XXVIII domenica

Tempo ordinario, Anno A

In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole (…): «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire (…). Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. (…) Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?” (…)».

Festa grande, in città: si sposa il figlio del re. Succede però che gli invitati, persone serie, piedi per terra, cominciano ad accampare delle scuse: hanno degli impegni, degli affari da concludere, non hanno tempo per cose di poco conto: un banchetto, feste, affetti, volti. L’idolo della quantità ha chiesto che gli fosse sacrificata la qualità della vita. Perché il succo della parabola è questo: Dio è come uno che organizza una festa, la migliore delle feste, e ti invita, e mette sul piatto le condizioni per una vita buona, bella e gioiosa.

Tutto il Vangelo è l’affermazione che la vita è e non può che essere una continua ricerca della felicità, e Gesù ne possiede la chiave. Ma nessuno viene alla festa, la sala è vuota. La reazione del re è dura, ma anche splendida: invia i servitori a certificare il fallimento dei primi, e poi a cercare per i crocicchi, dietro le siepi, nelle periferie, uomini e donne di nessuna importanza, basta che abbiano fame di vita e di festa. Se i cuori e le case degli invitati si chiudono, il Signore apre incontri altrove. Come ha dato la sua vigna ad altri viticoltori, nella parabola di domenica scorsa, così darà il banchetto ad altri affamati.

I servi partono con un ordine illogico e favoloso: tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze. Tutti, senza badare a meriti o a formalità. Non chiede niente, dona tutto. È bello questo Dio che, quando è rifiutato, anziché abbassare le attese, le innalza: chiamate tutti! Lui apre, allarga, gioca al rilancio, va più lontano. E dai molti invitati passa a tutti invitati, dalle persone importanti della città passa agli ultimi della fila: fateli entrare tutti, cattivi e buoni. Addirittura prima i cattivi e poi i buoni… Sala piena, scandalo per il mio cuore fariseo. E quando scende nella calca festosa della sala, è l’immagine di un Dio che entra nel cuore della vita.

Noi lo pensiamo lontano, separato, assiso sul suo trono di giudice, e invece è dentro questa sala del mondo, qui con noi, come uno cui sta a cuore la mia gioia, e se ne prende cura. Ed ecco il secondo snodo del racconto: un invitato non indossa l’abito delle nozze. E lo fa buttare fuori. Che pretesa! Ha invitato mendicanti e straccioni e si meraviglia che uno sia messo male. Ma l’abito nuziale non è quello indossato sulla pelle, è un vestito nel cuore. È un cuore non spento, che si accende, che sogna la festa della vita, che desidera credere, perché credere è una festa. Anch’io sono quello che sono, l’abito un po’ rattoppato, un po’ consumato o scucito. Ma il cuore, quello no: ho fame e sete, e desiderio che tornino presto la gioia e la festa nelle nostre case. Sono un mendicante di cielo.

Letture: Isaia 25, 6-10; Salmo 22; Filippesi 4,12-14.19-20; Matteo 22, 1-14

Ermes Ronchi
Avvenire

 

Non è possibile comprendere questa parabola se non consideriamo quello che rappresentava nelle culture antiche il “simposio”, il banchetto festivo che si celebrava, a partire dal mondo ebraico fino al mondo romano, passando per la cultura dei greci (Dennis E. Smith). I biblisti specialisti sono soliti opporre resistenze riguardo all’influenza avuta dal “simposio” antico nelle origini dell’eucaristia. Ma i dati storici stanno lì. E rifiutarsi di accettare tali dati crea l’impressione di un certo “fondamentalismo biblico” che resiste ai fatti vissuti dai primi cristiani.

Detto ciò, è certo che Gesù ha offerto il Regno, prima di tutto, agli emarginati attraverso la sua mensa di fraternità. Si tratta di questo: per molti studiosi la convivialità con gli esclusi sociali è qualcosa di essenziale in tutta la ricostruzione storica del Gesù storico che voglia essere valida. Per esempio, J. D. Crossan afferma categoricamente: “La mia teoria è che la magia ed il pasto o il miracolo e la mensa…offrono il nocciolo del programma di Gesù. Se non fosse certa questa teoria, dovrei riscrivere tutto il libro (The historical Jesus)”. Cioè, se togliamo dai vangeli i pasti di Gesù, tutto quello che in essi si dice perde il suo senso ed il suo significato per noi. Noi cristiani dobbiamo essere tali proprio condividendo il banchetto del pasto condiviso con coloro che accettano di partecipare ad una tale mensa, quelli che, secondo la parabola, non sono i ricchi, ma gli esclusi sociali.

Nei tempi difficili che stiamo vivendo, quando tanti milioni di esseri umani non hanno accesso a ciò che vi è di più elementare nella vita, la salute e l’alimentazione, superando qualsiasi forma di esclusione nella società, Gesù dice a noi cristiani – e lo dice alla Chiesa – che l’elemento centrale del Regno di Dio è la convivialità. Cioè la mensa condivisa con quelli che non possono condividere nulla di più delle loro privazioni, delle loro esclusioni, delle loro insicurezze e delle loro paure. Così, solo così potremo fare qualcosa perché questo mondo sia più abitabile. Questo è l’apporto che il Cristianesimo deve dare in questo momento all’umanità.

p. José María Castillo
Il dialogo