vendetta, spezza le simmetrie dell’odio” (Hanna Arendt). Perché noi siamo più della storia che ci ha partorito e ferito. Siamo come il Padre: “Perché siate figli del Padre che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni”. Addirittura Gesù inizia dai cattivi, forse perché i loro occhi sono più in debito di luce, più in ansia. Io che non farò mai sorgere o tramontare nessun sole, posso però far spuntare un grammo di luce, una minima stella. Quante volte ho visto sorgere il sole dentro gli occhi di una persona: bastava un ascolto fatto col cuore, un aiuto concreto, un abbraccio vero! Agisci come il Padre, o amerai il contrario della vita: dona un po’ di sole, un po’ d’acqua, a chiunque, senza chiederti se lo meriti o no. Perché chi ha meritato un giorno di abbeverarsi all’oceano della Vita, merita di bere oggi al tuo ruscello.

P. Ermes Ronchi
Avvenire

 

“S” come straordinario: «E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?». La vocazione del cristiano è una vocazione, a ciò che è insolito, niente affatto normale, allo straordinario. Siamo chiamati a non seguire l’andazzo comune, a superare abbondantemente le misure del buon senso e del calcolo giudizioso. Una vertiginosa chiamata ad andare oltre il possibile: essere immagine e somiglianza di Dio (perfetti [adulti] come il Padre dei cieli). Straordinario: il Vangelo di Matteo usa il termine greco perissòn, di più. Che non significa “più degli altri”, ma “più del dovuto”. Ciò comporta il superamento di una logica di pura reciprocità e invita ad una logica di sovrabbondanza. Non, dunque, la meritocrazia, ma la gratuità.

L’evangelista Matteo, dopo averci regalato l’inno delle Beatitudini, illustra – (“Vi è stato detto … ma io vi dico”) con relativo commento ed esemplificazione – il nuovo modo di praticare la giustizia (la volontà) di Dio: “Se la vostra giustizia non sarà di più [ancora una volta usa perissòn] di quella degli scribi e dei farisei…”. Si tratta non di antitesi, ma di intensificazione, come abbiamo meditato domenica scorsa. La liturgia di domenica ci riserva le ultime due intensificazioni: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico.. Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico…». Le Beatitudini sono bellissime, poetiche, commestibili. Ma quando incominciamo a masticarle succede quello che è successo al veggente Giovanni: «Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza» (Apocalisse 10, 10).

Scrive don Pronzato che siamo peggio degli struzzi che digeriscono i sassi: «Noi trangugiamo senza fiatare anche i macigni. E non avvertiamo neppure un leggero fastidio, un lieve mal di stomaco. Prendiamo la liturgia di oggi. Di macigni ce ne rifila diversi. Paolo ci avverte che siamo delle chiese viventi (“non sapete che siete tempio di Dio?”). Siamo santuari itineranti. E ci avverte che bisogna dare le dimissioni dal club dei sapienti di questo mondo e chiedere l’ammissione a quello degli stolti perché Dio impiglia i sapienti nella loro astuzia e li ingarbuglia nelle loro sottigliezze. Un altro macigno di grosse proporzioni ci raggiunge dalle remote lontananze del Levitico: “Siate santi, perché io, il Signore Dio vostro, sono santo”. E un macigno ancora più imponente ci rotola addosso dalle pendici di quella Montagna: “Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro dei cieli”. Certi discepoli, una volta, dalle parti di Cafarnao, hanno avuto la lealtà di protestare: “Questo linguaggio e duro. Chi può sopportarlo?” (Giovanni 6,60). E hanno abbandonato Gesù perché quel “pane disceso dal cielo” risultava loro indigesto. Noi, invece, abbiamo imparato le buone maniere, non protestiamo, non diciamo niente, non ci stupiamo di nulla, accettiamo tutto. Riusciamo a sopravvivere dopo tutto quello che la Parola di Dio ci scaraventa addosso».

Io mi sento in condizione di peccato permanente e strutturale e il radicalismo cristiano non appartiene alla mia condizione di vita. Forse sono solo capace di piccoli gesti, di conati di vita nuova, di balbettii incipienti, di umili assaggi, di mordi e fuggi. Eppure, anche a questi sono chiamato.

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Don Augusto Fontana