In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro (…)».
C’è un signore orientale, ricchissimo e generoso, che parte in viaggio e affida il suo patrimonio ai servi. Non cerca un consulente finanziario, chiama i suoi di casa, si affida alle loro capacità, crede in loro, ha fede e un progetto, quello di farli salire di condizione: da dipendenti a con-partecipi, da servi a figli. Con due ci riesce. Con il terzo non ce la fa. Al momento del ritorno e del rendiconto, la sorpresa raddoppia: Bene, servo buono! Bene! Eco del grido gioioso della Genesi, quando per sei volte, «vide ciò che aveva fatto ed esclamò: che bello!». E la settima volta: ma è bellissimo! I servi vanno per restituire, e Dio rilancia: ti darò potere su molto, entra nella gioia del tuo signore. In una dimensione nuova, quella di chi partecipa alla energia della creazione, e là dove è passato rimane dietro di lui più vita.
L’ho sentito anch’io questo invito: «entra nella gioia». Quando, scrivendo o predicando il Vangelo, il lampeggiare di uno stupore improvviso, di un brivido nell’anima, l’esperienza di essere incantato io per primo da una grande bellezza, mi faceva star bene, io per primo. Oppure quando ho potuto consegnare a qualcuno una boccata d’ossigeno o di pane, ho sentito che ero io a respirare meglio, più libero, più a fondo. «Sii egoista, fai del bene! Lo farai prima di tutto a te stesso». E poi è il turno del terzo servo, quello che ha paura. La prima di tutte le paure, la madre di tutte, è la paura di Dio: so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso…ho avuto paura. Questa immagine distorta di un Dio duro, che ti sta addosso, il fiato sul collo, è lontanissima dal Dio di Gesù. E sotto l’effetto di questa immagine sbagliata, la vita diventa sbagliata, il luogo di un esame temuto, di una mietitura che incombe.
Se nutri quell’idolo, se credi a un Dio padrone duro e spietato, allora lo incontrerai come maschera delle tue paure, come fantasma maligno; e il dono diventa, come per il terzo servo, un incubo: ecco ciò che è tuo, prendilo. Se credi a un Signore che offre tutto e non chiede indietro nulla, che crede in noi e ci affida tesori, follemente generoso, che intorno a sé non vuole dipendenti e rendiconti, ma figli, allora entri nella gioia di moltiplicare con lui la vita. Il Vangelo è pieno di una teologia semplice, la teologia del seme, del lievito, del granello di senape, del bocciolo, di talenti da far fruttare, di inizi piccoli e potenti. A noi tocca il lavoro paziente e intelligente di chi ha cura dei germogli. Siamo tutti sacerdoti di quella che è la liturgia primordiale del mondo. Dio è la primavera del cosmo, a noi di esserne l’estate profumata di frutti.
Letture: Proverbi 31,10-13.19-20.30-31; Salmo 127; 1 Tessalonicesi 5,1-6; Matteo 25, 14-30)
Ermes Ronchi
Avvenire
La parabola dei talenti non è una storia di paure e di minacce. O una terribile meditazione sul giudizio di Dio. E men che mai è un preavviso per la resa dei conti che dovremo avere con Dio perché tutto quadri, secondo le grazie ed i talenti che ognuno ha ricevuto in questa vita. Se la nostra relazione con Dio fosse stata così, staremmo facendo di Dio un poliziotto o un giudice con sentimenti di giustizia severa ed esigente. Un Dio così non merita il nostro affetto e non ci insegna ad essere affettuosi. Un Dio così sarebbe il gran maestro di giustizia o una specie di ispettore del fisco, il cui incontro sarebbe più terribile che spiacevole. In tal caso la parabola servirebbe non per formare il cristiano ma per deformare Dio nella mente del cristiano.
La parabola dei talenti non è l’argomento della paura, ma l’argomento della lotta contro la paura. La chiave di questa storia sta nel penoso finale che ha avuto quello che ha ricevuto un solo talento. La disgrazia ed il fallimento di quest’individuo sono stati proprio nella paura. La paura blocca e paralizza, ci fa crollare nell’inutilità, non produciamo nulla. Restituiamo a Dio quello che ci ha dato. Non abbiamo perso nulla. Ma neanche guadagniamo nulla. Diamo a Dio quello che è suo, cosa che in realtà è non dargli nulla.
Ma il problema non sta nella produttività. Dio non ha bisogno di quello che noi possiamo produrre. Dio non è un negoziante. Quello che Dio ci dice è che, se abbiamo paura di Lui, questa sarà la nostra rovina. Il Dio della paura non esiste. È un’invenzione umana. Perché la triste e pura verità è che noi uomini abbiamo bisogno della paura. La paura di un Dio che ci toglie da dosso il peso insopportabile della libertà (F. Dostoevskij). Un Dio che ci fa paura e per questo stesso motivo ci dà sicurezza. E, per godere di questa sicurezza, ci sottomettiamo, come un gregge, a chi ci guida e ci impone di nuovo il suo giogo. Questo ci libera dal káos, che è disordine, e ci sentiamo tranquilli nel kósmos, l’ordine che ci viene imposto dalla violenza del Dio della paura, al quale restituiremo tranquilli il nostro talento, quel talento che abbiamo sotterrato come fondamento della nostra sicurezza. Ed anche della nostra sterilità nella vita.
p. José María Castillo
Il dialogo
XXXIII domenica
Tempo ordinario, Anno A
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro (…)».
C’è un signore orientale, ricchissimo e generoso, che parte in viaggio e affida il suo patrimonio ai servi. Non cerca un consulente finanziario, chiama i suoi di casa, si affida alle loro capacità, crede in loro, ha fede e un progetto, quello di farli salire di condizione: da dipendenti a con-partecipi, da servi a figli. Con due ci riesce. Con il terzo non ce la fa. Al momento del ritorno e del rendiconto, la sorpresa raddoppia: Bene, servo buono! Bene! Eco del grido gioioso della Genesi, quando per sei volte, «vide ciò che aveva fatto ed esclamò: che bello!». E la settima volta: ma è bellissimo! I servi vanno per restituire, e Dio rilancia: ti darò potere su molto, entra nella gioia del tuo signore. In una dimensione nuova, quella di chi partecipa alla energia della creazione, e là dove è passato rimane dietro di lui più vita.
L’ho sentito anch’io questo invito: «entra nella gioia». Quando, scrivendo o predicando il Vangelo, il lampeggiare di uno stupore improvviso, di un brivido nell’anima, l’esperienza di essere incantato io per primo da una grande bellezza, mi faceva star bene, io per primo. Oppure quando ho potuto consegnare a qualcuno una boccata d’ossigeno o di pane, ho sentito che ero io a respirare meglio, più libero, più a fondo. «Sii egoista, fai del bene! Lo farai prima di tutto a te stesso». E poi è il turno del terzo servo, quello che ha paura. La prima di tutte le paure, la madre di tutte, è la paura di Dio: so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso…ho avuto paura. Questa immagine distorta di un Dio duro, che ti sta addosso, il fiato sul collo, è lontanissima dal Dio di Gesù. E sotto l’effetto di questa immagine sbagliata, la vita diventa sbagliata, il luogo di un esame temuto, di una mietitura che incombe.
Se nutri quell’idolo, se credi a un Dio padrone duro e spietato, allora lo incontrerai come maschera delle tue paure, come fantasma maligno; e il dono diventa, come per il terzo servo, un incubo: ecco ciò che è tuo, prendilo. Se credi a un Signore che offre tutto e non chiede indietro nulla, che crede in noi e ci affida tesori, follemente generoso, che intorno a sé non vuole dipendenti e rendiconti, ma figli, allora entri nella gioia di moltiplicare con lui la vita. Il Vangelo è pieno di una teologia semplice, la teologia del seme, del lievito, del granello di senape, del bocciolo, di talenti da far fruttare, di inizi piccoli e potenti. A noi tocca il lavoro paziente e intelligente di chi ha cura dei germogli. Siamo tutti sacerdoti di quella che è la liturgia primordiale del mondo. Dio è la primavera del cosmo, a noi di esserne l’estate profumata di frutti.
Letture: Proverbi 31,10-13.19-20.30-31; Salmo 127; 1 Tessalonicesi 5,1-6; Matteo 25, 14-30)
Ermes Ronchi
Avvenire
La parabola dei talenti non è una storia di paure e di minacce. O una terribile meditazione sul giudizio di Dio. E men che mai è un preavviso per la resa dei conti che dovremo avere con Dio perché tutto quadri, secondo le grazie ed i talenti che ognuno ha ricevuto in questa vita. Se la nostra relazione con Dio fosse stata così, staremmo facendo di Dio un poliziotto o un giudice con sentimenti di giustizia severa ed esigente. Un Dio così non merita il nostro affetto e non ci insegna ad essere affettuosi. Un Dio così sarebbe il gran maestro di giustizia o una specie di ispettore del fisco, il cui incontro sarebbe più terribile che spiacevole. In tal caso la parabola servirebbe non per formare il cristiano ma per deformare Dio nella mente del cristiano.
La parabola dei talenti non è l’argomento della paura, ma l’argomento della lotta contro la paura. La chiave di questa storia sta nel penoso finale che ha avuto quello che ha ricevuto un solo talento. La disgrazia ed il fallimento di quest’individuo sono stati proprio nella paura. La paura blocca e paralizza, ci fa crollare nell’inutilità, non produciamo nulla. Restituiamo a Dio quello che ci ha dato. Non abbiamo perso nulla. Ma neanche guadagniamo nulla. Diamo a Dio quello che è suo, cosa che in realtà è non dargli nulla.
Ma il problema non sta nella produttività. Dio non ha bisogno di quello che noi possiamo produrre. Dio non è un negoziante. Quello che Dio ci dice è che, se abbiamo paura di Lui, questa sarà la nostra rovina. Il Dio della paura non esiste. È un’invenzione umana. Perché la triste e pura verità è che noi uomini abbiamo bisogno della paura. La paura di un Dio che ci toglie da dosso il peso insopportabile della libertà (F. Dostoevskij). Un Dio che ci fa paura e per questo stesso motivo ci dà sicurezza. E, per godere di questa sicurezza, ci sottomettiamo, come un gregge, a chi ci guida e ci impone di nuovo il suo giogo. Questo ci libera dal káos, che è disordine, e ci sentiamo tranquilli nel kósmos, l’ordine che ci viene imposto dalla violenza del Dio della paura, al quale restituiremo tranquilli il nostro talento, quel talento che abbiamo sotterrato come fondamento della nostra sicurezza. Ed anche della nostra sterilità nella vita.
p. José María Castillo
Il dialogo