Letture: Isaia 5,1-7; Salmo 79; Filippesi 4,6-9; Matteo 21,33-43
La parabola è insieme cupa e trasparente: la vigna è Israele, il mondo sono io. Vigna che produce uva selvatica, in Isaia; una vendemmia di sangue, in Matteo. Io sono vigna e delusione di Dio. La parabola è dura, e corre verso un epilogo sanguinoso, già evidente nelle prime parole dei vignaioli, insensate e brutali: “Costui è l’erede, uccidiamolo e avremo noi l’eredità!”. Ma è anche una fessura sul cuore di Dio: Gesù amava le vigne, come già i profeti, lo si capisce fin dalle prime battute: un uomo, con grande cura, piantò, circondò, scavò, costruì.
Gesù osserva l’uomo dei campi, il nostro Dio contadino: lo vede mentre guarda la sua vigna con gli occhi dell’innamorato e la circonda di cure. Poi i due profeti intonano il lamento dell’amore deluso: “il custode si è fatto predatore” (Laudato si’), ma al tempo stesso raccontano la passione indomita del Dio delle vigne, che non si arrende, che non è mai a corto di meraviglie, che per tre volte, dopo ogni delusione, fa ripartire il suo assedio al cuore, con nuovi profeti, nuovi servitori, addirittura con il proprio figlio. Che cosa potevo fare di più per te che io non abbia fatto? Parole di un Dio appassionato e triste, che continua a fare per me ciò che nessuno farà mai.
Clicca qui per continuare a leggere questo commento su Avvenire
P. Ermes Ronchi
Tanto la prima lettura (Is 5,1-7) quanto il vangelo (Mt 21,33-43) di questa domenica sottolineano il tema del fare: c’è un fare di Dio – dice Isaia – che attende un fare umano come risposta; in particolare, Dio attende da parte della vigna-Israele un fare frutti adeguati (Is 5,2.4.7). La prassi del credente – dice Matteo attraverso la parabola che mette in scena una vigna e dei contadini incaricati di coltivarla per consegnarne poi i frutti al padrone – è un fare frutto. L’agire cristiano, pastorale in specie, rischia spesso la cecità dell’attivismo, la pigrizia della forza d’inerzia, la routine della stanchezza, l’insipienza di chi ha “freddo il senso e perduto il motivo dell’azione” (Thomas Stearns Eliot). Il raffreddarsi della carità (cf. Mt 24,12) si può accompagnare a un fare compulsivo e senza discernimento.
La fede nel fare di Dio per l’uomo, dunque nel suo amore, è il fondamento dell’agire del credente. Il fare di Dio per la sua vigna è un lavorare (cf. Is 5,2) che ne esprime l’amore (cf. Is 5,1). L’amore è un lavoro, una fatica: la “fatica dell’amore” (1Ts 1,3). Anche per l’uomo, lungi dall’essere un’attività facile e immediatamente disponibile, l’amore è un lavoro che esige un’ascesi. La maturità umana trova nella capacità di lavorare efficacemente e di amare in modo adulto due elementi qualificanti decisivi. L’amore divino nutre un’attesa nei confronti dell’amato: secondo il testo di Isaia, non attende amore di ritorno, ma giustizia (cf. Is 5,7). La giustizia umana onora l’amore di Dio. L’amore che attende qualcosa dall’amato esercita una dolce violenza, ma un amore che non attenda nulla dall’amato è semplicemente irreale.
Clicca qui per continuare a leggere questo commento sul sito del Monastero di Bose
Luciano Manicardi
XXVII domenica
Tempo ordinario, Anno A
Letture: Isaia 5,1-7; Salmo 79; Filippesi 4,6-9; Matteo 21,33-43
La parabola è insieme cupa e trasparente: la vigna è Israele, il mondo sono io. Vigna che produce uva selvatica, in Isaia; una vendemmia di sangue, in Matteo. Io sono vigna e delusione di Dio. La parabola è dura, e corre verso un epilogo sanguinoso, già evidente nelle prime parole dei vignaioli, insensate e brutali: “Costui è l’erede, uccidiamolo e avremo noi l’eredità!”. Ma è anche una fessura sul cuore di Dio: Gesù amava le vigne, come già i profeti, lo si capisce fin dalle prime battute: un uomo, con grande cura, piantò, circondò, scavò, costruì.
Gesù osserva l’uomo dei campi, il nostro Dio contadino: lo vede mentre guarda la sua vigna con gli occhi dell’innamorato e la circonda di cure. Poi i due profeti intonano il lamento dell’amore deluso: “il custode si è fatto predatore” (Laudato si’), ma al tempo stesso raccontano la passione indomita del Dio delle vigne, che non si arrende, che non è mai a corto di meraviglie, che per tre volte, dopo ogni delusione, fa ripartire il suo assedio al cuore, con nuovi profeti, nuovi servitori, addirittura con il proprio figlio. Che cosa potevo fare di più per te che io non abbia fatto? Parole di un Dio appassionato e triste, che continua a fare per me ciò che nessuno farà mai.
Clicca qui per continuare a leggere questo commento su Avvenire
P. Ermes Ronchi
Tanto la prima lettura (Is 5,1-7) quanto il vangelo (Mt 21,33-43) di questa domenica sottolineano il tema del fare: c’è un fare di Dio – dice Isaia – che attende un fare umano come risposta; in particolare, Dio attende da parte della vigna-Israele un fare frutti adeguati (Is 5,2.4.7). La prassi del credente – dice Matteo attraverso la parabola che mette in scena una vigna e dei contadini incaricati di coltivarla per consegnarne poi i frutti al padrone – è un fare frutto. L’agire cristiano, pastorale in specie, rischia spesso la cecità dell’attivismo, la pigrizia della forza d’inerzia, la routine della stanchezza, l’insipienza di chi ha “freddo il senso e perduto il motivo dell’azione” (Thomas Stearns Eliot). Il raffreddarsi della carità (cf. Mt 24,12) si può accompagnare a un fare compulsivo e senza discernimento.
La fede nel fare di Dio per l’uomo, dunque nel suo amore, è il fondamento dell’agire del credente. Il fare di Dio per la sua vigna è un lavorare (cf. Is 5,2) che ne esprime l’amore (cf. Is 5,1). L’amore è un lavoro, una fatica: la “fatica dell’amore” (1Ts 1,3). Anche per l’uomo, lungi dall’essere un’attività facile e immediatamente disponibile, l’amore è un lavoro che esige un’ascesi. La maturità umana trova nella capacità di lavorare efficacemente e di amare in modo adulto due elementi qualificanti decisivi. L’amore divino nutre un’attesa nei confronti dell’amato: secondo il testo di Isaia, non attende amore di ritorno, ma giustizia (cf. Is 5,7). La giustizia umana onora l’amore di Dio. L’amore che attende qualcosa dall’amato esercita una dolce violenza, ma un amore che non attenda nulla dall’amato è semplicemente irreale.
Clicca qui per continuare a leggere questo commento sul sito del Monastero di Bose
Luciano Manicardi