XI domenica

Tempo ordinario, Anno B

Letture: Ezechiele 17,22-24; Salmo 91; Seconda Corinzi 5,6-10; Marco 4,26-34

Un maestoso e regale cedro del Libano oppure una secolare ed imponente quercia: se fossi stato io chiamato a paragonare il regno dei cieli a un albero, avrei scelto uno di questi due, per affermare la grandiosità e la potenza, la spettacolarità di Dio. Gesù invece come al solito ci spiazza con un modello inaspettato: il più piccolo tra tutti i semi, il più banale, il più comune, quello che fatichi a vedere tra l’erba, a cui non fai caso, poco più di niente.

Invece di volgere il nostro sguardo verso il cielo, perché di cielo si parla, lo costringe a puntare verso il basso, ad aguzzare la vista per cercare nell’orto di casa l’insignificante granello di senape: non è lontano quel regno, ma già qui nascosto e vivo, non è da attendere e sospirare, ma solo da vedere, cercare, perché la terra è già cielo. Come dire che Dio non è inarrivabile, ma presente nella piccolezza di un seme, di un dettaglio, di un frammento. Come dire che il futuro è già qui se lo sai intuire. Vuole allenare i nostri occhi, il Maestro, vuole ripulirli dalla fretta e dalla superficialità per renderli attenti e innamorati come i suoi, che si incantavano sui gigli del campo, sul pizzico di lievito, sullo spicciolo della povera vedova o solo su un semplice bicchiere d’acqua.

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Don Luigi Verdi

 

Siamo ancora nel capitolo quarto del vangelo, dedicato in gran parte all’insegnamento parabolico di Gesù sul regno. Nella pagina odierna Gesù usa due similitudini, o parabole, per dire cos’è il regno. Meglio, non spiega cosa esso sia, non lo definisce, ma vi allude semplicemente.

Il regno come un seme che cresce (vv. 26-29). Il confronto, per essere precisi, qui non è con il seme – come nella parabola successiva – ma con un uomo che getta il seme, ovvero il seminatore della parabola che apriva il capitolo, e che in fondo governa tutte le altre (cf. Mc 4,1-9). Qui però la variabile non è nel terreno su cui cade il seme, o nelle sue qualità (una strada, un terreno sassoso, uno pieno di rovi, un terreno buono), ma sta nel tempo e nella forza stessa del seme. Il tempo passa, trascorrono le notti e i giorni, e senza che il seminatore possa o debba fare qualcosa, è il seme che germoglia e cresce. Non solo: chi ha seminato non sa come possa accadere tutto questo, e come il seme possa dare frutto. L’insegnamento sembra chiaro: il seminatore deve provvedere a uscire per seminare, ma gli effetti della sua fatica sono indipendenti da quanto avrà fatto o non fatto in seguito. Da questo punto di vista, il regno è capace di agire da sé, basta che sia “gettato”. Si tratta di una parabola davvero liberante: non è nelle nostre capacità che risiede la salvezza, e nemmeno in quelle dei missionari, ma nella potenza di Dio.

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P. Giulio Michelini