XIV domenica

Tempo ordinario, Anno B

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

«Ma non è il falegname, il fratello di Giacomo, Ioses, Giuda e Simone?» Poche pagine prima questi stessi fratelli sono scesi a Cafarnao per riportarselo a casa, il loro cugino strano, perché dicevano: è andato, è fuori di testa; lo danno per eretico, dobbiamo proteggerlo anche da se stesso. E adesso a Nazaret, dove si conoscono tutti, dove si sa tutto di tutti (o almeno così si crede), la gente si stupisce di discorsi mai sentiti, di parole che sembrano venire non dalla sacra scrittura, come l’hanno sempre ascoltata in sinagoga, e forse neppure da Dio: da dove mai gli vengono queste cose? Ed era per loro motivo di scandalo. Che cosa li scandalizza? L’umanità, la familiarità di un Dio che abbandona il tempio ed entra nell’ordinarietà di ogni casa, diventando il “God domestic” (Giuliana di Norwich, sec. XIII), il Dio di casa.

Gesù, rabbi senza titoli e con i calli alle mani, si è messo a raccontare Dio con parabole che sanno di casa, di terra, di orto, dove un germoglio, un grano di senape, un fico a primavera diventano personaggi di una rivelazione. Scandalizza l’umiltà di Dio. Non può essere questo il nostro Dio. Dov’è la gloria e lo splendore dell’Altissimo? E i suoi discepoli, questi ragazzi di fuori, pratici solo di barche, cos’hanno di più di Joses, Giacomo, Giuda e Simone? Non erano meglio i giovani del paese? Un profeta non è disprezzato che in casa sua… Osservazione che ci raggiunge tutti, circondati come siamo da sillabe di Dio, gocce di profezia sulla bocca e nei gesti di mille persone, in casa, per strada, al lavoro, o in un’altra parte del mondo.

Ma noi: non sono all’altezza, diciamo; e li misuriamo, li soppesiamo, diamo loro i voti, troviamo scuse, anziché aprirci. E Dio si stupisce, ma non desiste e ripete: “ascoltino o non ascoltino, sappiano che un profeta almeno si trova in mezzo a loro” (Ez. 2,5). Siamo circondati da profeti, magari piccoli, magari minimi, ma continuamente inviati. E noi, come gli abitanti di Nazaret, dilapidiamo e sperperiamo i nostri profeti, senza ascoltare l’inedito di Dio. Anche Gesù al rifiuto dei suoi compaesani si stupisce, ma non desiste. La sua risposta non è né rancore, né condanna, tanto meno depressione, ma una meraviglia che rivela come Dio ha un cuore di luce: “Non vi poté operare nessun prodigio”. Ma subito si corregge: “Solo impose le mani a pochi malati e li guarì”. Il Dio rifiutato si fa ancora guarigione, anche di pochi, anche di uno solo. L’innamorato respinto continua ad amare, anche senza ritorno. Di noi Dio non è stanco: è solo stupito. E allora “manda ancora profeti, uomini certi di Dio, uomini dal cuore in fiamme, e Tu a parlare dai loro roveti” (Turoldo).

Letture: Ezechièle 2,2-5; Salmo 122; Seconda Lettera ai Corìnzi 12,7-10; Marco 6,1-6

Ermes Ronchi
Avvenire

 

Oggi la Parola ci costringe a confrontarci con Colui che stiamo seguendo e ci sfida a vivere lo scandalo della fede, con tutto quello che questo comporta. Il brano evangelico si dispiega fra due atteggiamenti di stupore: da una parte lo stupore dei nazaretani che ascoltano l’insegnamento di Gesù nella loro sinagoga (“molti, ascoltando, rimanevano stupiti”) e dall’altra lo stupore di Gesù di fronte alla loro mancanza di fede (“E si meravigliava della loro incredulità”. Fra queste due capacità di meravigliarsi si colloca la chiamata di ciascuno di noi che, con i suoi discepoli, seguiamo oggi Gesù di ritorno a Nazareth: “Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono”.

Marco ci dice che gli abitanti di Nazareth sono colti da stupore nel momento in cui ascoltano Gesù insegnare: è lo stupore di chi non riesce a tenere insieme quel Gesù di cui conoscono luogo di nascita, famiglia e mestiere con Colui che parla con questa sapienza e che compie i prodigi di cui hanno sentito parlare. Da dove viene tutto questo, se di Gesù loro conoscono tutti i confini (con i loro interrogativi i nazaretani hanno definito Gesù entro un preciso ambito famigliare: padre, madre, fratelli, sorelle)? Il loro stupore invece di favorirli nel riconoscere Gesù, li chiude in una ostinata incredulità. Di fronte a questo atteggiamento, il discepolo di Gesù scopre che a nulla vale “avere conosciuto Gesù alla maniera umana” (cfr. 2Cor 5,16). Anzi, affermare di sapere chi è Gesù, riducendolo a ciò che abbiamo conosciuto di Lui, all’esperienza che nel passato possiamo aver fatto di Lui, diventa un vero e proprio ostacolo per continuare la relazione con Lui. Ridurre Gesù alla misura che possiamo avere di Lui significa smettere di seguirlo.

Marco ci dice che per i nazaretani Gesù “era motivo di scandalo”, letteralmente “egli era per loro occasione di caduta”. Lo scandalo infatti è la pietra d’inciampo contro cui urta il piede di chi si scandalizza, facendolo cadere, divenendo ostacolo che interrompe il suo cammino. Gesù è pietra contro la quale tutti inciampano: “per tutti voi sarò motivo di scandalo”, dirà Gesù ai suoi discepoli nell’approssimarsi della sua passione (cfr. Mt 26,31-33, ma anche Mt 11,6; 13,57; 15,12; 17,27). Questo perché Gesù, “sapienza e potenza di Dio” (cfr. 1Cor 1), si rivela nella debolezza dell’amore che condivide la povertà della nostra condizione umana, fino alle sue estreme conseguenze, fino ad accogliere la morte, e la morte di croce. Non è così facile la via che Dio ha scelto per rivelare il suo amore, entrando, in Gesù, nella nostra storia, facendosi nostro prossimo, amico e fratello, povero tra i poveri, e condividendo le fatiche della vita di ogni essere umano. L’umanità di Dio è uno scandalo contro cui urta ancora oggi il nostro piede di discepoli.

Accettare che Dio si riveli nella povertà di una storia troppo umana chiede una vera e propria conversione della nostra fede. Non si tratta di affidarsi ad un Dio potente, ma di affidarsi alla debolezza di Dio, che è il suo amore per noi uomini. Solo chi accetta la sfida di questa fede potrà scoprire che Dio non si rivela nello straordinario di eventi miracolosi, ma nell’ordinaria banalità dei nostri giorni, là dove solo gli occhi della fede potranno scorgere la Sua potenza che opera nella nostra debolezza (come ci dice oggi S. Paolo nella seconda lettura). Dio ha condiviso la nostra umanità e noi possiamo essere “familiari di Dio” (Ef 2,19). Si tratta però di una familiarità disposta a non ridurLo alle misure note di ciò che abbiamo conosciuto di Lui, ma capace di aprirsi alla novità di Dio. Dio infatti, pur rivelandosi nella quotidianità della nostra umanità, è sempre oltre la comprensione che possiamo avere di Lui.

La fede che non si scandalizza di Gesù, cioè che non cade inciampando su di Lui, pietra di scandalo, è quella del padre Abramo che Dio chiama ad uscire dalla sua patria, dalla sua parentela e dalla sua casa per entrare nella terra da Lui promessa. È interessante, infatti, che Gesù affermi: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”, facendo riferimento a ciò che Abramo è chiamato a lasciare per affidarsi a Dio: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò” (Gen 12,1).Terra, parentela e casa sono i luoghi, dal generale al particolare, che occorre lasciare per entrare nella stessa esperienza di fede di Abramo che gli permetterà di conoscere Dio solo seguendone la promessa e che lo farà vivere sulla terra come straniero e pellegrino, cioè accettando di vivere una relazione dinamica con Dio, spostando la tenda dietro una sempre nuova esperienza di Lui. La fede di Abramo è la sola familiarità che il discepolo di Gesù può vivere. Allora sarà questa fede a suscitare lo stupore di Dio. E questa stessa fede ci permetterà di continuare a crescere nella conoscenza di Lui, ad entrare sempre più profondamente nella novità del Suo rivelarsi a noi.

Monastero di Sant’Agata Feltria