Letture: Giobbe 38,1.8-11; Salmo 106; Seconda Corinzi 5,14-17; Marco 4,35-41
Mi domando come sarebbe andata a finire se gli apostoli non lo avessero svegliato, se avessero continuato a tirar fuori l’acqua dalla barca, ad aggiustare vele e timone in favore di vento, se lo avessero lasciato dormire tranquillo a poppa. Qualche schizzo gli sarebbe arrivato sul volto e sulla barba o si sarebbe svegliato comunque fradicio di acqua, infreddolito dal vento? E se la barca fosse affondata? Avrebbero cercato le sue mani tra i rottami, nelle onde alte, trascinati dalle correnti? O forse la tempesta si sarebbe comunque improvvisamente placata, cullata dal respiro regolare del sonno del Maestro? Mi domando in fondo cosa sarebbe successo se gli apostoli avessero avuto davvero fede.
Ma forse, anzi sicuramente, questa pagina è stata scritta per me che, afferrato dallo spavento in ogni tempesta della mia vita e scosso dalle bufere inaspettate, urlo di terrore e chiedo al mio Dio: dove sei, perché dormi? Non ti importa niente di me? E mi aspetto sempre un intervento miracoloso che faccia dissolvere le origini delle mie paure e che sciolga tutti i nodi della mia vita. Ancora non ho capito, ancora non ho fede. Ad ogni brivido di paura che mi coglie, ad ogni pericolo che sento incombente, la mia fede deve cominciare daccapo, come un nuovo inizio. Sulla bilancia della mia vita pesano più le paure che la mia fede. Eppure Lui lo ha detto: «Se aveste fede quanto un granellino di senape (Lc.17,6)», meno di una lenticchia, appena un chicco di fede e potrei far volare gli alberi o semplicemente accucciarmi fiducioso nel mare in tempesta.
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Don Luigi Verdi
«Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano» (Giobbe 38,1). Signore che parli dagli uragani della vita liberami da me stesso, dalle lamentele, da questo sentirmi sempre in credito con l’esistenza, da questa insopportabile sfacciataggine che mi fa alzare la voce con te. Io che in fondo mi credo più retto di Giobbe e che reputo ingiusti gli accadimenti che mettono alla prova la mia visione del mondo. Io che non voglio abbassare la testa mai. Io che dimentico che Tu sei il creatore, l’immenso, il mio tremendo amore. «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi» (Giobbe 38,8-9).
Signore che parli dal cuore degli uragani, che cavalchi i terrori che mi opprimono, che abiti perfino le tempeste della morte, ricordami che tu sei l’onnipotente, colui che mette argine al timore, colui che, come una madre, tranquillizza il ruggito disperato dei miei incubi più terribili. Ricordami la tua maestosità, rivestimi d’umiltà, rimettimi al posto creaturale che mi spetta, al sussurro che sono, all’inutilità della mia vita. Io non sono che un soffio in balia del mio orgoglio, tu sei la rosa dei venti. Signore fammi tacere, mostrami la mia arroganza, la tracotanza di chi si permette perfino di citarti in giudizio, la superbia di un Giobbe, ma peccatore. (E fammi fremere d’amore per te, perché nonostante tutto, tu tutto sospendi per parlare al mio cuore come fossi figlio unico).
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XII domenica
Tempo ordinario, Anno B
Letture: Giobbe 38,1.8-11; Salmo 106; Seconda Corinzi 5,14-17; Marco 4,35-41
Mi domando come sarebbe andata a finire se gli apostoli non lo avessero svegliato, se avessero continuato a tirar fuori l’acqua dalla barca, ad aggiustare vele e timone in favore di vento, se lo avessero lasciato dormire tranquillo a poppa. Qualche schizzo gli sarebbe arrivato sul volto e sulla barba o si sarebbe svegliato comunque fradicio di acqua, infreddolito dal vento? E se la barca fosse affondata? Avrebbero cercato le sue mani tra i rottami, nelle onde alte, trascinati dalle correnti? O forse la tempesta si sarebbe comunque improvvisamente placata, cullata dal respiro regolare del sonno del Maestro? Mi domando in fondo cosa sarebbe successo se gli apostoli avessero avuto davvero fede.
Ma forse, anzi sicuramente, questa pagina è stata scritta per me che, afferrato dallo spavento in ogni tempesta della mia vita e scosso dalle bufere inaspettate, urlo di terrore e chiedo al mio Dio: dove sei, perché dormi? Non ti importa niente di me? E mi aspetto sempre un intervento miracoloso che faccia dissolvere le origini delle mie paure e che sciolga tutti i nodi della mia vita. Ancora non ho capito, ancora non ho fede. Ad ogni brivido di paura che mi coglie, ad ogni pericolo che sento incombente, la mia fede deve cominciare daccapo, come un nuovo inizio. Sulla bilancia della mia vita pesano più le paure che la mia fede. Eppure Lui lo ha detto: «Se aveste fede quanto un granellino di senape (Lc.17,6)», meno di una lenticchia, appena un chicco di fede e potrei far volare gli alberi o semplicemente accucciarmi fiducioso nel mare in tempesta.
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Don Luigi Verdi
«Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano» (Giobbe 38,1). Signore che parli dagli uragani della vita liberami da me stesso, dalle lamentele, da questo sentirmi sempre in credito con l’esistenza, da questa insopportabile sfacciataggine che mi fa alzare la voce con te. Io che in fondo mi credo più retto di Giobbe e che reputo ingiusti gli accadimenti che mettono alla prova la mia visione del mondo. Io che non voglio abbassare la testa mai. Io che dimentico che Tu sei il creatore, l’immenso, il mio tremendo amore. «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi» (Giobbe 38,8-9).
Signore che parli dal cuore degli uragani, che cavalchi i terrori che mi opprimono, che abiti perfino le tempeste della morte, ricordami che tu sei l’onnipotente, colui che mette argine al timore, colui che, come una madre, tranquillizza il ruggito disperato dei miei incubi più terribili. Ricordami la tua maestosità, rivestimi d’umiltà, rimettimi al posto creaturale che mi spetta, al sussurro che sono, all’inutilità della mia vita. Io non sono che un soffio in balia del mio orgoglio, tu sei la rosa dei venti. Signore fammi tacere, mostrami la mia arroganza, la tracotanza di chi si permette perfino di citarti in giudizio, la superbia di un Giobbe, ma peccatore. (E fammi fremere d’amore per te, perché nonostante tutto, tu tutto sospendi per parlare al mio cuore come fossi figlio unico).
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