In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà (…)».
Chi ama padre o madre, figlio o figlia più di me, non è degno di me. Una pretesa che sembra disumana, a cozzare con la bellezza e la forza degli affetti, che sono la prima felicità di questa vita, la cosa più vicina all’assoluto, quaggiù tra noi. Gesù non illude mai, vuole risposte meditate, mature e libere. Non insegna né il disamore, né una nuova gerarchia di emozioni. Non sottrae amori al cuore affamato dell’uomo, aggiunge invece un “di più”, non limitazione ma potenziamento. Ci nutre di sconfinamenti. Come se dicesse: Tu sai quanto è bello dare e ricevere amore, quanto contano gli affetti dei tuoi cari per poter star bene, ebbene io posso offrirti qualcosa di ancora più bello.
Ci ricorda che per creare la nuova architettura del mondo occorre una passione forte almeno quanto quella della famiglia. È in gioco l’umanità nuova. E così è stato fin dal principio: per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna (Gen 2,24). Abbandono, per la fecondità. Padre e madre “amati di meno”, lasciati per un’altra esistenza, è la legge della vita che cresce, si moltiplica e nulla arresta. Seconda esigenza: chi non prende la propria croce e non mi segue. Prima di tutto non identifichiamo, non confondiamo croce con sofferenza. Gesù non vuole che passiamo la vita a soffrire, non desidera crocifissi al suo seguito: uomini, donne, bambini, anziani, tutti inchiodati alle proprie croci. Vuole che seguiamo le sue orme, andando come lui di casa in casa, di volto in volto, di accoglienza in accoglienza, toccando piaghe e spezzando pane. Gente che sappia voler bene, senza mezze misure, senza contare, fino in fondo.
Chi perde la propria vita, la trova. Gioco verbale tra perdere e trovare, un paradosso vitale che è per sei volte sulla bocca di Gesù. Capiamo: perdere non significa lasciarsi sfuggire la vita o smarrirsi, bensì dare via, attivamente. Come si fa con un dono, con un tesoro speso goccia a goccia. Alla fine, la nostra vita è ricca solo di ciò che abbiamo donato a qualcuno. Per quanto piccolo: chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca, non perderà la ricompensa. Quale? Dio non ricompensa con cose. Dio non può dare nulla di meno di se stesso. Ricompensa è Lui.
Un bicchiere d’acqua, un niente che anche il più povero può offrire. Ma c’è un colpo d’ala, proprio di Gesù: acqua fresca deve essere, buona per la grande calura, l’acqua migliore che hai, quasi un’acqua affettuosa, con dentro l’eco del cuore. Dare la vita, dare un bicchiere d’acqua fresca, riassume la straordinaria pedagogia di Cristo. Il Vangelo è nella Croce, ma tutto il Vangelo è anche in un bicchiere d’acqua fresca. Con dentro il cuore.
Letture: 2 Re 4,8–11.14–16; Salmo 88; Romani 6,3–4.8–11; Matteo 10,37–42
Ermes Ronchi
Avvenire
Con il brano del Vangelo di oggi si conclude il cosiddetto «discorso missionario» indirizzato da Gesù ai Dodici, un discorso che riguarda da vicino tutti i cristiani, chiamati ad annunciare con la loro vita e le loro parole che in Cristo «il regno dei cieli è vicino» (cf Mt 10,7). Per portare Gesù Cristo agli altri occorre prima accoglierlo quale Signore della propria vita, amandolo sopra ogni cosa e più di ogni persona, anche se familiare. Gesù, infatti, dice: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me». Istintivamente storciamo il naso davanti ad una simile affermazione e saremmo tentati di segnalare al Maestro una contraddizione. Ma non è così.
Le parole di Gesù, infatti, non intendono assolutamente dire che il padre e la madre non hanno valore o non meritano rispetto. Tutt’altro! Gesù vuol dire che non è possibile amare veramente il padre e la madre «se non passando attraverso Dio». Molti non hanno creduto e ancora oggi non credono nella sapienza di queste divine parole. Eppure la società di oggi, così come si sta configurando, è una clamorosa dimostrazione della verità delle parole di Gesù. Infatti, escluso Dio e abbandonata la fede in Lui, le famiglie si stanno automaticamente sfasciando con una leggerezza impressionante: i figli non sanno più amare i genitori e, all’interno delle famiglie, si sta estinguendo la capacità stessa di gesti d’amore e di donazione vera e gratuita.
Ogni giorno, purtroppo, sentiamo il martellante racconto di storie di egoismo, di abbandono, di rifiuto, di misconoscimento. Dove accade tutto ciò? All’interno delle famiglie, all’interno del santuario dell’amore! Come è accaduto tutto questo? La risposta è una sola: perché gli uomini hanno preteso di poter amare rifiutando la sorgente dell’Amore, che è Dio. Dice ancora Gesù: «chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me». Queste parole del Maestro suonano come contestazione di tutto un costume oggi largamente diffuso. Egli vuol dirci: «Ricordatevi bene che, senza Dio nel cuore, voi non sarete capaci di amare i vostri figli con un amore vero». Infatti non ogni modo di amare i figli è giusto; non tutto ciò che noi riteniamo amore è vero amore.
Spesso l’amore dei genitori verso i figli non è altro che collaborazione insipiente al divertimento più sfrenato e più insensato; oppure è incapacità di dire «no» davanti a comportamenti evidentemente autodistruttivi dei figli: come possiamo chiamare «amore» un simile comportamento? L’amore dei genitori verso i figli spesso è a un livello così banale e così consumistico da lasciar ridurre la famiglia ad un piccolo albergo dove non si ha più niente in comune all’infuori del tetto e della chiave di casa. È necessario aprire gli occhi: è necessario che ci rimettiamo alla scuola dell’amore, riconoscendo in Dio il modello e la sorgente dell’amore vero. Questo è il senso profondo e straordinariamente attuale delle parole di Gesù.
Alcuni anni fa una ragazza, prima di compiere il gesto drammatico di togliersi la vita, lasciò scritto un messaggio di saluto per i propri genitori. Diceva così: «Cari genitori, riconosco che mi avete voluto bene, ma non siete riusciti a farmi del bene. Mi avete dato tutto, anche il superfluo, ma non mi avete dato l’essenziale: non mi avete aiutato a trovare uno scopo per cui valesse la pena spendere la vita!». Come fanno riflettere queste parole amare ma vere e sincere! Chi ama sul serio i propri figli, deve sentire come suo primo compito quello di accompagnarli all’incontro con Dio: solo quando è avvenuto questo incontro, i figli sono completamente generati alla vita.
Valgano come esempio per tutti le parole di Monica, la mamma santa di un figlio santo – Agostino -, la quale, dopo aver visto il figlio entrare nella luce della fede, esclama: «Figlio, quanto a me, nessuna cosa ormai ha per me dell’attrattiva in questa vita. Non so che cosa faccia ancora qui, né perché ci sia, compiute ormai le mie speranze in questo mondo. Uno solo era il motivo per cui desideravo restare ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico prima di morire. Dio me l’ha concesso con maggior larghezza, facendomi vedere che disprezzi la felicità terrena e ti consacri al Suo servizio». Questo è amore materno! Questi sono i sentimenti di chi veramente cerca il bene dei figli!
Gesù, annota l’evangelista, dice ancora: «chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me». Sono parole molto esigenti, ma Dio non ci lascerà soli a realizzarle. Se noi accogliamo il Signore nella nostra esistenza, è perché egli ci ha accolti per primo. Nel battesimo siamo stati inscritti nel suo mistero di passione-morte-risurrezione, come ci ricorda l’apostolo Paolo nella seconda lettura. Il Padre continuamente ci accoglie offrendoci il suo perdono, la sua Parola, il corpo e il sangue del suo Figlio Gesù. Vuole che noi lo accogliamo con una sequela vera e fedele, prendendo ogni giorno la nostra croce, pronti a fare quello che egli ha fatto fino a rischiare la vita per causa sua e per amore dei fratelli. L’accoglienza del Signore si manifesta anche nell’accoglienza degli altri. Si accenna a tre categorie di persone da privilegiare nella nostra accoglienza: i profeti, i giusti, i poveri.
La prima lettura narra l’accoglienza cordiale di due sposi fatta al profeta Eliseo, «uomo di Dio, un santo». Non sempre riusciamo a riconoscere i giusti, i profeti. Le loro parole e i loro gesti fanno nascere perplessità, se non addirittura ostilità e rifiuto. Ma Gesù stesso ci dice che «chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto». Accogliamo con fiducia chi ci parla nel nome del Signore, quanti cercano di vivere le esigenze del Vangelo, anche se le loro parole e il loro esempio sono scomodi perché rimettono in discussione il nostro modo di pensare e il nostro stile di vita.
Ed infine Gesù dice: «chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». Sì, il vero discepolo è colui che ama e si dona come ha fatto Gesù: «chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa». Quanta verità in queste parole! Pensiamo a santa Madre Teresa di Calcutta. Una donna felicissima! Eppure, che cosa ha fatto? Ha donato se stessa ai poveri seguendo la parola di Gesù e, meravigliosamente, ha visto fiorire la gioia nel suo cuore e nel cuore di coloro che incontrava sul suo cammino. Oppure Raoul Follereau, il quale si è chinato sui lebbrosi e, prodigiosamente, ha avvertito che il «dono di sé» è la casa della gioia. Egli, di conseguenza, ha gridato ai giovani: «O imparerete di nuovo ad amare oppure sarete distrutti dal cancro dell’egoismo». Questo spirito di accoglienza va chiesto nella preghiera e coltivato nella vita con gesti concreti. Accogliamoci dunque a vicenda, come Dio ha accolto e accoglie ciascuno di noi!
Don Lucio D’Abbraccio
XIII domenica
Tempo ordinario, Anno A
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà (…)».
Chi ama padre o madre, figlio o figlia più di me, non è degno di me. Una pretesa che sembra disumana, a cozzare con la bellezza e la forza degli affetti, che sono la prima felicità di questa vita, la cosa più vicina all’assoluto, quaggiù tra noi. Gesù non illude mai, vuole risposte meditate, mature e libere. Non insegna né il disamore, né una nuova gerarchia di emozioni. Non sottrae amori al cuore affamato dell’uomo, aggiunge invece un “di più”, non limitazione ma potenziamento. Ci nutre di sconfinamenti. Come se dicesse: Tu sai quanto è bello dare e ricevere amore, quanto contano gli affetti dei tuoi cari per poter star bene, ebbene io posso offrirti qualcosa di ancora più bello.
Ci ricorda che per creare la nuova architettura del mondo occorre una passione forte almeno quanto quella della famiglia. È in gioco l’umanità nuova. E così è stato fin dal principio: per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna (Gen 2,24). Abbandono, per la fecondità. Padre e madre “amati di meno”, lasciati per un’altra esistenza, è la legge della vita che cresce, si moltiplica e nulla arresta. Seconda esigenza: chi non prende la propria croce e non mi segue. Prima di tutto non identifichiamo, non confondiamo croce con sofferenza. Gesù non vuole che passiamo la vita a soffrire, non desidera crocifissi al suo seguito: uomini, donne, bambini, anziani, tutti inchiodati alle proprie croci. Vuole che seguiamo le sue orme, andando come lui di casa in casa, di volto in volto, di accoglienza in accoglienza, toccando piaghe e spezzando pane. Gente che sappia voler bene, senza mezze misure, senza contare, fino in fondo.
Chi perde la propria vita, la trova. Gioco verbale tra perdere e trovare, un paradosso vitale che è per sei volte sulla bocca di Gesù. Capiamo: perdere non significa lasciarsi sfuggire la vita o smarrirsi, bensì dare via, attivamente. Come si fa con un dono, con un tesoro speso goccia a goccia. Alla fine, la nostra vita è ricca solo di ciò che abbiamo donato a qualcuno. Per quanto piccolo: chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca, non perderà la ricompensa. Quale? Dio non ricompensa con cose. Dio non può dare nulla di meno di se stesso. Ricompensa è Lui.
Un bicchiere d’acqua, un niente che anche il più povero può offrire. Ma c’è un colpo d’ala, proprio di Gesù: acqua fresca deve essere, buona per la grande calura, l’acqua migliore che hai, quasi un’acqua affettuosa, con dentro l’eco del cuore. Dare la vita, dare un bicchiere d’acqua fresca, riassume la straordinaria pedagogia di Cristo. Il Vangelo è nella Croce, ma tutto il Vangelo è anche in un bicchiere d’acqua fresca. Con dentro il cuore.
Letture: 2 Re 4,8–11.14–16; Salmo 88; Romani 6,3–4.8–11; Matteo 10,37–42
Ermes Ronchi
Avvenire
Con il brano del Vangelo di oggi si conclude il cosiddetto «discorso missionario» indirizzato da Gesù ai Dodici, un discorso che riguarda da vicino tutti i cristiani, chiamati ad annunciare con la loro vita e le loro parole che in Cristo «il regno dei cieli è vicino» (cf Mt 10,7). Per portare Gesù Cristo agli altri occorre prima accoglierlo quale Signore della propria vita, amandolo sopra ogni cosa e più di ogni persona, anche se familiare. Gesù, infatti, dice: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me». Istintivamente storciamo il naso davanti ad una simile affermazione e saremmo tentati di segnalare al Maestro una contraddizione. Ma non è così.
Le parole di Gesù, infatti, non intendono assolutamente dire che il padre e la madre non hanno valore o non meritano rispetto. Tutt’altro! Gesù vuol dire che non è possibile amare veramente il padre e la madre «se non passando attraverso Dio». Molti non hanno creduto e ancora oggi non credono nella sapienza di queste divine parole. Eppure la società di oggi, così come si sta configurando, è una clamorosa dimostrazione della verità delle parole di Gesù. Infatti, escluso Dio e abbandonata la fede in Lui, le famiglie si stanno automaticamente sfasciando con una leggerezza impressionante: i figli non sanno più amare i genitori e, all’interno delle famiglie, si sta estinguendo la capacità stessa di gesti d’amore e di donazione vera e gratuita.
Ogni giorno, purtroppo, sentiamo il martellante racconto di storie di egoismo, di abbandono, di rifiuto, di misconoscimento. Dove accade tutto ciò? All’interno delle famiglie, all’interno del santuario dell’amore! Come è accaduto tutto questo? La risposta è una sola: perché gli uomini hanno preteso di poter amare rifiutando la sorgente dell’Amore, che è Dio. Dice ancora Gesù: «chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me». Queste parole del Maestro suonano come contestazione di tutto un costume oggi largamente diffuso. Egli vuol dirci: «Ricordatevi bene che, senza Dio nel cuore, voi non sarete capaci di amare i vostri figli con un amore vero». Infatti non ogni modo di amare i figli è giusto; non tutto ciò che noi riteniamo amore è vero amore.
Spesso l’amore dei genitori verso i figli non è altro che collaborazione insipiente al divertimento più sfrenato e più insensato; oppure è incapacità di dire «no» davanti a comportamenti evidentemente autodistruttivi dei figli: come possiamo chiamare «amore» un simile comportamento? L’amore dei genitori verso i figli spesso è a un livello così banale e così consumistico da lasciar ridurre la famiglia ad un piccolo albergo dove non si ha più niente in comune all’infuori del tetto e della chiave di casa. È necessario aprire gli occhi: è necessario che ci rimettiamo alla scuola dell’amore, riconoscendo in Dio il modello e la sorgente dell’amore vero. Questo è il senso profondo e straordinariamente attuale delle parole di Gesù.
Alcuni anni fa una ragazza, prima di compiere il gesto drammatico di togliersi la vita, lasciò scritto un messaggio di saluto per i propri genitori. Diceva così: «Cari genitori, riconosco che mi avete voluto bene, ma non siete riusciti a farmi del bene. Mi avete dato tutto, anche il superfluo, ma non mi avete dato l’essenziale: non mi avete aiutato a trovare uno scopo per cui valesse la pena spendere la vita!». Come fanno riflettere queste parole amare ma vere e sincere! Chi ama sul serio i propri figli, deve sentire come suo primo compito quello di accompagnarli all’incontro con Dio: solo quando è avvenuto questo incontro, i figli sono completamente generati alla vita.
Valgano come esempio per tutti le parole di Monica, la mamma santa di un figlio santo – Agostino -, la quale, dopo aver visto il figlio entrare nella luce della fede, esclama: «Figlio, quanto a me, nessuna cosa ormai ha per me dell’attrattiva in questa vita. Non so che cosa faccia ancora qui, né perché ci sia, compiute ormai le mie speranze in questo mondo. Uno solo era il motivo per cui desideravo restare ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico prima di morire. Dio me l’ha concesso con maggior larghezza, facendomi vedere che disprezzi la felicità terrena e ti consacri al Suo servizio». Questo è amore materno! Questi sono i sentimenti di chi veramente cerca il bene dei figli!
Gesù, annota l’evangelista, dice ancora: «chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me». Sono parole molto esigenti, ma Dio non ci lascerà soli a realizzarle. Se noi accogliamo il Signore nella nostra esistenza, è perché egli ci ha accolti per primo. Nel battesimo siamo stati inscritti nel suo mistero di passione-morte-risurrezione, come ci ricorda l’apostolo Paolo nella seconda lettura. Il Padre continuamente ci accoglie offrendoci il suo perdono, la sua Parola, il corpo e il sangue del suo Figlio Gesù. Vuole che noi lo accogliamo con una sequela vera e fedele, prendendo ogni giorno la nostra croce, pronti a fare quello che egli ha fatto fino a rischiare la vita per causa sua e per amore dei fratelli. L’accoglienza del Signore si manifesta anche nell’accoglienza degli altri. Si accenna a tre categorie di persone da privilegiare nella nostra accoglienza: i profeti, i giusti, i poveri.
La prima lettura narra l’accoglienza cordiale di due sposi fatta al profeta Eliseo, «uomo di Dio, un santo». Non sempre riusciamo a riconoscere i giusti, i profeti. Le loro parole e i loro gesti fanno nascere perplessità, se non addirittura ostilità e rifiuto. Ma Gesù stesso ci dice che «chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto». Accogliamo con fiducia chi ci parla nel nome del Signore, quanti cercano di vivere le esigenze del Vangelo, anche se le loro parole e il loro esempio sono scomodi perché rimettono in discussione il nostro modo di pensare e il nostro stile di vita.
Ed infine Gesù dice: «chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». Sì, il vero discepolo è colui che ama e si dona come ha fatto Gesù: «chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa». Quanta verità in queste parole! Pensiamo a santa Madre Teresa di Calcutta. Una donna felicissima! Eppure, che cosa ha fatto? Ha donato se stessa ai poveri seguendo la parola di Gesù e, meravigliosamente, ha visto fiorire la gioia nel suo cuore e nel cuore di coloro che incontrava sul suo cammino. Oppure Raoul Follereau, il quale si è chinato sui lebbrosi e, prodigiosamente, ha avvertito che il «dono di sé» è la casa della gioia. Egli, di conseguenza, ha gridato ai giovani: «O imparerete di nuovo ad amare oppure sarete distrutti dal cancro dell’egoismo». Questo spirito di accoglienza va chiesto nella preghiera e coltivato nella vita con gesti concreti. Accogliamoci dunque a vicenda, come Dio ha accolto e accoglie ciascuno di noi!
Don Lucio D’Abbraccio