III domenica di Avvento

Anno B

Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo» (…).

Venne Giovanni mandato da Dio, venne come testimone, per rendere testimonianza alla luce. A una cosa sola: alla luce, all’amica luce che per ore e ore accarezza le cose, e non si stanca. Non quella infinita, lontana luce che abita nei cieli dei cieli, ma quella ordinaria, luce di terra, che illumina ogni uomo e ogni storia. Giovanni è il “martire” della luce, testimone che l’avvicinarsi di Dio trasfigura, è come una manciata di luce gettata in faccia al mondo, non per abbagliare, ma per risvegliare le forme, i colori e la bellezza delle cose, per allargare l’orizzonte. Testimone che la pietra angolare su cui poggia la storia non è il peccato ma la grazia, non il fango ma un raggio di sole, che non cede mai. Ad ogni credente è affidata la stessa profezia del Battista: annunciare non il degrado, lo sfascio, il marcio che ci minaccia, ma occhi che vedono Dio camminare in mezzo a noi, sandali da pellegrino e cuore di luce: in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete.

Sacerdoti e leviti sono scesi da Gerusalemme al Giordano, una commissione d’inchiesta istituzionale, venuta non per capire ma per coglierlo in fallo: Tu chi credi di essere? Elia? Il profeta che tutti aspettano? Chi sei? Perché battezzi? Sei domande sempre più incalzanti. Ad esse Giovanni risponde “no”, per tre volte, lo fa con risposte sempre più brevi: anziché replicare “io sono” preferisce dire “io non sono”. Si toglie di dosso immagini gratificanti, prestigiose, che forse sono perfino pronti a riconoscergli. Locuste, miele selvatico, una pelle di cammello, quell’uomo roccioso e selvatico, di poche parole, non vanta nessun merito, è l’esatto contrario di un pallone gonfiato, come capita così di frequente sulle nostre scene. Risponde non per addizione di meriti, titoli, competenze, ma per sottrazione: e ci indica così il cammino verso l’essenziale. Non si è profeti per accumulo, ma per spoliazione.

Io sono voce, parlo parole non mie, che vengono da prima di me, che vanno oltre me. Testimone di un altro sole. La mia identità sta dalle parti di Dio, dalle parti delle mie sorgenti. Se Dio non è, io non sono, vivo di ogni parola che esce dalla sua bocca. La voce rigorosa del profeta ci denuda: Io non sono il mio ruolo o la mia immagine. Non sono ciò che gli altri dicono di me. Ciò che mi fa umano è il divino in me; lo specifico dell’umanità è la divinità. La vita viene da un Altro, scorre nella persona, come acqua nel letto di un ruscello. Io non sono quell’acqua, ma senza di essa io non sono più. «Chi sei tu?». Io cerco l’elemosina di una voce che mi dica chi sono veramente. Un giorno Gesù darà la risposta, e sarà la più bella: Voi siete luce! Luce del mondo.

Letture: Isaia 61, 1-2.10-11; Luca 1; 1 Tessalonicesi 5,16-24; Giovanni 1, 6-8.19-28

Ermes Ronchi
Avvenire

 

Anche la liturgia di questa domenica ci parla del Battista, ma secondo l’evangelista Giovanni. Quindi è altra cosa che nei sinottici. È lo stesso per essere il precursore del Cristo. È altra cosa, perché il Battista giovanneo non ha nulla dell’inquietante personaggio tratteggiato con forza nei tre vangeli precedenti. Qui è innanzi tutto il testimone della Luce. Come sempre, approdare al quarto evangelo è approdare ad un’altra dimensione. Non vi troviamo ascetismi del Battista, non ventilabri in mano al messia, non peccati da confessare da parte delle folle. In questo brano liturgico si accostano due stralci del primo capitolo del vangelo di Giovanni.

Il primo, in prosa ritmica, appartiene al Prologo. Là dove il Prologo narra la vicenda del Logos, Parola creatrice, gravida di Vita che si diffonde come luce nella tenebra, vengono solennemente inseriti l’apparire del Battista, un uomo mandato da Dio …a testimonianza (espressione tre volte ripetuta), e la sua missione: perché tutti credessero per mezzo di lui (vv.6-7). Ma poi l’autore precisa decisamente: Non era lui la luce. L’uomo Giovanni precede appena Gesù: Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo (v. 9). La seconda parte, propriamente l’inizio del quarto Vangelo considerato il più spirituale e teologico, colpisce per il tono decisamente processuale e per la forza polemica dello scontro che, già dall’esordio, vede opposti l’istituzione che governa il Tempio e l’uomo inviato per testimoniare l’avvento del cambiamento (vv.19-28).

In tempi di religione inaridita e compromessa con l’invasore, movimenti messianici esasperati e attese escatologiche avevano riversato nel deserto, terra di contestazione e libertà, intere comunità del dissenso (Esseni, Qumran) o ribelli avventurieri. Anche Giovanni, espressione di un movimento battista apocalittico e messianico, è sospetto. Ha contestato il modello templare, rinunziando a tutto, a partire dal prestigio sacerdotale paterno. Si è ritirato nel deserto, vigilante come la civetta. E lì sembra incarnare le figure profetiche dell’attesa apocalittica, ora diffusa in Giudea: il Messia, Elia, il Profeta. Il suo abitare il deserto è quello d’Israele nell’Esodo dall’Egitto, il suo richiamarvi il popolo è la strategia d’amore di Osea (Os 2,16-17), il suo Raddrizzate la via del Signore (Is 40,3) è l’esultanza dell’esodo da Babilonia, lungo la via del Signore. In lui l’antico Israele è invitato a “passare il guado” e con lui è invitato ad entrare nel tempo nuovo che l’avvento di Gesù, Luce di Vita, inaugura.

Così da Gerusalemme, centro dell’istituzione, preoccupate del vasto consenso intorno a lui, le autorità inviano una commissione d’inchiesta sacerdotale, accompagnata da Leviti, con compiti di polizia. È un racconto aspro, di stampo processuale (interrogare, confessare, negare), una richiesta di testimonianza giudiziaria che vede l’inviato da Dio inquisito dagli inviati di Gerusalemme. È l’inizio di un’opposizione insanabile che percorrerà tutto il vangelo, improntandolo a un lungo processo, tra il nuovo dirompente, che avanza nella persona dell’Inviato dal Padre, e il vecchio fossilizzato che, attaccato alla sopravvivenza del suo potere, quello del principe di questo mondo, utilizzerà la sua legge per rifiutare il rabbi Nazareno e condannarlo a morte.

In questa prospettiva, la valenza della testimonianza, greco martyrìa, in origine elemento giudiziale, legato all’attestazione di una realtà, nel largo uso che ne fa questo vangelo, oltre a impegnare esistenzialmente la persona del testimone anche a rischio della vita, si trasfigura in fondo in un atto di rivelazione. Rivelazione di una realtà a lui comunicata, o prima percepita e poi contemplata. A partire da quel io contemplo, che è più il vedere della fede che della visione. È solo dall’esperienza della contemplazione infatti che la testimonianza sgorga. E’ quanto spiega, a breve, Giovanni Battista, dopo il battesimo di Gesù: “ 34E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio”.

Ci ripete A. Louf: “L’esperienza interiore della fede, essenzialmente contagiosa e sempre sospinta da un imperioso bisogno di espandersi, traboccherà necessariamente in un’attività di testimonianza che finirà per toccare i fratelli e il mondo. Ma anche questa ha bisogno a sua volta, per restare vera, di rimanere in contatto con l’esperienza stessa. È convincente solo nella misura in cui scaturisce da essa, quasi per straripamento, accordata in sovrappiù senza che la si sia cercata direttamente. Non è testimone chi lo vorrebbe, ma solamente chi conosce per esperienza ciò di cui parla”.

“Tu chi sei?” è intanto la domanda. “Non sono il Cristo” è la risposta. Questo non-essere è il secondo tratto originale del Battista giovanneo. Come ha scarnificato il suo corpo, scarnifica ora le sue risposte, sino a “Che cosa dici di te stesso?” E la risposta sarà un versetto di Isaia: “io, voce di colui che grida nel deserto”. Qui il Battista arriva a scarnificare anche il proprio autocomprendersi, sino a ridursi alla sola eco di una parola profetica che attua nella vita. Rivolto, nella tensione del cuore, a colui che viene dopo di me, quell’uomo che, Parola eterna e preesistente incarnata, è passato avanti a me, perché era prima di me (v. 15). La testimonianza si rende decentrandosi e dimenticandosi al cospetto di Gesù.

Così il Battista testimonia che le Promesse, l’Alleanza, l’avvento di un Qualcuno si stanno silentemente realizzando davanti gli occhi dei suoi inconsapevoli contemporanei. E questi occhi egli deve aprire alla Luce vera che viene nel mondo «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita», mettendo in continuità vitale le scritture ebraiche con la realtà di Gesù di Nazareth. Giovanni il Battista è investito, dalla prima riflessione cristiana, del serissimo compito di traghettare il popolo di Israele dalla prima alleanza alla nuova e definitiva.

Perché dunque battezzi? (v 25). È palpabile la preoccupazione. Il Battesimo infatti era anche segno di affiliazione. “Vi preoccupate di me? Del mio battesimo? Il nuovo deve ancora venire, anzi è già qui, uno che voi non conoscete, (né conoscerete: 8,19). Il mio battesimo prefigura quello dirompente che porterà Lui”. Ma la risposta vera la darà al v.31. “Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». Così il suo battesimo ha il valore evocatorio di una rottura con lo stato di tenebra, di una tensione al cambiamento, orientato a Colui che viene, perché tutti credessero per mezzo di lui (v 7), e, come alla fine l’evangelista concluderà, in una inclusione lunga quanto l’intero vangelo, “perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,31).

Raffaela
Comunità Kairòs