Solennità dell’Assunta

Anno B

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo» (…)

Luca ci offre, in questa festa dell’Assunzione di Maria, l’unica pagina evangelica in cui protagoniste sono le donne. Due madri, entrambe incinte in modo «impossibile», sono le prime profetesse del Nuovo Testamento. Sole, nessun’altra presenza, se non quella del mistero di Dio pulsante nel grembo. Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! Elisabetta ci insegna la prima parola di ogni dialogo vero: a chi ci sta vicino, a chi condivide strada e casa, a chi mi porta luce, a chi mi porta un abbraccio, ripeto la sua prima parola: che tu sia benedetto; tu sei benedizione scesa sulla mia vita!. Elisabetta ha introdotto la melodia, ha iniziato a battere il ritmo dell’anima, e Maria è diventata musica e danza, il suo corpo è un salmo: L’anima mia magnifica il Signore!

Da dove nasce il canto di Maria? Ha sentito Dio entrare nella storia, venire come vita nel grembo, intervenire non con le gesta spettacolari di comandanti o eroi, ma attraverso il miracolo umile e strepitoso della vita: una ragazza che dice sì, un’anziana che rifiorisce, un bimbo di sei mesi che danza di gioia all’abbraccio delle madri. Viene attraverso il miracolo di tutti quelli che salvano vite, in terra e in mare. Il Magnificat è il vangelo di Maria, la sua bella notizia che raggiunge tutte le generazioni. Per dieci volte ripete: è lui che ha guardato, è lui che fa grandi cose, che ha dispiegato, che ha disperso, che ha rovesciato, che ha innalzato, che ha ricolmato, che ha rimandato, che ha soccorso, che si è ricordato….è lui, per dieci volte. La pietra d’angolo della fede non è quello che io faccio per Dio, ma quello che Dio fa per me; la salvezza è che lui mi ama, non che io lo amo. E che io sia amato dipende da lui, non dipende da me.

Maria vede un Dio con le mani impigliate nel folto della vita. E usa i verbi al passato, con uno stratagemma profetico, come se tutto fosse già accaduto. Invece è il suo modo audace per affermare che si farà, con assoluta certezza, una terra e un cielo nuovi, che il futuro di Dio è certo quanto il passato, che questo mondo porta un altro mondo nel grembo. Pregare il Magnificat è affacciarsi con lei al balcone del futuro. Santa Maria, assunta in cielo, vittoriosa sul drago, fa scendere su di noi una benedizione di speranza, consolante, su tutto ciò che rappresenta il nostro male di vivere: una benedizione sugli anni che passano, sulle tenerezze negate, sulle solitudini patite, sul decadimento di questo nostro corpo, sulla corruzione della morte, sulle sofferenze dei volti cari, sul nostro piccolo o grande drago rosso, che però non vincerà, perché la bellezza e la tenerezza sono, nel tempo e nell’eterno, più forti della violenza.

Letture Messa del giorno: Apocalisse 11,19a; 12,1–6a.10ab; Salmo 44; Prima Lettera ai Corinzi 15,20–27a; Luca 1,39-56

Ermes Ronchi
Avvenire

 

È difficile parlare, e non meno pensare, ai misteri che la Chiesa racchiude nel profondo della sua coscienza interiore. E spesso la Chiesa ha scelto di celebrare questi misteri prima ancora di poterne interpretare il contenuto mediante la riflessione di un linguaggio teologico. Sotto questa angolatura deve anzitutto essere accostato il mistero che la liturgia celebra con il nome di Assunzione della Beata Vergine Maria. In esso si proclama la vittoria pasquale di Cristo sulla morte resa visibile, prima della fine dei tempi, in una creatura, in colei che per grazia è stata chiamata ad essere la Madre del Signore (Lc 1,43). E di questo mistero la Scrittura, soprattutto i testi che la liturgia propone, offre alcune linee interpretative. Tuttavia più che a una riflessione, siamo chiamati, dalla parola di Dio, a una contemplazione, a volgere lo sguardo su una realtà che per la Chiesa diventa segno concreto di speranza. E questa è anzitutto la prospettiva suggerita dal testo del libro dell’Apocalisse.

Due segni si sovrappongono nella visione profetica di Ap 11,19 e 12,1ss: l’arca dell’alleanza che appare nel tempio e un altro «segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle» (v. 1). Di fronte a una comunità cristiana che quotidianamente lotta per rimanere fedele al suo Signore, a volte smarrita di fronte alla diabolica violenza del male e alla sua apparente vittoria (quel drago rosso che attenta alla incolumità della donna e del bambino da lei partorito. Cfr. vv. 3-6), il profeta pone due segni. Sono segni di alleanza, segni che indicano una presenza operante di Dio nella storia, attraverso la sua Parola e nell’intervento liberatore del Messia da lui inviato. In particolare il segno della donna e del suo bambino acquistano grande rilievo nella simbolica scena della lotta contro il male. Sia la donna che il drago sono segni che richiedono una complessa interpretazione, in quanto trovano anzitutto la loro spiegazione della tradizione biblico-giudaica.

Nessuna identificazione può esaurire il senso profondo di questi simboli ed è per questo che le varie interpretazioni devono essere mantenute in dialogo. In particolare nella figura della donna si fondono varie immagini bibliche che descrivono la realtà del popolo amato da Dio, reso fecondo e ricolmato di beni, a cui è già assicurata la pienezza di una vita futura, escatologica (si pensi ai testi di Gen 3,15, il cosiddetto protoevangelo; Is 7,14, il segno della vergine che partorisce un figlio; Is 66,7, la nuova Gerusalemme che genera il popolo messianico). In questa prospettiva la donna è anzitutto l’Israele ideale dei profeti che genera il Messia. Ma per una comunità cristiana, alla quale è rivolto appunto questo segno, l’interpretazione si prolunga in una ricchezza di significati. La donna diventa così la Chiesa, la comunità dei credenti in Gesù, il Messia; e nella Chiesa, la donna può esser vista come il simbolo della madre del Messia, il compimento delle promesse e immagine stessa della Chiesa (cfr. Gv 19,25-27).

Nella rilettura tipologica che la liturgia compie, questa donna e il suo bambino sono realmente l’umanità nuova, l’umanità come Dio la desidera e la guarda, capace di essere feconda, di essere bella, capace di vita. Ma questa umanità Dio l’ha già realizzata nella nostra storia in una creatura, Maria, scegliendola come madre dell’uomo nuovo, di Gesù, il Dio che accoglie totalmente la storia dell’uomo per redimerla. Questo sguardo di Dio è seminato nella nostra storia, anche se in essa è ancora presente quel terribile drago rosso con sette teste e dieci corna. Questi continua a tentare, a insidiare l’umanità in mille modi. Il male ha maschere inesauribili e questo a volte ci getta nella disperazione. La lotta sembra senza fine e le forze dell’uomo sono limitate. Ecco allora lo sguardo che si innalza e scorge quel segno: già l’umanità in Maria e nel suo Figlio è custodita presso Dio. E proprio questo segno ci dà la forza di continuare il cammino, sapendo che la vita è più forte della morte, l’amore e il perdono di Dio più forti del male; sapendo che la bellezza dell’umanità nuova salverà il mondo.

Liturgicamente i segni indicati dal testo dell’Apocalisse si prolungano nel racconto di Luca, che appare così come la realizzazione e il compimento di ciò che la comunità ha contemplato nella visione. E in Maria che va a visitare la cugina Elisabetta incinta, il simbolo dell’arca della alleanza e quello della donna che partorisce si fondono in modo stupendo. Anche nel testo di Luca abbiamo una ricchezza di allusioni bibliche, tanto che l’episodio si trasforma in una rilettura tipologica di alcuni testi del Primo Testamento.

Maria viene accolta come l’arca della alleanza (cfr. soprattutto 2Sam 6), come colei che contiene tutte le promesse attese da Israele, tutta la fedeltà e la misericordia di Dio che ora stanno prendendo un volto, quello di Gesù. È come se il cuore del tempio, della dimora di Dio scendesse in mezzo agli uomini e rivelasse tutto il desiderio di salvezza che abita nel cuore di Dio. Maria si è resa disponibile con la sua volontà, con il suo cuore, con il suo corpo ad essere segno della presenza di Dio tra gli uomini (cfr. Lc 1,26-38), a portare la gioiosa notizia che è Gesù a rendere visibile la dimora di Dio tra gli uomini. Elisabetta e Giovanni, il primo nucleo dei credenti, sanno accogliere questo evangelo e sanno gioire. Ed per questo che Elisabetta esclama: «A che cosa devo che la madre del mio Signore venga a me?» (Lc 1,43); ciò che è avvenuto, sotto l’azione dello Spirito, viene interpretato e accolto da Elisabetta come presenza e visita del Signore.

Ma Elisabetta sa anche riconoscere che questo evento straordinario, questa visita che porta i frutti dello Spirito, ha una radice profonda nella fede di Maria e nella fedeltà di Dio: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (v. 45). È la prima beatitudine, quella fondamentale: credere nell’efficacia della parola di Dio e poggiare tutta la propria vita sulla fedeltà di Dio alla sua promessa come su di una roccia. Maria risponde alle parole di Elisabetta attraverso la preghiera, in quell’inno di lode, in quella stupenda eucaristia che è il Magnificat (vv. 46-55). Lo fa con naturalezza, con estrema semplicità. Piena di stupore sa guardare a tutta la propria vita come un dono della grazia di Dio; si sente piccola, ma immensamente amata dal suo Signore.

Ma nello stesso tempo è profondamente convinta che ciò che è avvenuto in lei non solo è pura grazia, ma è la risposta fedele di Dio alla sua alleanza: Dio agisce sempre così, perché Dio si ricorda della sua misericordia. Sembra quasi che Maria stia parlando ad ogni uomo: quello che Dio ha fatto con lei, vuole farlo con ogni uomo che si sente piccolo, che accetta di essere servo, che sa trasformare tutta la propria vita in un canto di ringraziamento alla misericordia di Dio. Veramente per ogni credente Maria è una presenza piena di speranza. Come la misteriosa donna della Apocalisse, brilla nel cielo della nostra umanità per dirci ciò che Dio vuole fare con ciascuno di noi, se siamo aperti alla sua grazia, dove vuole condurre tutta la nostra storia. E Dio vuole raccogliere questa storia, questa umanità accanto a lui. Segno sicuro di questa volontà è il Cristo «risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti» (1Cor 15,20). Ma segno di speranza è anche colei che lo ha generato nella carne e che già fin d’ora abita, proprio con la nostra carne, nella pienezza della vita.

«Maria, la madre del Signore nostro Gesù Cristo – così inizia il documento del dialogo tra cattolici ed anglicani Maria: grazia e speranza in Cristo – sta davanti a noi come modello esemplare di fedele obbedienza, e il suo “avvenga di me quello che hai detto” è la risposta piena di grazia che ciascuno di noi è chiamato a dare a Dio, sia individualmente, sia comunitariamente, come Chiesa, il corpo di Cristo. In quanto ella è figura della Chiesa, le braccia levate nella preghiera e nella supplica, le mani aperte nella accoglienza e nella disponibilità a ricevere l’effusione dello Spirito Santo, siamo una sola cosa con Maria che magnifica il Signore. Dice il vero Maria quando afferma nel suo canto: “D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata”».

Monastero di Dumenza