Letture: Atti 1, 1-11; Salmo 46; Ebrei 9, 24-28; 10, 19-23; Luca 24, 46-53
Con l’ascensione di Gesù, con il suo corpo assente, sottratto agli sguardi e al nostro avido toccare, inizia la nostalgia del cielo. Aveva preso carne nel grembo di una donna, svelando il profondo desiderio di Dio di essere uomo fra gli uomini e ora, salendo al cielo, porta con sé il nostro desiderio di essere Dio. L’ascensione al cielo non è una vittoria sulle leggi della forza di gravità. Gesù non è andato lontano o in alto o in qualche angolo remoto del cosmo. È “asceso”’ nel profondo degli esseri, “disceso” nell’intimo del creato e delle creature, e da dentro preme come forza ascensionale verso più luminosa vita. A questa navigazione del cuore Gesù chiama i suoi. A spostare il cuore, non il corpo.
Il Maestro lascia la terra con un bilancio deficitario, un fallimento a giudicare dai numeri: delle folle che lo osannavano, sono rimasti soltanto undici uomini impauriti e confusi, e un piccolo nucleo di donne tenaci e coraggiose. Lo hanno seguito per tre anni sulle strade di Palestina, non hanno capito molto ma lo hanno molto amato, questo sì, e sono venuti tutti all’ultimo appuntamento. Ora Gesù può tornare al Padre, rassicurato di avere acceso amore sulla terra. Sa che nessuno di quegli uomini e di quelle donne lo dimenticherà. È la sola garanzia di cui ha bisogno. E affida il suo Vangelo, e il sogno di cieli nuovi e terra nuova, non all’intelligenza dei primi della classe, ma a quella fragilità innamorata. Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Nel momento dell’addio, Gesù allarga le braccia sui discepoli, li raccoglie e li stringe a sé, e poi li invia. È il suo gesto finale, ultimo, definitivo; immagine che chiude la storia: le braccia alte in una benedizione senza parole, che da Betania veglia sul mondo, sospesa per sempre tra noi e Dio! Il mondo lo ha rifiutato e ucciso e lui lo benedice.
Mentre li benediceva si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Gesto prolungato, continuato, non frettoloso, verbo espresso all’imperfetto per indicare una benedizione mai terminata, in-finita; lunga benedizione che galleggia alta sul mondo e vicinissima a me: Lui che benedice gli occhi e le mani dei suoi, benedice il cuore e il sorriso, la tenerezza e la gioia improvvisa! Quella gioia che nasce quando senti che il nostro amare non è inutile, ma sarà raccolto goccia a goccia, vivo per sempre. Che il nostro lottare non è inutile, ma produce cielo sulla terra. È asceso il nostro Dio migratore: non oltre le nubi ma oltre le forme; non una navigazione celeste, ma un pellegrinaggio del cuore: se prima era con i discepoli, ora sarà dentro di loro, forza ascensionale dell’intero cosmo verso più luminosa vita.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Nelle letture della solennità dell’Ascensione abbiamo ascoltato per due volte (prima lettura e Vangelo) il racconto dell’esodo di Gesù da questo mondo al Padre. Dopo quaranta giorni dalla sua resurrezione, Gesù si distacca dai discepoli, «fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi». Tutti vorremmo, se fosse possibile, vedere Cristo con i nostri occhi; tutti, come Tommaso, vorremmo toccare le sue ferite con le nostre mani per appoggiarci alla sicurezza della sua presenza. Chi di noi non desidererebbe vedere il Signore?
Negli Atti degli Apostoli viene posta a Gesù una domanda: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Questa domanda è la stessa delle prime comunità, le quali attendevano come imminente il ritorno del Signore Gesù. Il Risorto, in modo fin troppo chiaro, risponde: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra». Ciò significa che come gli apostoli e le prime comunità così anche noi siamo invitati ad assumere consapevolmente e attivamente la prosecuzione della missione di Gesù: portare insieme a lui con la forza dello Spirito il Vangelo fino ai confini del mondo e alla fine della storia. Ecco il senso della festa di oggi. Con l’Ascensione di Gesù accade ciò che avviene a ogni bambino, quando la mamma improvvisamente stacca le sue braccia e lo lascia camminare da solo. Infatti con l’Ascensione di Gesù è nata la missione della Chiesa.
Luca scrive che mentre Cristo Signore veniva elevato in alto e gli apostoli guardavano fisso il cielo mentre egli se ne andava, all’improvviso si presentarono a loro due uomini in bianche vesti che dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?». Si faccia attenzione: questo non è un invito a guardare solo le cose della terra, ma un monito a non cercare più quella presenza fisica di Gesù di cui i discepoli hanno fatto esperienza nella storia. Gesù non va cercato presso la tomba vuota, né alzando gli occhi verso l’alto per carpire un’apparizione; egli va cercato, oggi come allora, nella comunità cristiana, nell’eucaristia, nelle donne e negli uomini che, in condizione di ultimi, attendono da noi di essere amati; è in costoro che Gesù ha voluto rendersi presente (cf Mt 25, 31-46). L’ascensione di Gesù al cielo significa, dunque, che egli si separa dai suoi e si assenta da questa terra e, per tale motivo, il Risorto non può più essere visto né nella carne né nella sua forma gloriosa. Tale distacco prelude però a una nuova forma di presenza da parte di Gesù presso la sua comunità, così che i credenti in lui non restano soli, «orfani» (cf Gv 14, 18): per questo nel salire al cielo benedice i discepoli: «alzate le mani, li benedisse».
Anche noi, come gli apostoli, abbiamo il compito di annunciare la Buona Novella. Seguire Gesù significa vivere come lui. Noi ci impegniamo ad annunciare il Vangelo? Ci sforziamo a mettere in pratica ciò che Gesù ha detto e vivere come lui? Siamo cristiani non per quello che diciamo, ma per quello che facciamo. Mettiamoci davanti al Signore e facendo un attento esame di coscienza domandiamoci: “mi comporto da vero cristiano?”. Non dobbiamo solo predicare ma anche mettere in pratica! Solo se concretizziamo ciò che diciamo, saremo sale della terra e luce del mondo. Come i Dodici dopo l’ascensione di Gesù erano pieni di gioia, anche noi oggi dobbiamo essere gioiosi e non spaventarci delle proprie debolezze e infermità spirituali; lasciamoci guidare dallo Spirito Santo. Nel quarto vangelo Giovanni scrive che Gesù ha affermato: «È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre» (cf Gv 16, 7; 14-16).
Don Lucio D’Abbraccio
Ascensione del Signore
Anno C
Letture: Atti 1, 1-11; Salmo 46; Ebrei 9, 24-28; 10, 19-23; Luca 24, 46-53
Con l’ascensione di Gesù, con il suo corpo assente, sottratto agli sguardi e al nostro avido toccare, inizia la nostalgia del cielo. Aveva preso carne nel grembo di una donna, svelando il profondo desiderio di Dio di essere uomo fra gli uomini e ora, salendo al cielo, porta con sé il nostro desiderio di essere Dio. L’ascensione al cielo non è una vittoria sulle leggi della forza di gravità. Gesù non è andato lontano o in alto o in qualche angolo remoto del cosmo. È “asceso”’ nel profondo degli esseri, “disceso” nell’intimo del creato e delle creature, e da dentro preme come forza ascensionale verso più luminosa vita. A questa navigazione del cuore Gesù chiama i suoi. A spostare il cuore, non il corpo.
Il Maestro lascia la terra con un bilancio deficitario, un fallimento a giudicare dai numeri: delle folle che lo osannavano, sono rimasti soltanto undici uomini impauriti e confusi, e un piccolo nucleo di donne tenaci e coraggiose. Lo hanno seguito per tre anni sulle strade di Palestina, non hanno capito molto ma lo hanno molto amato, questo sì, e sono venuti tutti all’ultimo appuntamento. Ora Gesù può tornare al Padre, rassicurato di avere acceso amore sulla terra. Sa che nessuno di quegli uomini e di quelle donne lo dimenticherà. È la sola garanzia di cui ha bisogno. E affida il suo Vangelo, e il sogno di cieli nuovi e terra nuova, non all’intelligenza dei primi della classe, ma a quella fragilità innamorata. Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Nel momento dell’addio, Gesù allarga le braccia sui discepoli, li raccoglie e li stringe a sé, e poi li invia. È il suo gesto finale, ultimo, definitivo; immagine che chiude la storia: le braccia alte in una benedizione senza parole, che da Betania veglia sul mondo, sospesa per sempre tra noi e Dio! Il mondo lo ha rifiutato e ucciso e lui lo benedice.
Mentre li benediceva si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Gesto prolungato, continuato, non frettoloso, verbo espresso all’imperfetto per indicare una benedizione mai terminata, in-finita; lunga benedizione che galleggia alta sul mondo e vicinissima a me: Lui che benedice gli occhi e le mani dei suoi, benedice il cuore e il sorriso, la tenerezza e la gioia improvvisa! Quella gioia che nasce quando senti che il nostro amare non è inutile, ma sarà raccolto goccia a goccia, vivo per sempre. Che il nostro lottare non è inutile, ma produce cielo sulla terra. È asceso il nostro Dio migratore: non oltre le nubi ma oltre le forme; non una navigazione celeste, ma un pellegrinaggio del cuore: se prima era con i discepoli, ora sarà dentro di loro, forza ascensionale dell’intero cosmo verso più luminosa vita.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Nelle letture della solennità dell’Ascensione abbiamo ascoltato per due volte (prima lettura e Vangelo) il racconto dell’esodo di Gesù da questo mondo al Padre. Dopo quaranta giorni dalla sua resurrezione, Gesù si distacca dai discepoli, «fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi». Tutti vorremmo, se fosse possibile, vedere Cristo con i nostri occhi; tutti, come Tommaso, vorremmo toccare le sue ferite con le nostre mani per appoggiarci alla sicurezza della sua presenza. Chi di noi non desidererebbe vedere il Signore?
Negli Atti degli Apostoli viene posta a Gesù una domanda: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Questa domanda è la stessa delle prime comunità, le quali attendevano come imminente il ritorno del Signore Gesù. Il Risorto, in modo fin troppo chiaro, risponde: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra». Ciò significa che come gli apostoli e le prime comunità così anche noi siamo invitati ad assumere consapevolmente e attivamente la prosecuzione della missione di Gesù: portare insieme a lui con la forza dello Spirito il Vangelo fino ai confini del mondo e alla fine della storia. Ecco il senso della festa di oggi. Con l’Ascensione di Gesù accade ciò che avviene a ogni bambino, quando la mamma improvvisamente stacca le sue braccia e lo lascia camminare da solo. Infatti con l’Ascensione di Gesù è nata la missione della Chiesa.
Luca scrive che mentre Cristo Signore veniva elevato in alto e gli apostoli guardavano fisso il cielo mentre egli se ne andava, all’improvviso si presentarono a loro due uomini in bianche vesti che dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?». Si faccia attenzione: questo non è un invito a guardare solo le cose della terra, ma un monito a non cercare più quella presenza fisica di Gesù di cui i discepoli hanno fatto esperienza nella storia. Gesù non va cercato presso la tomba vuota, né alzando gli occhi verso l’alto per carpire un’apparizione; egli va cercato, oggi come allora, nella comunità cristiana, nell’eucaristia, nelle donne e negli uomini che, in condizione di ultimi, attendono da noi di essere amati; è in costoro che Gesù ha voluto rendersi presente (cf Mt 25, 31-46). L’ascensione di Gesù al cielo significa, dunque, che egli si separa dai suoi e si assenta da questa terra e, per tale motivo, il Risorto non può più essere visto né nella carne né nella sua forma gloriosa. Tale distacco prelude però a una nuova forma di presenza da parte di Gesù presso la sua comunità, così che i credenti in lui non restano soli, «orfani» (cf Gv 14, 18): per questo nel salire al cielo benedice i discepoli: «alzate le mani, li benedisse».
Anche noi, come gli apostoli, abbiamo il compito di annunciare la Buona Novella. Seguire Gesù significa vivere come lui. Noi ci impegniamo ad annunciare il Vangelo? Ci sforziamo a mettere in pratica ciò che Gesù ha detto e vivere come lui? Siamo cristiani non per quello che diciamo, ma per quello che facciamo. Mettiamoci davanti al Signore e facendo un attento esame di coscienza domandiamoci: “mi comporto da vero cristiano?”. Non dobbiamo solo predicare ma anche mettere in pratica! Solo se concretizziamo ciò che diciamo, saremo sale della terra e luce del mondo. Come i Dodici dopo l’ascensione di Gesù erano pieni di gioia, anche noi oggi dobbiamo essere gioiosi e non spaventarci delle proprie debolezze e infermità spirituali; lasciamoci guidare dallo Spirito Santo. Nel quarto vangelo Giovanni scrive che Gesù ha affermato: «È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre» (cf Gv 16, 7; 14-16).
Don Lucio D’Abbraccio