Letture: Malachia 1,14b-2,2b.8-10; Salmo 130; Prima Tessalonicesi 2,7b-9.13; Matteo 23,1-12
La Parola di Dio mi mette con le spalle al muro: sono anch’io, come scriba o fariseo, uno che dice ma non fa? Cristiano di sostanza oppure di facciata? Una domanda del cuore, di quelle che fanno vivere: sono uno falso che non è ciò che dice e non dice ciò che è, oppure persona vera, compiuta, in cui annuncio e annunciatore coincidono? Ci sono colpi duri, oggi, nelle parole di Gesù; ma ogni volta che ciò accade lo scopo non è ferire, ma spezzare la conchiglia affinché appaia la perla. La conchiglia non è la fragilità, ma l’ipocrisia. Nel Vangelo Gesù non sopporta due categorie di persone: gli ipocriti e quelli dal cuore duro, due tipi umani che spesso si identificano. Legano pesi enormi sulle spalle delle persone, ma loro non li toccano con un dito,
Ipocrita è il moralista che impone leggi rigide, ma solo agli altri, e più è severo con loro più si sente vicino a Dio! Gesù è rigoroso, ma mai rigido. Paolo oggi nella seconda lettura: «Avrei voluto darvi la mia vita» (1Ts 2,8). L’ipocrita invece dice: «Vi ho dato la legge, sono a posto». Sono funzionari delle regole e analfabeti del cuore. E perfino analfabeti di Dio. Cioè, nel loro intimo, sono strutturalmente atei. Ipocrita è termine greco che significa attore, il teatrante che recita una parte e indossa una maschera: tutte le opere le fanno per essere ammirati dalla gente, si compiacciono dei primi posti, dei saluti sulle piazze, degli applausi… Ma il cuore è assente, il cuore è altrove. Fanno finta: sono personaggi e non più persone.
Clicca qui per continuare a leggere questo commento su Avvenire
P. Ermes Ronchi
La liturgia della Parola accosta in questa domenica alcuni testi che a prima vista possono apparire alquanto stridenti tra loro. Il profeta Malachia, denunciando il peccato dei sacerdoti, si domanda: «Non abbiamo forse tutti noi un solo padre?» (Ml 2,10). Gesù lo riafferma con forza nella dura invettiva contro scribi e farisei con cui si apre il capitolo 23 dell’evangelo secondo Matteo: «Ma voi non fatevi chiamare rabbì, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate padre nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare guide, perché una sola è la vostra Guida, il Cristo» (vv. 8-10). Anche se le parole iniziali di questo discorso sembrano indirizzarsi soprattutto alle guide di Israele, incapaci di adempiere con fedeltà al loro servizio, queste ultime battute finali diventano un monito rivolto ai discepoli e all’intera comunità cristiana.
D’altro canto l’apostolo Paolo, nel suo scritto più antico rivolto alla comunità di Tessalonica, non esita a paragonare il suo ministero a quello di una madre amorevole che ha cura dei propri figli, in un contesto in cui utilizza per sé anche la metafora del padre. La liturgia omette quei versetti, ma val la pena richiamarli alla memoria: «Sapete pure che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, vi abbiamo incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio, che vi chiama al suo regno e alla sua gloria». Si tratta dei vv. 11 e 12 del capitolo secondo, che il lezionario liturgico salta, passando dal v. 9 al v. 13. Viene il sospetto che la scelta di tagliare via questa manciata di parole sia stata dettata proprio dal timore del contrasto tra quanto scrive Paolo, paragonando se stesso a una madre e a un padre, e l’invito di Gesù a non chiamare nessuno padre sulla terra. Paolo disobbedirebbe dunque, o addirittura smentirebbe la parola di Gesù?
Clicca qui per continuare a leggere questo commento sul sito del Monastero di Dumenza
XXXI domenica
Tempo ordinario, Anno A
Letture: Malachia 1,14b-2,2b.8-10; Salmo 130; Prima Tessalonicesi 2,7b-9.13; Matteo 23,1-12
La Parola di Dio mi mette con le spalle al muro: sono anch’io, come scriba o fariseo, uno che dice ma non fa? Cristiano di sostanza oppure di facciata? Una domanda del cuore, di quelle che fanno vivere: sono uno falso che non è ciò che dice e non dice ciò che è, oppure persona vera, compiuta, in cui annuncio e annunciatore coincidono? Ci sono colpi duri, oggi, nelle parole di Gesù; ma ogni volta che ciò accade lo scopo non è ferire, ma spezzare la conchiglia affinché appaia la perla. La conchiglia non è la fragilità, ma l’ipocrisia. Nel Vangelo Gesù non sopporta due categorie di persone: gli ipocriti e quelli dal cuore duro, due tipi umani che spesso si identificano. Legano pesi enormi sulle spalle delle persone, ma loro non li toccano con un dito,
Ipocrita è il moralista che impone leggi rigide, ma solo agli altri, e più è severo con loro più si sente vicino a Dio! Gesù è rigoroso, ma mai rigido. Paolo oggi nella seconda lettura: «Avrei voluto darvi la mia vita» (1Ts 2,8). L’ipocrita invece dice: «Vi ho dato la legge, sono a posto». Sono funzionari delle regole e analfabeti del cuore. E perfino analfabeti di Dio. Cioè, nel loro intimo, sono strutturalmente atei. Ipocrita è termine greco che significa attore, il teatrante che recita una parte e indossa una maschera: tutte le opere le fanno per essere ammirati dalla gente, si compiacciono dei primi posti, dei saluti sulle piazze, degli applausi… Ma il cuore è assente, il cuore è altrove. Fanno finta: sono personaggi e non più persone.
Clicca qui per continuare a leggere questo commento su Avvenire
P. Ermes Ronchi
La liturgia della Parola accosta in questa domenica alcuni testi che a prima vista possono apparire alquanto stridenti tra loro. Il profeta Malachia, denunciando il peccato dei sacerdoti, si domanda: «Non abbiamo forse tutti noi un solo padre?» (Ml 2,10). Gesù lo riafferma con forza nella dura invettiva contro scribi e farisei con cui si apre il capitolo 23 dell’evangelo secondo Matteo: «Ma voi non fatevi chiamare rabbì, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate padre nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare guide, perché una sola è la vostra Guida, il Cristo» (vv. 8-10). Anche se le parole iniziali di questo discorso sembrano indirizzarsi soprattutto alle guide di Israele, incapaci di adempiere con fedeltà al loro servizio, queste ultime battute finali diventano un monito rivolto ai discepoli e all’intera comunità cristiana.
D’altro canto l’apostolo Paolo, nel suo scritto più antico rivolto alla comunità di Tessalonica, non esita a paragonare il suo ministero a quello di una madre amorevole che ha cura dei propri figli, in un contesto in cui utilizza per sé anche la metafora del padre. La liturgia omette quei versetti, ma val la pena richiamarli alla memoria: «Sapete pure che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, vi abbiamo incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio, che vi chiama al suo regno e alla sua gloria». Si tratta dei vv. 11 e 12 del capitolo secondo, che il lezionario liturgico salta, passando dal v. 9 al v. 13. Viene il sospetto che la scelta di tagliare via questa manciata di parole sia stata dettata proprio dal timore del contrasto tra quanto scrive Paolo, paragonando se stesso a una madre e a un padre, e l’invito di Gesù a non chiamare nessuno padre sulla terra. Paolo disobbedirebbe dunque, o addirittura smentirebbe la parola di Gesù?
Clicca qui per continuare a leggere questo commento sul sito del Monastero di Dumenza