XXV domenica

Tempo ordinario, Anno A

(…) Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto (…).

La vigna è il campo più amato, quello in cui l’agricoltore investe più lavoro e passione, fatica e poesia. Senza poesia, infatti, anche il sorso di vino è sterile. Vigna di Dio siamo noi, sua coltivazione che non ha prezzo. Lo racconta la parabola del proprietario terriero che esce di casa all’alba, che già dalla prima luce del giorno gira per il villaggio in cerca di braccianti. E vi ritornerà per altre quattro volte, ogni due ore, fino a che c’è luce. A questo punto però qualcosa non torna: che senso ha per un imprenditore reclutare dei giornalieri quando manca un’ora soltanto al tramonto? Il tempo di arrivare alla vigna, di prendere gli ordini dal fattore, e sarà subito sera. Allora nasce il sospetto che ci sia dell’altro, che quel cercatore di braccia perdute si interessi più degli uomini, e della loro dignità, che della sua vigna, più delle persone che del profitto. Ma arriviamo al cuore della parabola, la paga.

Primo gesto spiazzante: cominciare da quelli che hanno lavorato di meno. Secondo gesto illogico: pagare un’ora di lavoro quanto dodici ore. E capiamo che non è una paga, ma un regalo. Quelli che hanno portato il peso del caldo e della fatica si aspettano, giustamente, un supplemento alla paga. Come dargli torto? Ed eccoci spiazzati ancora: No, amico, non ti faccio torto. Il padrone non toglie nulla ai primi, aggiunge agli altri. Non è ingiusto, ma generoso. E crea una vertigine dentro il nostro modo mercantile di concepire la vita: mette l’uomo prima del mercato, la dignità della persona prima delle ore lavorate. E ci lancia tutti in un’avventura sconosciuta: quella di una economia solidale, economia del dono, della solidarietà, della cura dell’anello debole, perché la catena non si spezzi. L’avventura della bontà: il padrone avvolge di carità la giustizia, e la profuma.

Mi commuove il Dio presentato da Gesù, un Dio che con quel denaro, che giunge insperato e benedetto a quattro quinti dei lavoratori intende immettere vita nelle vite dei più precari tra loro. La giustizia umana è dare a ciascuno il suo, quella di Dio è dare a ciascuno il meglio. Nessun imprenditore farebbe così. Ma Dio non lo è; non un imprenditore, non il contabile dei meriti, lui è il Donatore, che non sa far di conto, ma che sa saziarci di sorprese. Nessun vantaggio, allora, a essere operai della prima ora? Solo più fatica? Un vanto c’è, umile e potente, quello di aver reso più bella la vigna della storia, di aver lasciato più vita dietro di te. Ti dispiace che io sia buono? No, Signore, non mi dispiace, perché sono l’ultimo bracciante, perché so che verrai a cercarmi ancora, anche quando si sarà fatto molto tardi.

Letture: Isaia 55,6-9; Salmo 144 (145); Lettera ai Filippesi 1,20c-24.27a; Matteo 20,1-16

Ermes Ronchi
Avvenire

 

Il testo evangelico di questa domenica è costituito da una parabola presente solamente nel primo vangelo e che urta la nostra sensibilità e per certi aspetti si presenta come irricevibile. La reazione che chiunque sente nascere spontaneamente in sé alla lettura di questa parabola è: “No, non è giusto”. Non è giusto che lavoratori che hanno faticato un’intera giornata sotto il caldo ricevano la stessa paga di chi ha lavorato un’ora sola, e per giunta la più fresca. Non è giusto che operai che hanno lavorato per tempi diversi impegnati nello stesso lavoro, ricevano la medesima retribuzione. Cerchiamo dunque di introdurci nella comprensione del testo.

La parabola ha conosciuto interpretazioni molto diverse nella storia: è stata letta come allegoria delle età della vita umana e intesa come portatrice del messaggio che anche una conversione in tarda età non pregiudica la salvezza; è stata interpretata come allegoria della storia dell’elezione che va da Adamo a Noè, da Abramo e Mosè fino a Cristo. L’esegesi moderna vi scorge normalmente una parabola che in bocca a Gesù mirava a giustificare il suo comportamento di fronte ai suoi detrattori che lo rimproveravano di prediligere peccatori e pubblicani, di rivolgersi preferenzialmente a loro, ultimi destinati a divenire primi nella logica paradossale del Regno. Tuttavia, si può vedere in questa parabola anche un altro aspetto interno alla comunità dei Dodici e dunque collocarla nel contesto degli eventi della vita comunitaria che Gesù sta vivendo con i suoi discepoli.

Un confronto con il vangelo di Marco mostra che questa parabola è un materiale proprio di Matteo inserito a questo punto, spezzando la continuità della trama di Marco, come si trattasse di una ermeneutica matteana degli eventi di cui si parla in quei capitoli. E gli eventi sono la domanda di Pietro che chiede a Gesù che cosa guadagneranno i discepoli dall’aver lasciato tutto e seguito Gesù: (Mt 19,27). C’è una richiesta di ricompensa. Questo il testo che precede la nostra parabola e a cui la parabola è strettamente connessa dal gàr, “infatti”, iniziale, in Mt 20,1. Poi, a seguito del terzo annuncio della passione, morte e resurrezione di Gesù, c’è la richiesta di due discepoli, attraverso la loro madre, di godere dei posti d’onore nel regno di Gesù stesso (Mt 20,20-23). C’è una rivendicazione di merito, o meglio,una pretesa di primo posto.

Questa pretesa dei due fratelli, i figli di Zebedeo, che insieme a Pietro e Andrea sono i primi chiamati nel vangelo secondo Matteo (Mt 4,18-22), suscita il malcontento e la protesta degli altri membri della comunità che si sdegnano con loro e litigano (Mt 20,24-28). La nostra parabola è così incorniciata tra le due frasi che parlano degli ultimi che diventano primi e dei primi che diventano ultimi (19,30 e 20,16): questa dinamica vale anche all’interno della comunità cristiana. Ci sono alcuni che ritengono di avere dei diritti di prelazione e di poter godere di una maggiore vicinanza con Gesù e di un onore maggiore di altri, c’è chi pretende di avere un posto privilegiato, e c’è una domanda sul senso del gesto di radicalità cristiana di abbandonare tutto e mettersi a seguire Gesù. C’è qualche guadagno in tutto questo? Insomma una lettura legittima è quella di vedere nella parabola un richiamo che Gesù fa alla sua comunità e alle logiche che devono vivificarla mettendo in guardia dalle dinamiche che sono distruttive.

La parabola è divisa in due parti, una che inizia all’alba, al mattino presto (vv. 1-7), la seconda che inizia una volta venuta la sera (vv. 8-15). Nella prima parte, alle diverse ore del giorno, partendo dalle sei del mattino fino alle 17 (l’ora undicesima), il padrone di casa esce a prendere a giornata dei lavoratori per la sua vigna, probabilmente per la vendemmia. Con i primi si accorda per un denaro al giorno. Ad altri che chiama più tardi dice che darà loro ciò che è giusto. E il lettore comincia a pensare a cosa potrà essere questo “giusto”. Certamente, egli pensa, sarà una paga che tiene conto del fatto che questi hanno lavorato meno dei primi. Colpisce nella parabola il comportamento del padrone della vigna che continua a cercare operai anche quando ormai il lavoro della giornata sta terminando.

Anche alla fine del pomeriggio, quando è insensato ingaggiare ancora operai (che senso ha ingaggiare qualcuno che lavorerà a mala pena un’ora?), egli dà un lavoro a chi non ne ha: “Perché state qui tutto il giorno senza far niente?” (20,7). Questo padrone in cerca di operai è immagine di un Dio che desidera l’incontro con gli uomini, che va in cerca degli uomini e si coinvolge con loro. La motivazione di questa ricerca non è in urgenze lavorative che il testo non dice, ma solo e unicamente nella volontà del padrone. Se dunque la prima parte della parabola è incentrata sull’arruolamento di chi dovrà andare a lavorare, la seconda parte (vv. 8-15) riguarda il momento del pagamento. Dice il Deuteronomio: “Darai all’operaio il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole” (Dt 24,15).

Il pagamento inizia dagli ultimi, ed è questo che consente che i primi diano vita alla loro contestazione. Che il pagamento inizi dagli ultimi – fatto non spiegato nel testo – è forse un’allusione alla scelta preferenziale degli ultimi che caratterizza il Dio biblico? Non sappiamo. Sappiamo però che così i primi vedono il pagamento accordato agli ultimi. Vedono e vengono a sapere. Il vedere che agli ultimi è data la paga promessa a loro, suscita un’aspettativa nel cuore dei primi: noi avremo un salario maggiore. A cui segue la delusione perché viene data loro la stessa paga che agli ultimi. Hanno cambiato l’attesa del cuore: non si attendono più di ricevere ciò che hanno pattuito, ma si attendono di ricevere più degli altri che hanno lavorato meno. E mormorano.

Il padrone allora mostra la sua giustizia: egli è irreprensibile dal punto di vista del diritto, perché ha rispettato il contratto di pagamento con i primi, e perché diritto inalienabile del padrone è di dare agli ultimi una misura analoga a quella dei primi. Il diritto non è stato offeso. “Amico, io non ti faccio torto”. Ma forse il problema è un altro: “Sei tu invidioso perché io sono buono?”. Il testo greco gioca con l’espressione occhio cattivo (poneròs) che contrasta con l’essere buono (agathòs) del padrone. Ciò che risulta insopportabile ai primi è l’uguaglianza dei salari, anzi in profondità, delle persone: loro avevano tutti i diritti, secondo la loro logica, di aspettarsi di più. Ma tu, rimproverano al padrone, “li hai fatti uguali a noi” (fecisti illos pares nobis; cioè, li hai trattati come noi). Ciò che la parabola ha di mira è la degenerazione del diritto in privilegio, in pretesa.

Il gesto del padrone è sentito come scandaloso, anomalo, ingiusto, contrario agli usi, inammissibile, irricevibile. E qui emerge il proprio di questa parabola che intravede la fuoriuscita dalle logiche ferree di corrispondenza tra lavoro e paga, prestazione e retribuzione, e lascia scorgere un mondo segnato da gratuità, liberalità, generosità, da rapporti segnati non solo dal diritto, ma anche dalla grazia, dalla gratuità; non solo dal rigore del dovuto, ma anche dall’inatteso del gratuito. In cui non il merito è l’elemento che deve decidere della gerarchia delle persone, ma la bontà di Dio. La punta della parabola è evidentemente in quella rivelazione: “Io sono buono”. E poiché in Mt 19,17, pochi versetti prima, si diceva che “uno solo è buono”, in riferimento a Dio, è evidente l’allusione teologica della nostra parabola.

Esprime bene questo primato della misericordia e della grazia sulle logiche giuridiche un brano della Catechesi sulla santa Pasqua dello Pseudo-Giovanni Crisostomo: “Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il giusto salario; chi è venuto dopo la terza, renda grazie e sia in festa; chi è giunto dopo la sesta, non esiti: non subirà alcun danno; chi ha tardato fino alla nona, venga senza esitare; chi è giunto soltanto all’undicesima, non tema per il suo ritardo. Il Signore è generoso, accoglie l’ultimo come il primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora come a chi ha lavorato dalla prima. Fa misericordia all’ultimo come al primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora come a chi ha lavorato fin dalla prima”.

Il testo ci interpella su ciò che è al cuore della nostra vita con Dio: la relazione o la prestazione? Concepire il proprio servizio a Dio come prestazione conduce a misurarlo e a confrontarlo con il servizio degli altri entrando in un rapporto di competizione. Se invece c’è la relazione con il Signore allora anche il peso della giornata di lavoro è “giogo soave e leggero” (cf. Mt 11,30) e la bontà del Signore verso tutti è motivo di ringraziamento, non di contestazione. E nemmeno di invidia. Gli operai della prima ora sono smascherati come invidiosi. E l’invidia è definita come avere “l’occhio cattivo” (Mt 20,15).

L’etimologia è illuminante: in-videre, significa “vedere contro”, ed esprime lo sguardo torvo di chi si chiede: “perché lui sì e io no?”; “perché a lui come a me che meritavo di più?”. L’invidia ci acceca. Se essa è l’insofferenza verso i propri limiti che ci impediscono di raggiungere quello status che vediamo realizzato in altri da noi, essa chiede di essere corretta imparando a desiderare il possibile. Nell’invidia non solo non si vede più il Dio misericordioso, ma non si vedono neppure più i fratelli e si esce dalla solidarietà con gli altri, uguali a noi.

Luciano Manicardi
Monastero di Bose