Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. (…). Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».
Egli parlò loro di molte cose con parabole. Le parabole sono uscite così dalla viva voce del Maestro. Ascoltarle è come ascoltare il mormorio della sorgente, il momento iniziale, fresco, sorgivo del Vangelo. Le parabole non sono un ripiego o un’eccezione, ma la punta più alta e geniale, la più rifinita del linguaggio di Gesù. Egli amava il lago, i campi di grano, le distese di spighe e di papaveri, i passeri in volo, il fico. Osservava la vita e nascevano parabole. Prendeva storie di vita e ne faceva storie di Dio, svelava che «in ogni cosa è seminata una sillaba della Parola di Dio» (Laudato si’).
Il seminatore uscì a seminare. Gesù immagina la storia, il creato, il regno come una grande semina: è tutto un seminare, un volare di grano nel vento, nella terra, nel cuore. È tutto un germinare, un accestire, un maturare. Ogni vita è raccontata come un albeggiare continuo, una primavera tenace. Il seminatore uscì, ed il mondo è già gravido. Ed ecco che il seminatore, che può sembrare sprovveduto perché parte del seme cade su sassi e rovi e strada, è invece colui che abbraccia l’imperfezione del campo del mondo, e nessuno è discriminato, nessuno escluso dalla semina divina. Siamo tutti duri, spinosi, feriti, opachi, eppure la nostra umanità imperfetta è anche una zolla di terra buona, sempre adatta a dare vita ai semi di Dio.
Ci sono nel campo del mondo, e in quello del mio cuore, forze che contrastano la vita e le nascite. La parabola non spiega perché questo accada. E non spiega neppure come strappare infestanti, togliere sassi, cacciare uccelli. Ma ci racconta di un seminatore fiducioso, la cui fiducia alla fine non viene tradita: nel mondo e nel mio cuore sta crescendo grano, sta maturando una profezia di pane e di fame saziata. Lo spiega il verbo più importante della parabola: e diede frutto. Fino al cento per uno. E non è una pia esagerazione. Vai in un campo di frumento e vedi che talvolta da un chicco solo possono accestire diversi steli, ognuno con la sua spiga.
L’etica evangelica non cerca campi perfetti, ma fecondi. Lo sguardo del Signore non si posa sui miei difetti, su sassi o rovi, ma sulla potenza della Parola che rovescia le zolle sassose, si cura dei germogli nuovi e si ribella a tutte le sterilità. E farà di me terra buona, terra madre, culla accogliente di germi divini. Gesù racconta la bellezza di un Dio che non viene come mietitore delle nostre poche messi, ma come il seminatore infaticabile delle nostre lande e sterpaglie. E imparerò da lui a non aver bisogno di raccolti, ma di grandi campi da seminare insieme, e di un cuore non derubato; ho bisogno del Dio seminatore, che le mie aridità non stancano mai.
Letture: Isaia 55, 10-11; Salmo 64; Romani 8, 18-23; Matteo 13, 1-9
Ermes Ronchi
Avvenire
In questa e nelle prossime due domeniche ascoltiamo il capitolo 13 del vangelo secondo Matteo, che raccoglie alcune parabole con cui Gesù annuncia «i misteri del regno dei cieli». Gesù, uscito dalla casa di Cafarnao in cui era solito ritirarsi con la sua comunità, si reca presso il mare di Galilea, dove lo raggiunge una folla numerosa. Egli decide dunque di sedersi su una barca e da lì rivolge il suo insegnamento alle persone radunate ai bordi del lago. Gesù non fa discorsi lunghi e complicati ma, come suo solito, si serve di brevi parabole, creazioni sapienziali e letterarie che nascono dalla sua capacità di gratuità e di contemplazione del reale, dal tempo trascorso a ripensare gli eventi quotidiani che egli osserva. Siamo qui al cuore della singolarità di Gesù quale maestro: è con le sue parabole che egli proclama in modo semplice «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13,35; cf. Sal 78,2).
La prima parabola, quella che narra del seme caduto sui diversi tipi di terreno, è la più importante e da essa dipendono le successive. È infatti una sorta di parabola in atto: quando Gesù afferma che «il seminatore esce a seminare» sta parlando del suo seminare «la parola del Regno» in quanti lo ascoltano sulla riva e, dunque, sta descrivendo la loro accoglienza o il loro rifiuto di tale parola. Per questo rivolge all’intelligenza dei loro cuori l’esortazione: «Chi ha orecchi, ascolti!». Secondo le usanze agricole palestinesi la semina avveniva prima che il terreno fertile venisse arato: il contadino spargeva il seme con abbondanza per ogni dove, in un modo che certamente ci stupisce. Così – dice Gesù – una parte del seme cade lungo la strada, dove viene divorata dagli uccelli; un’altra parte cade tra i sassi e subito germoglia ma poi, allo spuntare del sole, secca per mancanza di radici; un’altra parte cade tra le spine, che ben presto la soffocano; un’altra parte cade infine sulla terra buona e porta frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta.
Poi Gesù rientra in casa (cf. Mc 4,10) e ai discepoli, in disparte, spiega il significato di ciò che ha appena narrato, ammaestrandoli su come ascoltare la parola di Dio da lui annunciata con abbondanza. Ma i quattro terreni di cui parla Gesù sono tutti rappresentati, di volta in volta, nel nostro unico cuore, sono quattro possibili risposte alla Parola! Occorre in primo luogo interiorizzare la Parola, «ruminarla» con attenzione, altrimenti il Maligno subito la rapisce dal nostro cuore: un ascolto superficiale non è un vero ascolto, è infruttuoso come il seme seminato lungo la strada. Occorre inoltre perseverare nell’ascolto: è facile accogliere la Parola con gioia per breve tempo, lasciare che essa porti frutto per un attimo, come il seme tra i sassi; ma così si è persone «di un momento», prive di radici, incapaci di fare fronte alla prova del tempo e alle tribolazioni che un ascolto autentico comporta.
Occorre anche lottare contro i seducenti idoli mondani, in particolare quello dell’accumulo di ricchezze, altrimenti la Parola viene soffocata come il seme dalle spine e non giunge a portare il frutto di una fede matura. Infine – dice Gesù – «il seme seminato nella terra buona è colui che ascolta la Parola e la comprende; egli dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta». Questo è l’ascolto della Parola fatto «con un cuore bello e buono» (Lc 8,15), che si oppone a quella che per la Scrittura è la malattia più pericolosa: la durezza di cuore (cf. Dt 10,16).
Un quotidiano esercizio di ascolto che però non va inteso come uno sforzo meritorio, bensì come un predisporre tutto affinché la parola di Dio possa operare in noi. Bisogna infatti essere consapevoli che la Parola è sempre efficace (cf. Is 55,10-11; Eb 4,12-13) e nella sua potenza non lascia mai ciò che incontra nella situazione di partenza. Di fronte ad essa non si può restare neutrali e indifferenti: o la si accoglie e ci si converte oppure, se essa viene respinta, indurisce il cuore di chi la rifiuta, come Gesù dice ai discepoli citando il profeta Isaia (cf. Is 6,9-10). È ciò che accade anche di fronte alla persona di Gesù: è lui, Parola divenuta uomo, «il mistero del regno dei cieli»; è dalla comunione con lui che dipende la fecondità della nostra vita.
Enzo Bianchi
AlzogliOcchiversoilCielo
XV domenica
Tempo ordinario, Anno A
Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. (…). Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».
Egli parlò loro di molte cose con parabole. Le parabole sono uscite così dalla viva voce del Maestro. Ascoltarle è come ascoltare il mormorio della sorgente, il momento iniziale, fresco, sorgivo del Vangelo. Le parabole non sono un ripiego o un’eccezione, ma la punta più alta e geniale, la più rifinita del linguaggio di Gesù. Egli amava il lago, i campi di grano, le distese di spighe e di papaveri, i passeri in volo, il fico. Osservava la vita e nascevano parabole. Prendeva storie di vita e ne faceva storie di Dio, svelava che «in ogni cosa è seminata una sillaba della Parola di Dio» (Laudato si’).
Il seminatore uscì a seminare. Gesù immagina la storia, il creato, il regno come una grande semina: è tutto un seminare, un volare di grano nel vento, nella terra, nel cuore. È tutto un germinare, un accestire, un maturare. Ogni vita è raccontata come un albeggiare continuo, una primavera tenace. Il seminatore uscì, ed il mondo è già gravido. Ed ecco che il seminatore, che può sembrare sprovveduto perché parte del seme cade su sassi e rovi e strada, è invece colui che abbraccia l’imperfezione del campo del mondo, e nessuno è discriminato, nessuno escluso dalla semina divina. Siamo tutti duri, spinosi, feriti, opachi, eppure la nostra umanità imperfetta è anche una zolla di terra buona, sempre adatta a dare vita ai semi di Dio.
Ci sono nel campo del mondo, e in quello del mio cuore, forze che contrastano la vita e le nascite. La parabola non spiega perché questo accada. E non spiega neppure come strappare infestanti, togliere sassi, cacciare uccelli. Ma ci racconta di un seminatore fiducioso, la cui fiducia alla fine non viene tradita: nel mondo e nel mio cuore sta crescendo grano, sta maturando una profezia di pane e di fame saziata. Lo spiega il verbo più importante della parabola: e diede frutto. Fino al cento per uno. E non è una pia esagerazione. Vai in un campo di frumento e vedi che talvolta da un chicco solo possono accestire diversi steli, ognuno con la sua spiga.
L’etica evangelica non cerca campi perfetti, ma fecondi. Lo sguardo del Signore non si posa sui miei difetti, su sassi o rovi, ma sulla potenza della Parola che rovescia le zolle sassose, si cura dei germogli nuovi e si ribella a tutte le sterilità. E farà di me terra buona, terra madre, culla accogliente di germi divini. Gesù racconta la bellezza di un Dio che non viene come mietitore delle nostre poche messi, ma come il seminatore infaticabile delle nostre lande e sterpaglie. E imparerò da lui a non aver bisogno di raccolti, ma di grandi campi da seminare insieme, e di un cuore non derubato; ho bisogno del Dio seminatore, che le mie aridità non stancano mai.
Letture: Isaia 55, 10-11; Salmo 64; Romani 8, 18-23; Matteo 13, 1-9
Ermes Ronchi
Avvenire
In questa e nelle prossime due domeniche ascoltiamo il capitolo 13 del vangelo secondo Matteo, che raccoglie alcune parabole con cui Gesù annuncia «i misteri del regno dei cieli». Gesù, uscito dalla casa di Cafarnao in cui era solito ritirarsi con la sua comunità, si reca presso il mare di Galilea, dove lo raggiunge una folla numerosa. Egli decide dunque di sedersi su una barca e da lì rivolge il suo insegnamento alle persone radunate ai bordi del lago. Gesù non fa discorsi lunghi e complicati ma, come suo solito, si serve di brevi parabole, creazioni sapienziali e letterarie che nascono dalla sua capacità di gratuità e di contemplazione del reale, dal tempo trascorso a ripensare gli eventi quotidiani che egli osserva. Siamo qui al cuore della singolarità di Gesù quale maestro: è con le sue parabole che egli proclama in modo semplice «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13,35; cf. Sal 78,2).
La prima parabola, quella che narra del seme caduto sui diversi tipi di terreno, è la più importante e da essa dipendono le successive. È infatti una sorta di parabola in atto: quando Gesù afferma che «il seminatore esce a seminare» sta parlando del suo seminare «la parola del Regno» in quanti lo ascoltano sulla riva e, dunque, sta descrivendo la loro accoglienza o il loro rifiuto di tale parola. Per questo rivolge all’intelligenza dei loro cuori l’esortazione: «Chi ha orecchi, ascolti!». Secondo le usanze agricole palestinesi la semina avveniva prima che il terreno fertile venisse arato: il contadino spargeva il seme con abbondanza per ogni dove, in un modo che certamente ci stupisce. Così – dice Gesù – una parte del seme cade lungo la strada, dove viene divorata dagli uccelli; un’altra parte cade tra i sassi e subito germoglia ma poi, allo spuntare del sole, secca per mancanza di radici; un’altra parte cade tra le spine, che ben presto la soffocano; un’altra parte cade infine sulla terra buona e porta frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta.
Poi Gesù rientra in casa (cf. Mc 4,10) e ai discepoli, in disparte, spiega il significato di ciò che ha appena narrato, ammaestrandoli su come ascoltare la parola di Dio da lui annunciata con abbondanza. Ma i quattro terreni di cui parla Gesù sono tutti rappresentati, di volta in volta, nel nostro unico cuore, sono quattro possibili risposte alla Parola! Occorre in primo luogo interiorizzare la Parola, «ruminarla» con attenzione, altrimenti il Maligno subito la rapisce dal nostro cuore: un ascolto superficiale non è un vero ascolto, è infruttuoso come il seme seminato lungo la strada. Occorre inoltre perseverare nell’ascolto: è facile accogliere la Parola con gioia per breve tempo, lasciare che essa porti frutto per un attimo, come il seme tra i sassi; ma così si è persone «di un momento», prive di radici, incapaci di fare fronte alla prova del tempo e alle tribolazioni che un ascolto autentico comporta.
Occorre anche lottare contro i seducenti idoli mondani, in particolare quello dell’accumulo di ricchezze, altrimenti la Parola viene soffocata come il seme dalle spine e non giunge a portare il frutto di una fede matura. Infine – dice Gesù – «il seme seminato nella terra buona è colui che ascolta la Parola e la comprende; egli dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta». Questo è l’ascolto della Parola fatto «con un cuore bello e buono» (Lc 8,15), che si oppone a quella che per la Scrittura è la malattia più pericolosa: la durezza di cuore (cf. Dt 10,16).
Un quotidiano esercizio di ascolto che però non va inteso come uno sforzo meritorio, bensì come un predisporre tutto affinché la parola di Dio possa operare in noi. Bisogna infatti essere consapevoli che la Parola è sempre efficace (cf. Is 55,10-11; Eb 4,12-13) e nella sua potenza non lascia mai ciò che incontra nella situazione di partenza. Di fronte ad essa non si può restare neutrali e indifferenti: o la si accoglie e ci si converte oppure, se essa viene respinta, indurisce il cuore di chi la rifiuta, come Gesù dice ai discepoli citando il profeta Isaia (cf. Is 6,9-10). È ciò che accade anche di fronte alla persona di Gesù: è lui, Parola divenuta uomo, «il mistero del regno dei cieli»; è dalla comunione con lui che dipende la fecondità della nostra vita.
Enzo Bianchi
AlzogliOcchiversoilCielo