XXIII domenica

Tempo ordinario, Anno B

Letture: Isaia 35,4-7; Sal 145; Giacomo 2,1-5; Marco 7,31-37

Capita anche a noi, e tante volte nella nostra vita, che ce ne stiamo chiusi in noi stessi, sigillando ben bene gli spazi attraverso i quali la vita può insinuarsi, tappando ogni pertugio per evitare che qualcosa di esterno entri in noi e ci ferisca. Capita anche a noi di essere sordomuti. Tanto sordi e tanto muti da non riuscire a dire il dolore che ci attanaglia e da non voler sentire quello dell’altro. Un grido strozzato. Bello allora oggi leggere questo brano di Vangelo che ci riporta davanti a Gesù, da soli, in disparte, io e Lui a guardarci negli occhi, un solo sguardo: il mio di impotenza, il Suo di amore sulla mia impotenza.

A chi presuppone che Dio sia un Dio immateriale, etereo e intangibile Gesù dimostra che invece Lui ama sporcarsi le mani, lavandoci i piedi, toccando piaghe o infilandoci un dito nelle orecchie: Lui ama toccarci. Gesù tocca, sputa, spalma fango, alita, prende per mano perché a Lui piace così, sentire e farsi sentire concretamente: Lui ama toccarci. E la nostra pelle, al suo tocco, freme; il nostro cuore, al suo tocco, brucia, perché anche a noi viene sussurrato «Effatà», come un sospiro, come una preghiera.

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Don Luigi Verdi

 

I vangeli contengono un fraintendimento. Peggio ancora, lo amplificano. Dopo ogni guarigione, Gesù esige che nessuno ne parli. Chiede il segreto al convalescente, ai suoi parenti, e a tutti i testimoni. Insiste anche con i propri discepoli. Fatica sprecata! Più invoca il silenzio, più la notizia si diffonde. E i vangeli, pur riportando fedelmente questo desiderio di discrezione, lo tradiscono subito pubblicando il racconto del miracolo. Nessuno ascolta Gesù. Sono tutti sordi. Ecco che cosa racconta Marco in 7, 31—37, con un’ingenuità sottilmente ironica.

Gesù viaggia. Lascia per diverse settimane la Galilea per la Decàpoli, una regione in cui prosperano dieci città di cultura greca. Là gli portano un uomo sordo che, di conseguenza, ha difficoltà a parlare. Strappandolo alla folla, Gesù lo prende in disparte per avere un contatto intimo, da uomo a uomo, con lui. Utilizza allora un linguaggio corporeo, non potendo usare le parole, e compie i gesti di un guaritore toccandogli le orecchie e la lingua. Ma, diversamente dagli altri guaritori, geme per attirare l’attenzione di Dio. Levando gli occhi al cielo, implora l’aiuto divino, il che significa che non può guarire senza la collaborazione di Dio. E non può guarire neppure senza quella del malato. “Effatà”, gli ordina, che significa “Apriti” in aramaico.

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Éric-Emmanuel Schmitt