Letture: Isaia 62,1-5; Salmo 96; Prima lettera ai Corinzi 12,4-11; Giovanni 2,1-11
Festa un po’ strana, quella di Cana di Galilea: lo sposo è del tutto marginale, la sposa neppure nominata; protagonisti sono due invitati, e alcuni ragazzi che servono ai tavoli. Il punto che cambia la direzione del racconto è il vino che viene a mancare. Il vino nella Bibbia è il simbolo dell’amore. E il banchetto che è andato in crisi racconta, in metafora, la crisi dell’amore tra Dio e l’umanità, un rapporto che si va esaurendo stancamente, come il vino nelle anfore. Occorre qualcosa di nuovo. Vi erano là sei anfore di pietra… Occorre riempirle d’altro, finirla con la religione dei riti esterni, del lavarsi le mani come se ne venisse lavato il cuore; occorre vino nuovo: passare dalla religione dell’esteriorità a quella dell’interiorità, dell’amore che ti fa fare follie, che fa nascere il canto e la danza, come un vino buono, inatteso, abbondante, che fa il cuore ubriaco di gioia (Salmo 104,15).
Il Vangelo chiama questo il “principe dei segni”, il capostipite di tutti: se capiamo Cana, capiamo gran parte del Vangelo. A Cana è il volto nuovo di Dio che appare: un Dio inatteso, colto nelle trame festose di un pranzo nuziale; che al tempio preferisce la casa; che si fa trovare non nel santuario, nel deserto, sul monte, ma a tavola. E prende parte alla gioia degli uomini, la approva, si allea con loro, con l’umanissima, fisica, sensibile gioia di vivere; con il nudo, semplice, vero piacere di amare; che preferisce figli felici a figli obbedienti, come ogni padre e madre. Il nostro cristianesimo che ha subito un battesimo di tristezza, a Cana riceve un battesimo di gioia. Maria vive con attenzione ciò che accade attorno a lei, con quella «attenzione che è già una forma di preghiera» (S. Weil): «non hanno più vino».
Notiamo le parole precise. Non già: è finito il vino; ma loro, i due ragazzi, non hanno più vino, sta per spegnersi la loro festa. Prima le persone. E alla risposta brusca di Gesù, Maria rilancia: qualunque cosa vi dica, fatela! Sono le sue ultime parole, poi non parlerà più: Fate il suo Vangelo! Non solo ascoltatelo, ma fatelo, rendetelo gesto e corpo, sangue e carne. E si riempiranno le anfore vuote del cuore. E si trasformerà la vita da vuota a piena, da spenta a fiorita. Il mio Gesù è il rabbi che amava i banchetti, che soccorre i poveri di pane e i poveri di vino. Il Dio in cui credo è il Dio di Gesù, quello delle nozze di Cana; il Dio della festa e del gioioso amore danzante; credo in un Dio felice, che sta dalla parte del vino migliore, del profumo di nardo prezioso, dalla parte della gioia: la felicità di questa vita si pesa sul dare e sul ricevere amore.
Ermes Ronchi
Avvenire
Le molte esegesi del Vangelo di Giovanni ci hanno insegnato ed esortato a non fermarci alla lettera del testo, ma ad andare in profondità, per cogliere e gustare il senso riposto dietro la semplice narrazione di un incontro, di un accadimento che abbia per protagonista Gesù di Nazareth. Anche leggendo questo brano, percepiamo subito che dietro il segno della trasformazione operata da Gesù ci sono riferimenti alla sua divina natura, alla sua missione salvifica, alla sua santità. Tuttavia, mi è sempre sembrato affascinante questo brano anche nella sua leggerezza di racconto festoso. Che bella atmosfera di gioia vi si respira, abbandonandosi alla semplice lettura! Siamo invitati ad una festa di nozze e accanto a noi ci sono Maria, Gesù ed i suoi primi discepoli. Ad un certo punto qualcuno si accorge che è venuto a mancare il vino: è Maria che, nella sua umana e materna tenerezza, se ne preoccupa e lo comunica al figlio: “Non hanno vino!”
Cosa significa? Sta per mancare l’elemento fondamentale perché la festa continui e la gioia raggiunga il cuore di tutti! Maria, nell’accorgersi della mancanza, avverte, nella sua sensibilità, il rischio che la festa finisca all’improvviso, come tante cose umane, con mortificazione degli sposi e delusione generale, e non si rassegna: c’è Gesù e non può accadere che la gioia svapori! Gesù, nella sua assoluta indipendenza e libertà dai rapporti famigliari (Mc.3,31), oppone una blanda resistenza ad agire, avvertendo la madre che non è ancora la sua ora. Eppure, Egli è già proiettato nella sua dimensione pubblica e subito passa ad ordinare ai servi di riempire sei grandissime giare di acqua e poi di attingere e portare l’acqua, ormai trasformata in vino, al Maestro di tavola. Restiamo stupiti come mai Gesù non faccia nulla di straordinario, nessun gesto che renda comprensibile la trasformazione dell’acqua in vino. Egli si è limitato a parlare ai servi. Dalla sua sola parola scaturisce la mutazione dell’acqua in vino e per di più in vino buono, quello che nelle feste si offre per primo, perché poi chi ha già bevuto non si rende conto se il rimanente vino sia di qualità o no.
Maria in questa trasformazione ha fatto la sua parte: ha avvertito il desiderio di prolungare la gioia della festa, ha esortato i servi ad obbedire alla Parola di Gesù, ad avere totale fiducia in Lui e sicuramente il suo cuore si è rasserenato all’intervento del Figlio ed ha continuato a godere di quella festa. Dalla Parola di Gesù e dalla Fiducia dei servi abbiamo avuto garantito il gioioso banchetto nuziale! Ecco perché nelle celebrazioni matrimoniali dei nostri giorni questo brano diventa messaggio di felicità duratura agli sposi e invito alla gioia di tutti i partecipanti. Ma adesso andiamo in profondità! Cos’è questo banchetto di nozze senza gli sposi? Sì, un’astratta immagine di sposo forse c’è nello sfondo, cui si rivolge il Maestro di tavola, ma dobbiamo piuttosto trovarlo in concreto fuori dal semplice racconto, nello spirito del Vangelo giovanneo dove lo sposo è GESU’ (Gv.3,29 ed anche Mc.2,19). Ed è Lui il protagonista di queste nozze, insieme a Maria ed ai servi/discepoli. La voce fuori campo del Maestro di tavola (il Padre?) è a Lui che rivolge il suo stupore ed il suo compiacimento.
In questa prima settimana della vita pubblica, narrata da Giovanni, Gesù si sta manifestando nella sua santità e gloria al mondo degli uomini. Lo ha fatto nel Battesimo al di là del Giordano con la testimonianza del Battista; lo fa ancora qui a Cana, minuscolo paese della Galilea: luoghi decentrati, senza storia. Anche negli altri Vangeli Gesù si manifesta ad un mondo umano rappresentato da povera gente emarginata (i Pastori Lc.2,15-16), da stranieri (i Magi Mt.2,1-2; 2,9-11)), da un’anonima folla vagante nel deserto dietro un Profeta (Mc.1,5). A Cana il mondo degli uomini è rappresentato da un piccolo gruppo di invitati a nozze, gente comune, di periferia. A queste piccole realtà Gesù rivela la sua gloria, dona la sua grazia, comunica la sua gioia. Forse ci aspetteremmo qualcosa di più appariscente nel nostro essere attratti sempre dalle apparenze! E invece Dio si manifesta nel poco e nel piccolo e ci insegna a guardare l’essenza delle cose, riservandoci al DOPO la vera immagine della sua Grandezza e Bellezza che non sono contemplabili da occhi umani. Ma non è ancora l’ora per il mondo!
Come non era ancora l’ora di Gesù, quando Maria gli sussurra quella mancanza/desiderio. A quale ora poteva alludere Gesù se non a quella drammatica della sua morte/glorificazione (Gv.17, 1 e 13,31), del compimento del suo ministero in obbedienza ai piani del Padre? Sarà quella l’ora dell’ultimo banchetto (Mt.26,27-28) con i suoi più intimi compagni ai quali rivelerà come il vino che stanno bevendo è il suo sangue, donato per la salvezza di tutta l’umanità. Quello sarà infatti il vino buono che nel mistero dell’Eucaristia potrà essere gustato finché ci sarà vita su questa terra. Ecco perché alle nozze di Cana la quantità infinita della grazia di Gesù è simbolicamente rappresentata dalle sei grandi anfore di pietra destinate alla purificazione rituale dei Giudei.
L’enorme quantità d’acqua che quelle anfore potevano contenere serviva solo a togliere impurità, ma non può che rappresentare una parziale anticipazione della incommensurabile capacità di Misericordia che scaturisce dalla Comunione con Cristo che sostituisce all’atto di purificazione la sovrabbondanza della sua Grazia. Questa allora la nostra speranza: entrare con Lui nel Regno del Padre e partecipare alle sue Nozze nell’infinito e inesauribile banchetto che attende tutti coloro che, sotto la guida della sua dolcissima Madre, vivono nell’ascolto e nella fede nella sua Parola: “Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel Regno del Padre mio” (Mt.26,28).
Vanna
Comunità Kairos
II domenica
Tempo ordinario, Anno C
Letture: Isaia 62,1-5; Salmo 96; Prima lettera ai Corinzi 12,4-11; Giovanni 2,1-11
Festa un po’ strana, quella di Cana di Galilea: lo sposo è del tutto marginale, la sposa neppure nominata; protagonisti sono due invitati, e alcuni ragazzi che servono ai tavoli. Il punto che cambia la direzione del racconto è il vino che viene a mancare. Il vino nella Bibbia è il simbolo dell’amore. E il banchetto che è andato in crisi racconta, in metafora, la crisi dell’amore tra Dio e l’umanità, un rapporto che si va esaurendo stancamente, come il vino nelle anfore. Occorre qualcosa di nuovo. Vi erano là sei anfore di pietra… Occorre riempirle d’altro, finirla con la religione dei riti esterni, del lavarsi le mani come se ne venisse lavato il cuore; occorre vino nuovo: passare dalla religione dell’esteriorità a quella dell’interiorità, dell’amore che ti fa fare follie, che fa nascere il canto e la danza, come un vino buono, inatteso, abbondante, che fa il cuore ubriaco di gioia (Salmo 104,15).
Il Vangelo chiama questo il “principe dei segni”, il capostipite di tutti: se capiamo Cana, capiamo gran parte del Vangelo. A Cana è il volto nuovo di Dio che appare: un Dio inatteso, colto nelle trame festose di un pranzo nuziale; che al tempio preferisce la casa; che si fa trovare non nel santuario, nel deserto, sul monte, ma a tavola. E prende parte alla gioia degli uomini, la approva, si allea con loro, con l’umanissima, fisica, sensibile gioia di vivere; con il nudo, semplice, vero piacere di amare; che preferisce figli felici a figli obbedienti, come ogni padre e madre. Il nostro cristianesimo che ha subito un battesimo di tristezza, a Cana riceve un battesimo di gioia. Maria vive con attenzione ciò che accade attorno a lei, con quella «attenzione che è già una forma di preghiera» (S. Weil): «non hanno più vino».
Notiamo le parole precise. Non già: è finito il vino; ma loro, i due ragazzi, non hanno più vino, sta per spegnersi la loro festa. Prima le persone. E alla risposta brusca di Gesù, Maria rilancia: qualunque cosa vi dica, fatela! Sono le sue ultime parole, poi non parlerà più: Fate il suo Vangelo! Non solo ascoltatelo, ma fatelo, rendetelo gesto e corpo, sangue e carne. E si riempiranno le anfore vuote del cuore. E si trasformerà la vita da vuota a piena, da spenta a fiorita. Il mio Gesù è il rabbi che amava i banchetti, che soccorre i poveri di pane e i poveri di vino. Il Dio in cui credo è il Dio di Gesù, quello delle nozze di Cana; il Dio della festa e del gioioso amore danzante; credo in un Dio felice, che sta dalla parte del vino migliore, del profumo di nardo prezioso, dalla parte della gioia: la felicità di questa vita si pesa sul dare e sul ricevere amore.
Ermes Ronchi
Avvenire
Le molte esegesi del Vangelo di Giovanni ci hanno insegnato ed esortato a non fermarci alla lettera del testo, ma ad andare in profondità, per cogliere e gustare il senso riposto dietro la semplice narrazione di un incontro, di un accadimento che abbia per protagonista Gesù di Nazareth. Anche leggendo questo brano, percepiamo subito che dietro il segno della trasformazione operata da Gesù ci sono riferimenti alla sua divina natura, alla sua missione salvifica, alla sua santità. Tuttavia, mi è sempre sembrato affascinante questo brano anche nella sua leggerezza di racconto festoso. Che bella atmosfera di gioia vi si respira, abbandonandosi alla semplice lettura! Siamo invitati ad una festa di nozze e accanto a noi ci sono Maria, Gesù ed i suoi primi discepoli. Ad un certo punto qualcuno si accorge che è venuto a mancare il vino: è Maria che, nella sua umana e materna tenerezza, se ne preoccupa e lo comunica al figlio: “Non hanno vino!”
Cosa significa? Sta per mancare l’elemento fondamentale perché la festa continui e la gioia raggiunga il cuore di tutti! Maria, nell’accorgersi della mancanza, avverte, nella sua sensibilità, il rischio che la festa finisca all’improvviso, come tante cose umane, con mortificazione degli sposi e delusione generale, e non si rassegna: c’è Gesù e non può accadere che la gioia svapori! Gesù, nella sua assoluta indipendenza e libertà dai rapporti famigliari (Mc.3,31), oppone una blanda resistenza ad agire, avvertendo la madre che non è ancora la sua ora. Eppure, Egli è già proiettato nella sua dimensione pubblica e subito passa ad ordinare ai servi di riempire sei grandissime giare di acqua e poi di attingere e portare l’acqua, ormai trasformata in vino, al Maestro di tavola. Restiamo stupiti come mai Gesù non faccia nulla di straordinario, nessun gesto che renda comprensibile la trasformazione dell’acqua in vino. Egli si è limitato a parlare ai servi. Dalla sua sola parola scaturisce la mutazione dell’acqua in vino e per di più in vino buono, quello che nelle feste si offre per primo, perché poi chi ha già bevuto non si rende conto se il rimanente vino sia di qualità o no.
Maria in questa trasformazione ha fatto la sua parte: ha avvertito il desiderio di prolungare la gioia della festa, ha esortato i servi ad obbedire alla Parola di Gesù, ad avere totale fiducia in Lui e sicuramente il suo cuore si è rasserenato all’intervento del Figlio ed ha continuato a godere di quella festa. Dalla Parola di Gesù e dalla Fiducia dei servi abbiamo avuto garantito il gioioso banchetto nuziale! Ecco perché nelle celebrazioni matrimoniali dei nostri giorni questo brano diventa messaggio di felicità duratura agli sposi e invito alla gioia di tutti i partecipanti. Ma adesso andiamo in profondità! Cos’è questo banchetto di nozze senza gli sposi? Sì, un’astratta immagine di sposo forse c’è nello sfondo, cui si rivolge il Maestro di tavola, ma dobbiamo piuttosto trovarlo in concreto fuori dal semplice racconto, nello spirito del Vangelo giovanneo dove lo sposo è GESU’ (Gv.3,29 ed anche Mc.2,19). Ed è Lui il protagonista di queste nozze, insieme a Maria ed ai servi/discepoli. La voce fuori campo del Maestro di tavola (il Padre?) è a Lui che rivolge il suo stupore ed il suo compiacimento.
In questa prima settimana della vita pubblica, narrata da Giovanni, Gesù si sta manifestando nella sua santità e gloria al mondo degli uomini. Lo ha fatto nel Battesimo al di là del Giordano con la testimonianza del Battista; lo fa ancora qui a Cana, minuscolo paese della Galilea: luoghi decentrati, senza storia. Anche negli altri Vangeli Gesù si manifesta ad un mondo umano rappresentato da povera gente emarginata (i Pastori Lc.2,15-16), da stranieri (i Magi Mt.2,1-2; 2,9-11)), da un’anonima folla vagante nel deserto dietro un Profeta (Mc.1,5). A Cana il mondo degli uomini è rappresentato da un piccolo gruppo di invitati a nozze, gente comune, di periferia. A queste piccole realtà Gesù rivela la sua gloria, dona la sua grazia, comunica la sua gioia. Forse ci aspetteremmo qualcosa di più appariscente nel nostro essere attratti sempre dalle apparenze! E invece Dio si manifesta nel poco e nel piccolo e ci insegna a guardare l’essenza delle cose, riservandoci al DOPO la vera immagine della sua Grandezza e Bellezza che non sono contemplabili da occhi umani. Ma non è ancora l’ora per il mondo!
Come non era ancora l’ora di Gesù, quando Maria gli sussurra quella mancanza/desiderio. A quale ora poteva alludere Gesù se non a quella drammatica della sua morte/glorificazione (Gv.17, 1 e 13,31), del compimento del suo ministero in obbedienza ai piani del Padre? Sarà quella l’ora dell’ultimo banchetto (Mt.26,27-28) con i suoi più intimi compagni ai quali rivelerà come il vino che stanno bevendo è il suo sangue, donato per la salvezza di tutta l’umanità. Quello sarà infatti il vino buono che nel mistero dell’Eucaristia potrà essere gustato finché ci sarà vita su questa terra. Ecco perché alle nozze di Cana la quantità infinita della grazia di Gesù è simbolicamente rappresentata dalle sei grandi anfore di pietra destinate alla purificazione rituale dei Giudei.
L’enorme quantità d’acqua che quelle anfore potevano contenere serviva solo a togliere impurità, ma non può che rappresentare una parziale anticipazione della incommensurabile capacità di Misericordia che scaturisce dalla Comunione con Cristo che sostituisce all’atto di purificazione la sovrabbondanza della sua Grazia. Questa allora la nostra speranza: entrare con Lui nel Regno del Padre e partecipare alle sue Nozze nell’infinito e inesauribile banchetto che attende tutti coloro che, sotto la guida della sua dolcissima Madre, vivono nell’ascolto e nella fede nella sua Parola: “Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel Regno del Padre mio” (Mt.26,28).
Vanna
Comunità Kairos