Letture: Genesi 14,18-20; Salmo 109; Prima Lettera ai Corinzi 11,23-26; Luca 9,11b-17
Mandali via, è sera ormai, e siamo in un luogo deserto. Gli apostoli si preoccupano per la folla, ne condividono la fame, ma non vedono soluzioni: «lascia che ciascuno vada a risolversi i suoi problemi, come può, dove può». Ma Gesù non ha mai mandato via nessuno. Anzi vuole fare di quel luogo deserto una casa calda di pane e di affetto. E condividendo la fame dell’uomo, condivide il volto del Padre: “alcuni uomini hanno così tanta fame, che per loro Dio non può avere che la forma di un pane” (Gandhi). E allora imprime un improvviso cambio di direzione al racconto, attraverso una richiesta illogica ai suoi: Date loro voi stessi da mangiare. Un verbo semplice, asciutto, concreto: date. Nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con un altro verbo, fattivo, di mani: dare (Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio (Gv 3,16), non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici (Gv 15,13).
Ma è una richiesta impossibile: non abbiamo che cinque pani e due pesci. Un pane per ogni mille persone e due pesciolini: è poco, quasi niente, non basta neppure per la nostra cena. Ma il Signore vuole che nei suoi discepoli metta radici il suo coraggio e il miracolo del dono. C’è pane sulla terra a sufficienza per la fame di tutti, ma non è sufficiente per l’avidità di pochi. Eppure chi dona non diventa mai povero. La vita vive di vita donata.
Fateli sedere a gruppi. Nessuno da solo, tutti dentro un cerchio, tutti dentro un legame; seduti, come si fa per una cena importante; fianco a fianco, come per una cena in famiglia: primo passo per entrare nel gioco divino del dono. Fuori, non c’è altro che una tavola d’erba, primo altare del vangelo, e il lago sullo sfondo con la sua abside azzurra. La sorpresa di quella sera è che poco pane condiviso tra tutti, che passa di mano in mano e ne rimane in ogni mano, diventa sufficiente, si moltiplica in pane in-finito. La sorpresa è vedere che la fine della fame non consiste nel mangiare da solo, a sazietà, il mio pane, ma nello spartire il poco che ho, e non importa cosa: due pesci, un bicchiere d’acqua fresca, olio e vino sulle ferite, un po’ di tempo e un po’ di cuore, una carezza amorevole.
Sento che questa è la grande parola del pane, che il nostro compito nella vita sa di pane: non andarcene da questa terra senza essere prima diventati pezzo di pane buono per la vita e la pace di qualcuno. Tutti mangiarono a sazietà. Quel “tutti” è importante. Sono bambini, donne, uomini. Sono santi e peccatori, sinceri o bugiardi, nessuno escluso, donne di Samaria con cinque mariti e altrettanti fallimenti, nessuno escluso. Prodigiosa moltiplicazione: non del pane ma del cuore.
Ermes Ronchi
Avvenire
La festa del Corpus Domini, cioè del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, manifesta il cuore della nostra fede: celebrare il dono dell’Eucarestia, mistero dell’immenso amore di Dio per l’umanità. Le scritture scelte ci invitano non solo a riflettere e a contemplare la presenza reale di Gesù nelle specie del pane e del vino, ma altresì a riconoscere quel corpo di Cristo che dobbiamo diventare noi, sua Chiesa, a condizione di lasciarci convertire dalla Parola e dai gesti di Gesù, che esigono sempre un passaggio pasquale. Il brano evangelico di oggi, è tratto dal capitolo 9 che, l’evangelista Luca dedica alla missione dei Dodici. Gesù aveva dato ai suoi “potere e autorità sui demoni, di curare le malattie” e li aveva “inviati ad annunciare il Regno di Dio e a guarire gli infermi” (Lc 9,1-2). Quindi gli apostoli, dopo aver compiuto ciò per cui erano stati inviati, ritornano dal loro Maestro e gli “raccontano tutto quanto hanno fatto e insegnato” (cfr Lc 9,10).
Probabilmente non vedevano l’ora di raccontare l’esperienza vissuta e, Gesù si prende cura di loro, “li prende con sé” (v. 10) in un luogo appartato, nell’intimità, “per riposare un po’ (Mc 6,31). È del suo riposo che noi suoi discepoli abbiamo bisogno, di quel riposo che consente di vedere gli eventi e la stessa “missione dei Dodici” alla luce di Dio, riconducendo a Lui la lode e la benedizione per le sorprendenti meraviglie che la sua Parola opera nel mondo. “Ma le folle vennero a saperlo e lo seguirono” (v. 11). Gesù, di fronte alla folla che Luca presenta bisognosa, affamata, la accoglie, inizia a “parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure” (v. 11). Il Maestro non si sottrae, non sa resistere, prova compassione, sentimento bene evidenziato dall’evangelista Marco nel suo racconto parallelo, tanto da indurre Gesù a cambiare programma: “fu preso da compassione perché erano come pecore senza pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose” (Mc 6,34).
Gesù reagisce come il Buon Pastore che si prende cura delle sue pecore. A questo punto intervengono i discepoli (è il tramonto, si è fatto tardi e il luogo è deserto e si deve anche mangiare) e la soluzione che propongono a Gesù è: “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta” (v. 12). Gesù aveva appena accolto le folle e i suoi dicono: Congeda. Due atteggiamenti nettamente in contrasto. Ecco allora che Gesù interviene e con pazienza, pian piano fa compiere ai Dodici piccoli passi fondamentali di conversione. Egli infatti, come guarisce le infermità o sazia la fame, cura e guarisce il cuore dell’uomo. Prima di tutto li invita a comprendere che, anziché congedare le folle, devono accogliere il loro bisogno e prendersene cura in prima persona. Inizia così un dialogo che rivela da una parte la partecipazione dei discepoli all’opera di Gesù: “voi stessi date loro da mangiare” (v. 13), dall’altra la loro incomprensione come emerge dalla loro risposta: “non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente” (v. 13).
Non avevano capito, non comprendono che Gesù sta chiedendo un ulteriore passaggio dal comprare il pane al condividere ciò che si possiede. Certo, ciò che hanno è davvero poca cosa: cinque pani e due pesci, davvero niente per cinquemila persone; tuttavia non è importante quanto si possiede ma quanto se si è disposti a donare totalmente, a mettere cioè nelle mani di Gesù, affidandosi a Lui, alla Sua grazia. Quindi il donare tutto quello che si ha equivale a donare sé stessi, donare la propria stessa vita: “date loro voi stessi da mangiare” (v. 13). Ora tutto questo, per Gesù, comporta due momenti inseparabili: da un lato, massima concretezza e valorizzazione di ciò che si ha; dall’altro, piena fiducia nel Padre che provvede il pane quotidiano. Quindi Gesù parte da ciò che si ha per valorizzarlo nella prospettiva della fede e della benedizione. È dalla condivisione di quanto si ha che nasce il miracolo. Allora Gesù “prese i cinque pani e i due pesci, alzò chi occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi avanzati: dodici ceste” (vv. 16-17).
Qui il racconto è intessuto di sottili rimandi a ciò che avvenne nell’ultima cena del Signore e vi troviamo tutti i verbi caratteristici presenti nell’Eucarestia: prendere, benedire, spezzare, dare. S. Paolo, nella seconda lettura, ci racconta ciò che avvenne nell’ultima cena e ci aiuta quando dice: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta ho trasmesso” (1 Cor 11,23), in quanto invita anche noi a cercare il senso di una possibile testimonianza al Signore nel modo in cui celebriamo e accogliamo il dono del Suo corpo. “Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1 Cor 11,26). Quindi ogni volta che ci nutriamo del pane eucaristico, noi rinnoviamo l’annuncio del Vangelo, ossia, manifestiamo il misterioso incontro tra la nostra povertà e la ricchezza di Dio.
Come il Dio dell’Esodo anche Gesù prepara una mensa nel deserto dove nutre le moltitudini con il dono della parola e moltiplica il pane. Una tavola gratuita e festosa, segno di ciò che il Pastore Bello/Buono vuole, offrirci. Infatti, scopo unico della sua missione è donare la vita in pienezza per tutti: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Gesù è il Pastore che ci nutre con la sua parola e la sua stessa carne. Non si limita a moltiplicare il pane che nutre la vita mortale, ma dà se stesso come pane di vita eterna. La Parola fatta carne si fa Pane, perché possiamo mangiarla e vivere a nostra volta in eterno, partecipando della sua stessa vita divina. Quindi la via di Dio, che Gesù di Nazaret ci ha aperto, è quella di una vita consegnata alla relazione con l’altro, con il Padre e con i fratelli.
Monastero di Sant’Agata Feltria
Corpus Domini
Anno C
Letture: Genesi 14,18-20; Salmo 109; Prima Lettera ai Corinzi 11,23-26; Luca 9,11b-17
Mandali via, è sera ormai, e siamo in un luogo deserto. Gli apostoli si preoccupano per la folla, ne condividono la fame, ma non vedono soluzioni: «lascia che ciascuno vada a risolversi i suoi problemi, come può, dove può». Ma Gesù non ha mai mandato via nessuno. Anzi vuole fare di quel luogo deserto una casa calda di pane e di affetto. E condividendo la fame dell’uomo, condivide il volto del Padre: “alcuni uomini hanno così tanta fame, che per loro Dio non può avere che la forma di un pane” (Gandhi). E allora imprime un improvviso cambio di direzione al racconto, attraverso una richiesta illogica ai suoi: Date loro voi stessi da mangiare. Un verbo semplice, asciutto, concreto: date. Nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con un altro verbo, fattivo, di mani: dare (Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio (Gv 3,16), non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici (Gv 15,13).
Ma è una richiesta impossibile: non abbiamo che cinque pani e due pesci. Un pane per ogni mille persone e due pesciolini: è poco, quasi niente, non basta neppure per la nostra cena. Ma il Signore vuole che nei suoi discepoli metta radici il suo coraggio e il miracolo del dono. C’è pane sulla terra a sufficienza per la fame di tutti, ma non è sufficiente per l’avidità di pochi. Eppure chi dona non diventa mai povero. La vita vive di vita donata.
Fateli sedere a gruppi. Nessuno da solo, tutti dentro un cerchio, tutti dentro un legame; seduti, come si fa per una cena importante; fianco a fianco, come per una cena in famiglia: primo passo per entrare nel gioco divino del dono. Fuori, non c’è altro che una tavola d’erba, primo altare del vangelo, e il lago sullo sfondo con la sua abside azzurra. La sorpresa di quella sera è che poco pane condiviso tra tutti, che passa di mano in mano e ne rimane in ogni mano, diventa sufficiente, si moltiplica in pane in-finito. La sorpresa è vedere che la fine della fame non consiste nel mangiare da solo, a sazietà, il mio pane, ma nello spartire il poco che ho, e non importa cosa: due pesci, un bicchiere d’acqua fresca, olio e vino sulle ferite, un po’ di tempo e un po’ di cuore, una carezza amorevole.
Sento che questa è la grande parola del pane, che il nostro compito nella vita sa di pane: non andarcene da questa terra senza essere prima diventati pezzo di pane buono per la vita e la pace di qualcuno. Tutti mangiarono a sazietà. Quel “tutti” è importante. Sono bambini, donne, uomini. Sono santi e peccatori, sinceri o bugiardi, nessuno escluso, donne di Samaria con cinque mariti e altrettanti fallimenti, nessuno escluso. Prodigiosa moltiplicazione: non del pane ma del cuore.
Ermes Ronchi
Avvenire
La festa del Corpus Domini, cioè del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, manifesta il cuore della nostra fede: celebrare il dono dell’Eucarestia, mistero dell’immenso amore di Dio per l’umanità. Le scritture scelte ci invitano non solo a riflettere e a contemplare la presenza reale di Gesù nelle specie del pane e del vino, ma altresì a riconoscere quel corpo di Cristo che dobbiamo diventare noi, sua Chiesa, a condizione di lasciarci convertire dalla Parola e dai gesti di Gesù, che esigono sempre un passaggio pasquale. Il brano evangelico di oggi, è tratto dal capitolo 9 che, l’evangelista Luca dedica alla missione dei Dodici. Gesù aveva dato ai suoi “potere e autorità sui demoni, di curare le malattie” e li aveva “inviati ad annunciare il Regno di Dio e a guarire gli infermi” (Lc 9,1-2). Quindi gli apostoli, dopo aver compiuto ciò per cui erano stati inviati, ritornano dal loro Maestro e gli “raccontano tutto quanto hanno fatto e insegnato” (cfr Lc 9,10).
Probabilmente non vedevano l’ora di raccontare l’esperienza vissuta e, Gesù si prende cura di loro, “li prende con sé” (v. 10) in un luogo appartato, nell’intimità, “per riposare un po’ (Mc 6,31). È del suo riposo che noi suoi discepoli abbiamo bisogno, di quel riposo che consente di vedere gli eventi e la stessa “missione dei Dodici” alla luce di Dio, riconducendo a Lui la lode e la benedizione per le sorprendenti meraviglie che la sua Parola opera nel mondo. “Ma le folle vennero a saperlo e lo seguirono” (v. 11). Gesù, di fronte alla folla che Luca presenta bisognosa, affamata, la accoglie, inizia a “parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure” (v. 11). Il Maestro non si sottrae, non sa resistere, prova compassione, sentimento bene evidenziato dall’evangelista Marco nel suo racconto parallelo, tanto da indurre Gesù a cambiare programma: “fu preso da compassione perché erano come pecore senza pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose” (Mc 6,34).
Gesù reagisce come il Buon Pastore che si prende cura delle sue pecore. A questo punto intervengono i discepoli (è il tramonto, si è fatto tardi e il luogo è deserto e si deve anche mangiare) e la soluzione che propongono a Gesù è: “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta” (v. 12). Gesù aveva appena accolto le folle e i suoi dicono: Congeda. Due atteggiamenti nettamente in contrasto. Ecco allora che Gesù interviene e con pazienza, pian piano fa compiere ai Dodici piccoli passi fondamentali di conversione. Egli infatti, come guarisce le infermità o sazia la fame, cura e guarisce il cuore dell’uomo. Prima di tutto li invita a comprendere che, anziché congedare le folle, devono accogliere il loro bisogno e prendersene cura in prima persona. Inizia così un dialogo che rivela da una parte la partecipazione dei discepoli all’opera di Gesù: “voi stessi date loro da mangiare” (v. 13), dall’altra la loro incomprensione come emerge dalla loro risposta: “non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente” (v. 13).
Non avevano capito, non comprendono che Gesù sta chiedendo un ulteriore passaggio dal comprare il pane al condividere ciò che si possiede. Certo, ciò che hanno è davvero poca cosa: cinque pani e due pesci, davvero niente per cinquemila persone; tuttavia non è importante quanto si possiede ma quanto se si è disposti a donare totalmente, a mettere cioè nelle mani di Gesù, affidandosi a Lui, alla Sua grazia. Quindi il donare tutto quello che si ha equivale a donare sé stessi, donare la propria stessa vita: “date loro voi stessi da mangiare” (v. 13). Ora tutto questo, per Gesù, comporta due momenti inseparabili: da un lato, massima concretezza e valorizzazione di ciò che si ha; dall’altro, piena fiducia nel Padre che provvede il pane quotidiano. Quindi Gesù parte da ciò che si ha per valorizzarlo nella prospettiva della fede e della benedizione. È dalla condivisione di quanto si ha che nasce il miracolo. Allora Gesù “prese i cinque pani e i due pesci, alzò chi occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi avanzati: dodici ceste” (vv. 16-17).
Qui il racconto è intessuto di sottili rimandi a ciò che avvenne nell’ultima cena del Signore e vi troviamo tutti i verbi caratteristici presenti nell’Eucarestia: prendere, benedire, spezzare, dare. S. Paolo, nella seconda lettura, ci racconta ciò che avvenne nell’ultima cena e ci aiuta quando dice: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta ho trasmesso” (1 Cor 11,23), in quanto invita anche noi a cercare il senso di una possibile testimonianza al Signore nel modo in cui celebriamo e accogliamo il dono del Suo corpo. “Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1 Cor 11,26). Quindi ogni volta che ci nutriamo del pane eucaristico, noi rinnoviamo l’annuncio del Vangelo, ossia, manifestiamo il misterioso incontro tra la nostra povertà e la ricchezza di Dio.
Come il Dio dell’Esodo anche Gesù prepara una mensa nel deserto dove nutre le moltitudini con il dono della parola e moltiplica il pane. Una tavola gratuita e festosa, segno di ciò che il Pastore Bello/Buono vuole, offrirci. Infatti, scopo unico della sua missione è donare la vita in pienezza per tutti: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Gesù è il Pastore che ci nutre con la sua parola e la sua stessa carne. Non si limita a moltiplicare il pane che nutre la vita mortale, ma dà se stesso come pane di vita eterna. La Parola fatta carne si fa Pane, perché possiamo mangiarla e vivere a nostra volta in eterno, partecipando della sua stessa vita divina. Quindi la via di Dio, che Gesù di Nazaret ci ha aperto, è quella di una vita consegnata alla relazione con l’altro, con il Padre e con i fratelli.
Monastero di Sant’Agata Feltria