In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?». Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». […]
Io sono il pane disceso dal cielo. In una sola frase Gesù raccoglie e intreccia tre immagini: pane, cielo, discendere. Potenza della scrittura creativa dei Vangeli, e prima ancora del linguaggio pieno di immaginazione e di sfondamenti proprio del poeta di Nazaret. Io sono pane, ma non come lo è un pugno di farina e di acqua passata per il fuoco: pane perché il mio lavoro è nutrire il fondo della vita. Io sono cielo che discende sulla terra. Terra con cielo è giardino. Senza, è polvere che non ha respiro. Nella sinagoga si alza la contestazione: ma quale pane e quale cielo! Sappiamo tutto di te e della tua famiglia… E qui è la chiave del racconto. Gesù ha in sé un portato che è oltre. Qualcosa che vale per tutta la realtà: c’è una parte di cielo che compone la terra; un oltre che abita le cose; il nostro segreto non è in noi, è oltre noi.
Come il pane, che ha in sé la polvere del suolo e l’oro del sole, le mani del seminatore e quelle del mietitore; ha patito il duro della macina e del fuoco; è germogliato chiamato dalla spiga futura; si è nutrito di luce e ora può nutrire. Come il pane, Gesù è figlio della terra e figlio del cielo. E aggiunge una frase bellissima: nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato. Ecco una nuova immagine di Dio: non il giudice, ma la forza di attrazione del cosmo, la forza di gravità celeste, la forza di coesione degli atomi e dei pianeti, la forza di ogni comunione. Dentro ciascuno di noi è al lavoro una forza instancabile di attrazione divina, che chiama ad abbracciare bellezza e tenerezza. E non diventeremo mai veri, mai noi stessi, mai contenti, se non ci incamminiamo sulle strade dell’incanto per tutto ciò che chiama all’abbraccio. Gesù dice: lasciate che il Padre attiri, che sia la comunione a parlare nel profondo, e non il male o la paura.
Allora sì che “tutti saranno istruiti da Dio”, istruiti con gesti e parole e sogni che ci attraggono e trasmettono benessere, perché sono limpidi e sani, sanno di pane e di vita. Il pane che io darò è la mia carne data per la vita del mondo. Sempre la parola “vita”, martellante certezza di Gesù di avere qualcosa di unico da dare affinché possiamo vivere meglio. Ma non dice il mio “corpo”, bensì la mia “carne”. Nel Vangelo di Giovanni carne indica l’umanità originaria e fragile che è la nostra: il verbo si è fatto carne. Vi do questa mia umanità, prendetela come misura alta e luminosa del vivere. Imparate da me, fermate l’emorragia di umanità della storia. Siate umani, perché più si è umani più si manifesta il Verbo, il germe divino che è nelle persone. Se ci nutriamo così di vangelo e di umanità, diventeremo una bella notizia per il mondo.
Letture: Primo Libro dei Re 19,4-8; Salmo 33; Lettera agli Efesini 4,30-5,2; Giovanni 6,41-51
Ermes Ronchi
Avvenire
Il vangelo di questa domenica è ancora tratto dal capitolo sesto del vangelo secondo Giovanni. La dichiarazione di Gesù “Io sono il pane disceso dal cielo” (Gv 6,41) provoca la reazione scandalizzata dei suoi interlocutori i quali cominciano a mormorare contro di lui. Il richiamo alla vicenda dei figli d’Israele nel deserto, già presente in Gv 6 nell’evocazione del dono della manna, prosegue ora con l’accenno alla mormorazione degli interlocutori di Gesù analogamente a quanto fecero i figli d’Israele durante l’esodo: Es 16,7.8.9.12; 17,3; Nm 14,27.29; 17,6.25; Sal 106,25. In questi testi veterotestamentari la mormorazione è linguaggio di contestazione e protesta rivolto contro le autorità del popolo, le guide, ma in verità indirizzato contro Dio stesso. Le proteste dei figli d’Israele per la scarsità di cibo durante il cammino nel deserto e la nostalgia del tempo in cui erano ancora in Egitto e “mangiavano pane a sazietà” (cf. Es 16,3) diventa mormorazione contro Mosè il quale reagisce così: “Quando il Signore vi darà alla sera la carne da mangiare e alla mattina il pane a sazietà, sarà perché il Signore ha inteso le mormorazioni con le quali mormorate contro di lui. Noi infatti che cosa siamo? Non contro di noi vanno le vostre mormorazioni, ma contro il Signore” (Es 16,8).
La pericope evangelica indica due dimensioni della mormorazione: essa è “contro” qualcuno (Gv 6,41: “I Giudei si misero a mormorare contro di lui”) e avviene “tra” (Gv 6,43: “Non mormorate tra voi”). Dimensione oppositiva e complottistica si fondono nella mormorazione. Il vocabolo è onomatopeico ed evoca il borbottio dell’acqua che scorre, un brusio. È una lagnanza nascosta, fatta di spalle, vile, una contestazione non aperta, ma che mugugna nell’ombra contro qualcuno sussurrando all’orecchio di altri al fine di creare dei complici. Essa si situa all’opposto della parresía, che è invece linguaggio chiaro, aperto, alla luce del sole, coraggioso, schietto. La mormorazione è dunque un discorrere ostile, che esprime disaccordo, riprovazione e malumore. Essa, tuttavia, non viene espressa ad alta voce, chiaramente, bensì tenuta nascosta, celata, sussurrata. Più simile a un rumore indistinto che a una voce umana, essa si nutre di non chiarezza. La mormorazione è un classico e grave male comunitario. Un vizio ben conosciuto nella chiesa e soprattutto nelle vite comunitarie, un vizio capace di incrinare la solidità della comunità e di guastare i rapporti fraterni seminando diffidenza e sospetto.
Nel nostro testo giovanneo è l’atteggiamento di chi si rifiuta di credere: il mormoratore è colui che resiste alla fede (cf. Gv 6,41-42). Il mormoratore può correggersi con la preghiera. Pregare per gli altri impedisce di farli oggetto di mormorazione. Nella mormorazione, infatti, Dio sparisce dall’orizzonte con cui penso l’altro. Nella preghiera, invece, penso l’altro davanti a Dio. Spesso è il peccato, e ancor prima, l’atteggiamento psicologico, dell’inferiore verso il superiore, del sottomesso nei confronti dell’autorità. Come tale, nell’Antico Testamento compare frequentemente come parola diretta contro Mosè (Es 17,3) o contro Mosè ed Aronne (Nm 17,6). In questo senso, potrebbe essere vista come una forma di ribellione, di rivolta, ma in verità essa resta subalterna e perdente. Esprime una frustrazione e un malessere, ma non elimina le cause del malessere e non le cerca né le individua nemmeno. Di fatto, è inutile e sterile.
Come Dio aveva risposto alle mormorazioni dei figli d’Israele nel deserto donando loro la manna, così Gesù risponde alle mormorazioni dei suoi interlocutori con il dono di se stesso: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo” (Gv 6,51). Il dono di Dio non costringe, ma è un’offerta che suscita la libertà del destinatario. E come la manna è dono e domanda (man hu: “che cos’è?”: Es 16,15), così il dono che Gesù è, suscita a sua volta domande sulla sua identità (“chi è?”: cf. Gv 6,42). Così, le domande incredule di coloro che conoscendo l’origine umana di Gesù, la sua famiglia (“Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre?”: Gv 6,42), non accedono alla fede in lui quale rivelatore di Dio, non manifestano solamente il peccato di chi le formula, ma esprimono anche il carattere non coercitivo e non obbligante del dono che Gesù è e fa. Il vero dono si espone alla libertà del destinatario, anche al possibile rifiuto. Anche all’umiliazione dell’indifferenza o del rigetto.
I due verbi discendere e dare, che nel nostro testo esprimono la relazione di Gesù con gli uomini, in verità indicano le due modalità costanti dell’esistenza di Gesù. Gesù dà vita scendendo e donando. Gesù è il pane disceso dal cielo, cioè la sua origine è in Dio, ma discendere è la normalità del suo comportarsi nei confronti dei discepoli e delle persone che istruisce, cura, perdona. Gesù narra la condiscendenza di Dio nel suo continuo farsi vicino agli uomini. Gesù è dono di Dio all’umanità (cf. Gv 3,16), Gesù dona la sua vita per i suoi (cf. Gv 15,13), ma anche il dono non è restringibile a un momento solo della vita di Gesù, bensì è la modalità stessa del suo vivere quotidiano: Gesù fa del vivere un donare.
Questo interpretare la vita come attivo donare, come amare, come spendere la vita per gli altri, è ciò che vince la morte e consente di trovare la propria vita, già ora, nella comunione con il Dio che è amore (cf. 1Gv 4,8.16). La vita di Gesù, potremmo dire, è una prassi quotidiana di resurrezione, essendo una vita segnata dall’amore, una vita cioè in cui “donare a” e “scendere verso” sono atti quotidiani. La “vita eterna” (cf. Gv 6,47.51), la vita che trova continuità nell’eternità, la vita più profonda del mero esistere, la vita che si sottrae allo sbriciolarsi del tempo, la vita che non può andar persa perché si travasa in coloro che vengono amati e perché si innesta in Colui che ha insegnato che c’è un dare che non è un perdere, ma un entrare nell’ineffabile gioia del donare gioia, è quella sotto il segno dell’amore e inizia già qui e ora. Amare è risorgere, ed è consentire ad altri di rialzarsi, di ricominciare, di “risorgere”, appunto.
La resurrezione è l’atto che compie già ora, nell’oggi, il credente. E questo proprio con l’atto di fede: “Chi crede ha la vita eterna” (Gv 6,47). La fede è sempre gesto di morte a sé per vivere in Cristo, per trovare la saldezza della propria vita in un atto di affidamento di sé a Cristo. La fede è intrinsecamente abitata da una dinamica pasquale, è un atto di morte e resurrezione. Essa attualizza nel credente la morte e la resurrezione di Cristo. Da questo punto di vista la fede è rischio mortale e possibilità impensata di vita. Rischio mortale perché il credente pone la stabilità del proprio essere e del proprio vivere (“Se non crederete non avrete stabilità”: Is 7,9) in Colui che non vede e di cui altri gli hanno dato testimonianza (e qui emerge l’intrinseca dimensione ecclesiale-comunitaria del credere); rischio perché questo movimento esige l’uscita da se stessi e la perdita di rilevanza del proprio io e delle sue pretese per vivere nello spazio dell’amore gratuito e preveniente di Dio.
Il rischio grande della fede è nel credere l’amore. Proprio il quarto evangelista lo ha ben capito: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). L’amore che Dio ha manifestato nella vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo, è il cuore della fede, la scaturigine delle energie di resurrezione per il credente. Chi è dunque il credente? O, se vogliamo, che cosa crede il credente? Sempre Giovanni lo esprime nella sua prima lettera: “Noi abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16). La fede cristiana è sempre, in radice, credere all’amore di Dio per noi. Quell’amore che ha trovato forma ed è divenuta storia nella vita di Gesù di Nazaret, di colui che, “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1).
Ma ancora. Se Dio è all’origine e al termine della missione di Gesù, è anche all’origine della fede del credente: “Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre” (Gv 6,44). Questa attrazione è specificata come ascolto e insegnamento ricevuto (cf. Gv 6,45), termini che rinviano alla Scrittura, “cattedra” da cui il Padre fa sentire la sua voce e rivolge agli uomini tutti (Gv 6,45; 12,32) l’invito a credere in colui che egli ha mandato. Grazie all’ascolto della parola di Dio contenuta nella Scrittura il credente diverrà un teodidatta. Ma il riferimento non è solo alla Scrittura. La cattedra, in questo caso, è anche il Maestro. Ovvero, la Parola fatta carne in Gesù di Nazaret dice che ormai la parola e la vita di Gesù ammaestrano l’uomo e sono fonte di ammaestramento e di insegnamento.
E di un insegnamento che viene da Dio. Colui che dice “Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre” (Gv 6,44) è lo stesso che dice: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6). Siamo al cuore del paradosso della fede cristiana come lo esprime il IV vangelo: nessuno può venire al Figlio e aderire a Lui senza aver ricevuto l’insegnamento del Padre; ma nessuno può imparare dal Padre se non attraverso il Figlio e l’ascolto del Figlio. L’azione dello Spirito santo, del Paraclito, scioglie il paradosso, lui che, inviato dal Padre, insegna e ricorda tutto ciò che Gesù ha detto, ma le parole che Gesù insegna non sono sue, ma del Padre che lo ha mandato (cf. Gv 14,24).
Luciano Manicardi
Monastero di Bose
XIX domenica
Tempo ordinario, Anno B
In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?». Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». […]
Io sono il pane disceso dal cielo. In una sola frase Gesù raccoglie e intreccia tre immagini: pane, cielo, discendere. Potenza della scrittura creativa dei Vangeli, e prima ancora del linguaggio pieno di immaginazione e di sfondamenti proprio del poeta di Nazaret. Io sono pane, ma non come lo è un pugno di farina e di acqua passata per il fuoco: pane perché il mio lavoro è nutrire il fondo della vita. Io sono cielo che discende sulla terra. Terra con cielo è giardino. Senza, è polvere che non ha respiro. Nella sinagoga si alza la contestazione: ma quale pane e quale cielo! Sappiamo tutto di te e della tua famiglia… E qui è la chiave del racconto. Gesù ha in sé un portato che è oltre. Qualcosa che vale per tutta la realtà: c’è una parte di cielo che compone la terra; un oltre che abita le cose; il nostro segreto non è in noi, è oltre noi.
Come il pane, che ha in sé la polvere del suolo e l’oro del sole, le mani del seminatore e quelle del mietitore; ha patito il duro della macina e del fuoco; è germogliato chiamato dalla spiga futura; si è nutrito di luce e ora può nutrire. Come il pane, Gesù è figlio della terra e figlio del cielo. E aggiunge una frase bellissima: nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato. Ecco una nuova immagine di Dio: non il giudice, ma la forza di attrazione del cosmo, la forza di gravità celeste, la forza di coesione degli atomi e dei pianeti, la forza di ogni comunione. Dentro ciascuno di noi è al lavoro una forza instancabile di attrazione divina, che chiama ad abbracciare bellezza e tenerezza. E non diventeremo mai veri, mai noi stessi, mai contenti, se non ci incamminiamo sulle strade dell’incanto per tutto ciò che chiama all’abbraccio. Gesù dice: lasciate che il Padre attiri, che sia la comunione a parlare nel profondo, e non il male o la paura.
Allora sì che “tutti saranno istruiti da Dio”, istruiti con gesti e parole e sogni che ci attraggono e trasmettono benessere, perché sono limpidi e sani, sanno di pane e di vita. Il pane che io darò è la mia carne data per la vita del mondo. Sempre la parola “vita”, martellante certezza di Gesù di avere qualcosa di unico da dare affinché possiamo vivere meglio. Ma non dice il mio “corpo”, bensì la mia “carne”. Nel Vangelo di Giovanni carne indica l’umanità originaria e fragile che è la nostra: il verbo si è fatto carne. Vi do questa mia umanità, prendetela come misura alta e luminosa del vivere. Imparate da me, fermate l’emorragia di umanità della storia. Siate umani, perché più si è umani più si manifesta il Verbo, il germe divino che è nelle persone. Se ci nutriamo così di vangelo e di umanità, diventeremo una bella notizia per il mondo.
Letture: Primo Libro dei Re 19,4-8; Salmo 33; Lettera agli Efesini 4,30-5,2; Giovanni 6,41-51
Ermes Ronchi
Avvenire
Il vangelo di questa domenica è ancora tratto dal capitolo sesto del vangelo secondo Giovanni. La dichiarazione di Gesù “Io sono il pane disceso dal cielo” (Gv 6,41) provoca la reazione scandalizzata dei suoi interlocutori i quali cominciano a mormorare contro di lui. Il richiamo alla vicenda dei figli d’Israele nel deserto, già presente in Gv 6 nell’evocazione del dono della manna, prosegue ora con l’accenno alla mormorazione degli interlocutori di Gesù analogamente a quanto fecero i figli d’Israele durante l’esodo: Es 16,7.8.9.12; 17,3; Nm 14,27.29; 17,6.25; Sal 106,25. In questi testi veterotestamentari la mormorazione è linguaggio di contestazione e protesta rivolto contro le autorità del popolo, le guide, ma in verità indirizzato contro Dio stesso. Le proteste dei figli d’Israele per la scarsità di cibo durante il cammino nel deserto e la nostalgia del tempo in cui erano ancora in Egitto e “mangiavano pane a sazietà” (cf. Es 16,3) diventa mormorazione contro Mosè il quale reagisce così: “Quando il Signore vi darà alla sera la carne da mangiare e alla mattina il pane a sazietà, sarà perché il Signore ha inteso le mormorazioni con le quali mormorate contro di lui. Noi infatti che cosa siamo? Non contro di noi vanno le vostre mormorazioni, ma contro il Signore” (Es 16,8).
La pericope evangelica indica due dimensioni della mormorazione: essa è “contro” qualcuno (Gv 6,41: “I Giudei si misero a mormorare contro di lui”) e avviene “tra” (Gv 6,43: “Non mormorate tra voi”). Dimensione oppositiva e complottistica si fondono nella mormorazione. Il vocabolo è onomatopeico ed evoca il borbottio dell’acqua che scorre, un brusio. È una lagnanza nascosta, fatta di spalle, vile, una contestazione non aperta, ma che mugugna nell’ombra contro qualcuno sussurrando all’orecchio di altri al fine di creare dei complici. Essa si situa all’opposto della parresía, che è invece linguaggio chiaro, aperto, alla luce del sole, coraggioso, schietto. La mormorazione è dunque un discorrere ostile, che esprime disaccordo, riprovazione e malumore. Essa, tuttavia, non viene espressa ad alta voce, chiaramente, bensì tenuta nascosta, celata, sussurrata. Più simile a un rumore indistinto che a una voce umana, essa si nutre di non chiarezza. La mormorazione è un classico e grave male comunitario. Un vizio ben conosciuto nella chiesa e soprattutto nelle vite comunitarie, un vizio capace di incrinare la solidità della comunità e di guastare i rapporti fraterni seminando diffidenza e sospetto.
Nel nostro testo giovanneo è l’atteggiamento di chi si rifiuta di credere: il mormoratore è colui che resiste alla fede (cf. Gv 6,41-42). Il mormoratore può correggersi con la preghiera. Pregare per gli altri impedisce di farli oggetto di mormorazione. Nella mormorazione, infatti, Dio sparisce dall’orizzonte con cui penso l’altro. Nella preghiera, invece, penso l’altro davanti a Dio. Spesso è il peccato, e ancor prima, l’atteggiamento psicologico, dell’inferiore verso il superiore, del sottomesso nei confronti dell’autorità. Come tale, nell’Antico Testamento compare frequentemente come parola diretta contro Mosè (Es 17,3) o contro Mosè ed Aronne (Nm 17,6). In questo senso, potrebbe essere vista come una forma di ribellione, di rivolta, ma in verità essa resta subalterna e perdente. Esprime una frustrazione e un malessere, ma non elimina le cause del malessere e non le cerca né le individua nemmeno. Di fatto, è inutile e sterile.
Come Dio aveva risposto alle mormorazioni dei figli d’Israele nel deserto donando loro la manna, così Gesù risponde alle mormorazioni dei suoi interlocutori con il dono di se stesso: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo” (Gv 6,51). Il dono di Dio non costringe, ma è un’offerta che suscita la libertà del destinatario. E come la manna è dono e domanda (man hu: “che cos’è?”: Es 16,15), così il dono che Gesù è, suscita a sua volta domande sulla sua identità (“chi è?”: cf. Gv 6,42). Così, le domande incredule di coloro che conoscendo l’origine umana di Gesù, la sua famiglia (“Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre?”: Gv 6,42), non accedono alla fede in lui quale rivelatore di Dio, non manifestano solamente il peccato di chi le formula, ma esprimono anche il carattere non coercitivo e non obbligante del dono che Gesù è e fa. Il vero dono si espone alla libertà del destinatario, anche al possibile rifiuto. Anche all’umiliazione dell’indifferenza o del rigetto.
I due verbi discendere e dare, che nel nostro testo esprimono la relazione di Gesù con gli uomini, in verità indicano le due modalità costanti dell’esistenza di Gesù. Gesù dà vita scendendo e donando. Gesù è il pane disceso dal cielo, cioè la sua origine è in Dio, ma discendere è la normalità del suo comportarsi nei confronti dei discepoli e delle persone che istruisce, cura, perdona. Gesù narra la condiscendenza di Dio nel suo continuo farsi vicino agli uomini. Gesù è dono di Dio all’umanità (cf. Gv 3,16), Gesù dona la sua vita per i suoi (cf. Gv 15,13), ma anche il dono non è restringibile a un momento solo della vita di Gesù, bensì è la modalità stessa del suo vivere quotidiano: Gesù fa del vivere un donare.
Questo interpretare la vita come attivo donare, come amare, come spendere la vita per gli altri, è ciò che vince la morte e consente di trovare la propria vita, già ora, nella comunione con il Dio che è amore (cf. 1Gv 4,8.16). La vita di Gesù, potremmo dire, è una prassi quotidiana di resurrezione, essendo una vita segnata dall’amore, una vita cioè in cui “donare a” e “scendere verso” sono atti quotidiani. La “vita eterna” (cf. Gv 6,47.51), la vita che trova continuità nell’eternità, la vita più profonda del mero esistere, la vita che si sottrae allo sbriciolarsi del tempo, la vita che non può andar persa perché si travasa in coloro che vengono amati e perché si innesta in Colui che ha insegnato che c’è un dare che non è un perdere, ma un entrare nell’ineffabile gioia del donare gioia, è quella sotto il segno dell’amore e inizia già qui e ora. Amare è risorgere, ed è consentire ad altri di rialzarsi, di ricominciare, di “risorgere”, appunto.
La resurrezione è l’atto che compie già ora, nell’oggi, il credente. E questo proprio con l’atto di fede: “Chi crede ha la vita eterna” (Gv 6,47). La fede è sempre gesto di morte a sé per vivere in Cristo, per trovare la saldezza della propria vita in un atto di affidamento di sé a Cristo. La fede è intrinsecamente abitata da una dinamica pasquale, è un atto di morte e resurrezione. Essa attualizza nel credente la morte e la resurrezione di Cristo. Da questo punto di vista la fede è rischio mortale e possibilità impensata di vita. Rischio mortale perché il credente pone la stabilità del proprio essere e del proprio vivere (“Se non crederete non avrete stabilità”: Is 7,9) in Colui che non vede e di cui altri gli hanno dato testimonianza (e qui emerge l’intrinseca dimensione ecclesiale-comunitaria del credere); rischio perché questo movimento esige l’uscita da se stessi e la perdita di rilevanza del proprio io e delle sue pretese per vivere nello spazio dell’amore gratuito e preveniente di Dio.
Il rischio grande della fede è nel credere l’amore. Proprio il quarto evangelista lo ha ben capito: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). L’amore che Dio ha manifestato nella vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo, è il cuore della fede, la scaturigine delle energie di resurrezione per il credente. Chi è dunque il credente? O, se vogliamo, che cosa crede il credente? Sempre Giovanni lo esprime nella sua prima lettera: “Noi abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16). La fede cristiana è sempre, in radice, credere all’amore di Dio per noi. Quell’amore che ha trovato forma ed è divenuta storia nella vita di Gesù di Nazaret, di colui che, “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1).
Ma ancora. Se Dio è all’origine e al termine della missione di Gesù, è anche all’origine della fede del credente: “Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre” (Gv 6,44). Questa attrazione è specificata come ascolto e insegnamento ricevuto (cf. Gv 6,45), termini che rinviano alla Scrittura, “cattedra” da cui il Padre fa sentire la sua voce e rivolge agli uomini tutti (Gv 6,45; 12,32) l’invito a credere in colui che egli ha mandato. Grazie all’ascolto della parola di Dio contenuta nella Scrittura il credente diverrà un teodidatta. Ma il riferimento non è solo alla Scrittura. La cattedra, in questo caso, è anche il Maestro. Ovvero, la Parola fatta carne in Gesù di Nazaret dice che ormai la parola e la vita di Gesù ammaestrano l’uomo e sono fonte di ammaestramento e di insegnamento.
E di un insegnamento che viene da Dio. Colui che dice “Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre” (Gv 6,44) è lo stesso che dice: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6). Siamo al cuore del paradosso della fede cristiana come lo esprime il IV vangelo: nessuno può venire al Figlio e aderire a Lui senza aver ricevuto l’insegnamento del Padre; ma nessuno può imparare dal Padre se non attraverso il Figlio e l’ascolto del Figlio. L’azione dello Spirito santo, del Paraclito, scioglie il paradosso, lui che, inviato dal Padre, insegna e ricorda tutto ciò che Gesù ha detto, ma le parole che Gesù insegna non sono sue, ma del Padre che lo ha mandato (cf. Gv 14,24).
Luciano Manicardi
Monastero di Bose