Letture: 2 Re 4,8-11.14-16a; Salmo 88; Romani 6,3-4.8-11; Matteo 10,37-42
Chi ama la propria famiglia più di me, non è degno di me. Ma allora chi è degno di te, Signore, della tua altissima pretesa? Padre madre fratello figlia… sono le persone a me più care, indispensabili per vivere davvero. Sono loro che ogni giorno mi spingono ad essere vero, autentico, a diventare il meglio di ciò che posso diventare. Ma la sua non è una competizione di emozioni, da cui sa che non uscirebbe vincitore se non presso pochi eroi, o santi o profeti dal cuore in fiamme. Eppure lo sappiamo che nessuno coincide con il cerchio della sua famiglia. Anche già per unirsi a colei che ama, l’uomo lascerà il padre e la madre!
Il Vangelo, croce e pasqua, un’eternità di luce, non si spiegano interessandosi solo della famiglia, e neppure una storia di giustizia, un mondo in pace. Bisogna rompere il piccolo perimetro e far entrare volti e nomi nel cerchio del proprio sangue, generare diversamente vita e futuro; staccarsi, perdere, spezzare l’eterna ripetizione di ciò che è già stato. Chi avrà perduto, troverà. Perdere la vita, non significa farsi uccidere: una vita si perde solo come si perde un tesoro, donandola. Noi possediamo, veramente, solo ciò che abbiamo donato ad altri.
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P. Ermes Ronchi
Rispondere allo sguardo del Signore scegliendo Cristo nella nostra vita non è cosa innocua. Gesù non nasconde a chi lo segue, che questo crea delle lacerazioni, cambia la vita fino ad andare a toccare anche i legami famigliari. Teniamo presente che nel mondo ebraico nel quale Gesù sta predicando, la famiglia è senza alcun dubbio il valore più alto. Con la sua predicazione, Gesù scardina così un ordinamento sociale accettato da tutti e proclama che le esigenze del Vangelo sono al di là e al di sopra anche delle convenzioni sociali più venerate.
Il triplice “non è degno di me” che abbiamo ascoltato non va inteso come valutazione morale. Si tratta di una semplice constatazione: vive la sequela di Gesù chi antepone l’amore di Cristo ai legami famigliari e si dispone a vivere questo amore fino alla croce, alla morte infamante. Questi è degno di Gesù, cioè, suo discepolo. Se Gesù antepone le esigenze del Regno di Dio ai legami e ai doveri famigliari, è perché lui stesso in prima persona ha vissuto con radicalità e passione bruciante l’urgenza del Regno che lo ha portato ad andare oltre i legami di sangue e a creare una “nuova famiglia” di cui non è criterio il sangue, ma l’ascolto della Parola di Dio e il fare la sua volontà (Mt 12,46-50). Gesù chiede anche ai suoi discepoli tale radicalità. Che può essere vissuta solo se nel cuore brucia un amore e un desiderio ardente del Cristo in una passione forte per il Vangelo.
Come limite estremo della sequela vi è la croce, il perdere la propria vita a causa di Gesù (Mt 10,38-39). Chiamato a essere là dove è stato anche il suo Signore, il discepolo è abitato per grazia, in forza di questa sequela dietro al suo Signore, dalla disponibilità ad assumere e portare la propria croce. Il discepolo, infatti, pone la propria vita nella vita del Signore e sa che perdendo la sua vita sulle orme del Signore in lui la ritroverà. Il discepolo deve disporsi a questa perdita di sé che sola gli consentirà di perseverare nel cammino.
Quando tutti gli appoggi umani verranno meno, quando il senso stesso del cammino si farà indecifrabile, quando le motivazioni che avevano indotto un tempo a seguire Cristo non appariranno più sufficienti, allora quello che il Vangelo chiama “prendere la propria croce” si rivelerà essenziale per proseguire il cammino in una fede sempre più spoglia e sempre più autentica. Questa perdita della propria vita ha senso solo nella scelta di amare liberamente e fino all’estremo del dono di sé (“Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, Gesù li amò sino alla fine”: Gv 13,1ss.). Gesù ha vissuto ogni istante della sua esistenza donando vita: ai malati, ai peccatori, agli emarginati, ai disprezzati. Gesù ha saputo, cioè ha scelto e voluto, dare vita. Gesù ha donato la sua vita dando vita agli altri. Non è stato un mero perdere, ma un donare, un generare, un trasmettere. Il perdere la vita che qui è richiesta è in realtà un invito ad amare come Cristo ha amato.
Monastero di Sant’Agata Feltria
XIII domenica
Tempo ordinario, Anno A
Letture: 2 Re 4,8-11.14-16a; Salmo 88; Romani 6,3-4.8-11; Matteo 10,37-42
Chi ama la propria famiglia più di me, non è degno di me. Ma allora chi è degno di te, Signore, della tua altissima pretesa? Padre madre fratello figlia… sono le persone a me più care, indispensabili per vivere davvero. Sono loro che ogni giorno mi spingono ad essere vero, autentico, a diventare il meglio di ciò che posso diventare. Ma la sua non è una competizione di emozioni, da cui sa che non uscirebbe vincitore se non presso pochi eroi, o santi o profeti dal cuore in fiamme. Eppure lo sappiamo che nessuno coincide con il cerchio della sua famiglia. Anche già per unirsi a colei che ama, l’uomo lascerà il padre e la madre!
Il Vangelo, croce e pasqua, un’eternità di luce, non si spiegano interessandosi solo della famiglia, e neppure una storia di giustizia, un mondo in pace. Bisogna rompere il piccolo perimetro e far entrare volti e nomi nel cerchio del proprio sangue, generare diversamente vita e futuro; staccarsi, perdere, spezzare l’eterna ripetizione di ciò che è già stato. Chi avrà perduto, troverà. Perdere la vita, non significa farsi uccidere: una vita si perde solo come si perde un tesoro, donandola. Noi possediamo, veramente, solo ciò che abbiamo donato ad altri.
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P. Ermes Ronchi
Rispondere allo sguardo del Signore scegliendo Cristo nella nostra vita non è cosa innocua. Gesù non nasconde a chi lo segue, che questo crea delle lacerazioni, cambia la vita fino ad andare a toccare anche i legami famigliari. Teniamo presente che nel mondo ebraico nel quale Gesù sta predicando, la famiglia è senza alcun dubbio il valore più alto. Con la sua predicazione, Gesù scardina così un ordinamento sociale accettato da tutti e proclama che le esigenze del Vangelo sono al di là e al di sopra anche delle convenzioni sociali più venerate.
Il triplice “non è degno di me” che abbiamo ascoltato non va inteso come valutazione morale. Si tratta di una semplice constatazione: vive la sequela di Gesù chi antepone l’amore di Cristo ai legami famigliari e si dispone a vivere questo amore fino alla croce, alla morte infamante. Questi è degno di Gesù, cioè, suo discepolo. Se Gesù antepone le esigenze del Regno di Dio ai legami e ai doveri famigliari, è perché lui stesso in prima persona ha vissuto con radicalità e passione bruciante l’urgenza del Regno che lo ha portato ad andare oltre i legami di sangue e a creare una “nuova famiglia” di cui non è criterio il sangue, ma l’ascolto della Parola di Dio e il fare la sua volontà (Mt 12,46-50). Gesù chiede anche ai suoi discepoli tale radicalità. Che può essere vissuta solo se nel cuore brucia un amore e un desiderio ardente del Cristo in una passione forte per il Vangelo.
Come limite estremo della sequela vi è la croce, il perdere la propria vita a causa di Gesù (Mt 10,38-39). Chiamato a essere là dove è stato anche il suo Signore, il discepolo è abitato per grazia, in forza di questa sequela dietro al suo Signore, dalla disponibilità ad assumere e portare la propria croce. Il discepolo, infatti, pone la propria vita nella vita del Signore e sa che perdendo la sua vita sulle orme del Signore in lui la ritroverà. Il discepolo deve disporsi a questa perdita di sé che sola gli consentirà di perseverare nel cammino.
Quando tutti gli appoggi umani verranno meno, quando il senso stesso del cammino si farà indecifrabile, quando le motivazioni che avevano indotto un tempo a seguire Cristo non appariranno più sufficienti, allora quello che il Vangelo chiama “prendere la propria croce” si rivelerà essenziale per proseguire il cammino in una fede sempre più spoglia e sempre più autentica. Questa perdita della propria vita ha senso solo nella scelta di amare liberamente e fino all’estremo del dono di sé (“Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, Gesù li amò sino alla fine”: Gv 13,1ss.). Gesù ha vissuto ogni istante della sua esistenza donando vita: ai malati, ai peccatori, agli emarginati, ai disprezzati. Gesù ha saputo, cioè ha scelto e voluto, dare vita. Gesù ha donato la sua vita dando vita agli altri. Non è stato un mero perdere, ma un donare, un generare, un trasmettere. Il perdere la vita che qui è richiesta è in realtà un invito ad amare come Cristo ha amato.
Monastero di Sant’Agata Feltria