Letture: Giosuè 5, 9-12; Salmo 33; 2 Corinzi 5, 17-21; Luca 15, 1-3.11-32
La parabola più famosa, più bella, più spiazzante, si articola in quattro sequenze narrative. Prima scena. Un padre aveva due figli. Un incipit che causa subito tensione: nel Libro le storie di fratelli non sono mai facili, spesso raccontano di violenza e di menzogne. E sullo sfondo il dolore muto dei genitori, di questo padre così diverso: non ostacola la decisione del ragazzo; lo dà in sposo alla sua propria libertà, e come dote non dovuta cede la metà dei beni di famiglia.
Secondo quadro. Il giovane inizia il viaggio della vita, ma le sue scelte sbagliate (sperperò il denaro vivendo da dissoluto) producono una perdita di umanità: il principe sognatore diventa servo, un porcaio che ruba ghiande per sopravvivere. Allora rientra in sé, e rivede la casa del padre, la sente profumare di pane. Ci sono persone nel mondo con così tanta fame che per loro Dio (o il padre) non può che avere la forma di un pane (Gandhi). Decide di tentare, non chiederà di essere il figlio di ieri, ma uno dei servi di adesso: trattami come un salariato! Non osa più cercare un padre, cerca solo un buon padrone. Non torna perché ha capito, torna per fame. Non per amore, ma per la morte che gli cammina a fianco paziente.
Terza sequenza. Il ritmo della storia cambia, l’azione si fa incalzante. Il figlio si incammina e il padre, che è attesa eternamente aperta, lo vede che era ancora lontano e gli corre incontro. L’uomo cammina, Dio corre. L’uomo si avvia, Dio è già arrivato. E ha già perdonato in anticipo di essere come siamo, prima ancora che apriamo bocca. Il tempo dell’amore è prevenire, buttare le braccia al collo, fretta di carezze dopo la lunga lontananza. Non domanda: da dove vieni, ma: dove sei diretto? Non chiede: perché l’hai fatto? ma: vuoi ricostruire la casa? La Bibbia sembra preferire storie di ricomposizione a storie di fedeltà infrangibile. Non ci sono personaggi perfetti nella Bibbia, il Libro è pieno di gente raccolta dalle paludi, dalle ceneri, da una cisterna nel deserto, da un ramo di sicomoro, e delle loro ripartenze sotto il vento di Dio.
L’ultima scena si svolge attorno a un altro figlio, che non sa sorridere, che non ha la musica dentro, che pesa e misura tutto con un cuore mercenario. Ma il padre, che vuole figli intorno e non servi, esce e lo prega, con dolcezza, di entrare: vieni, è in tavola la vita. E la modernità di un finale aperto. È giusto il padre della parabola? Dio è così? Così eccessivo, così tanto, così oltre? Sì, immensa rivelazione per cui Gesù darà la vita: Dio è amore, esclusivamente amore. L’amore non è giusto, è sempre oltre, centuplo, eccedenza. Ma è proprio questo il Dio di Gesù, il Dio che mi innamora.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Questa quarta domenica di Quaresima è chiamata domenica Laetare. In tale giornata, secondo le regole dei colori liturgici, nella Chiesa cattolica è possibile utilizzare, invece del viola normalmente utilizzato durante la Quaresima, il colore rosa nei paramenti liturgici, possibile solo in questo giorno e nella domenica Gaudete in Avvento. Orbene, il Vangelo di questa domenica ci propone una delle parabole più note: la parabola del figliol prodigo conosciuta anche come parabola del Padre misericordioso.
Il brano evangelico che la contiene inizia in questo modo: «Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”». Allora Gesù disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze». È da notare che il figlio giovane, chiedendo al padre la propria parte di eredità, è come se lo dichiarasse morto; il padre, invece, davanti alla richiesta del figlio, non si oppone, non lo punisce, anzi lo lascia libero e gli permette che si allontani da casa. E così il giovane, annota l’evangelista, «Pochi giorni dopo, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto». Notiamo che la via imboccata dal giovane si rivela fallimentare. Ha perso tutto, ha toccato il fondo, si accorge di aver dissipato tutto stupidamente. Non avendo più niente e trovandosi nel bisogno, si vede costretto a pascolare i porci (animali impuri per eccellenza, per gli ebrei).
«Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci». La degradazione e la fame fanno nascere la nostalgia dell’aria di casa e il desiderio di farvi ritorno, non più da figlio, ma almeno da servo, pur di respirare quell’aria e avere di che vivere decentemente. Il giovane, dunque, «ritornò in sé». Non sappiamo se il giovane sia pentito, dato che la sua presa di coscienza dipende dalla sua condizione penosa, e non sappiamo neppure se la consapevolezza di aver perso l’identità di figlio e di non poterla recuperare per qualche merito sia sincera oppure semplicemente un tentativo di commuovere il padre, pur di ottenere cibo e alloggio: «Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Questo figlio, però, che ragiona in una logica di giustizia retributiva, davvero non conosce il cuore del padre che, da parte sua, lo ha già perdonato.
E qui la parabola arriva al suo apice: «Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Il padre, dunque, lo sta aspettando e quando arriva, sporco e maleodorante, lo abbraccia, lo bacia prima ancora che lui parli. Poi il padre ordina ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Travolto da questa misericordia sovrabbondante, il figlio riesce solo a dire poche delle parole che si era preparato: è in questo momento che egli comprende che il padre non solo l’ha sempre atteso, ma lo ha amato anche quando lui lo ha abbandonato. Il padre non verifica se il figlio è pentito, lo accoglie, lo perdona e fa festa. Dio, dunque, scrive san Paolo, «non ama il peccato degli uomini, ma ci ama nel nostro peccato, ci ama mentre noi siamo suoi nemici» (cf Rm 5, 6-10).
La parabola potrebbe finire qui, ma Gesù vuole rivelarci anche la reazione del fratello maggiore, il quale si dimostra incapace quanto l’altro di comprendere l’amore del padre. Egli è rimasto a casa, non ha mai trasgredito un comando del padre. Ora è adirato, non comprende e non si capacita che il padre possa fare festa per suo fratello, «questo tuo figlio» egli lo chiama. Questa espressione sottolinea il disprezzo verso suo fratello. Il padre, però, annota Luca, «uscì a supplicarlo», pregandolo di entrare alla festa: «bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Ebbene, l’atteggiamento dei due fratelli è un invito a verificare la nostra risposta alla misericordia del Padre. Siamo noi disposti a convertirci, a chiedere perdono e a riconciliarci con Dio? Siamo consapevoli che Dio ci ama teneramente ed immensamente? Siamo pronti ad accogliere nel nostro cuore la sua inesauribile misericordia? Nel Padre nostro ci rivolgiamo a Dio dicendo: «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Dio perdona sempre le nostre colpe, e noi ci sforziamo di perdonare i nostri fratelli? Chiediamo al Signore che ci aiuti a non vivere chiusi nei nostri risentimenti ma ad aprirci all’accoglienza verso il prossimo affinché possiamo rallegrarci in Lui.
Don Lucio D’Abbraccio
IV domenica di Quaresima
Anno C
Letture: Giosuè 5, 9-12; Salmo 33; 2 Corinzi 5, 17-21; Luca 15, 1-3.11-32
La parabola più famosa, più bella, più spiazzante, si articola in quattro sequenze narrative. Prima scena. Un padre aveva due figli. Un incipit che causa subito tensione: nel Libro le storie di fratelli non sono mai facili, spesso raccontano di violenza e di menzogne. E sullo sfondo il dolore muto dei genitori, di questo padre così diverso: non ostacola la decisione del ragazzo; lo dà in sposo alla sua propria libertà, e come dote non dovuta cede la metà dei beni di famiglia.
Secondo quadro. Il giovane inizia il viaggio della vita, ma le sue scelte sbagliate (sperperò il denaro vivendo da dissoluto) producono una perdita di umanità: il principe sognatore diventa servo, un porcaio che ruba ghiande per sopravvivere. Allora rientra in sé, e rivede la casa del padre, la sente profumare di pane. Ci sono persone nel mondo con così tanta fame che per loro Dio (o il padre) non può che avere la forma di un pane (Gandhi). Decide di tentare, non chiederà di essere il figlio di ieri, ma uno dei servi di adesso: trattami come un salariato! Non osa più cercare un padre, cerca solo un buon padrone. Non torna perché ha capito, torna per fame. Non per amore, ma per la morte che gli cammina a fianco paziente.
Terza sequenza. Il ritmo della storia cambia, l’azione si fa incalzante. Il figlio si incammina e il padre, che è attesa eternamente aperta, lo vede che era ancora lontano e gli corre incontro. L’uomo cammina, Dio corre. L’uomo si avvia, Dio è già arrivato. E ha già perdonato in anticipo di essere come siamo, prima ancora che apriamo bocca. Il tempo dell’amore è prevenire, buttare le braccia al collo, fretta di carezze dopo la lunga lontananza. Non domanda: da dove vieni, ma: dove sei diretto? Non chiede: perché l’hai fatto? ma: vuoi ricostruire la casa? La Bibbia sembra preferire storie di ricomposizione a storie di fedeltà infrangibile. Non ci sono personaggi perfetti nella Bibbia, il Libro è pieno di gente raccolta dalle paludi, dalle ceneri, da una cisterna nel deserto, da un ramo di sicomoro, e delle loro ripartenze sotto il vento di Dio.
L’ultima scena si svolge attorno a un altro figlio, che non sa sorridere, che non ha la musica dentro, che pesa e misura tutto con un cuore mercenario. Ma il padre, che vuole figli intorno e non servi, esce e lo prega, con dolcezza, di entrare: vieni, è in tavola la vita. E la modernità di un finale aperto. È giusto il padre della parabola? Dio è così? Così eccessivo, così tanto, così oltre? Sì, immensa rivelazione per cui Gesù darà la vita: Dio è amore, esclusivamente amore. L’amore non è giusto, è sempre oltre, centuplo, eccedenza. Ma è proprio questo il Dio di Gesù, il Dio che mi innamora.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Questa quarta domenica di Quaresima è chiamata domenica Laetare. In tale giornata, secondo le regole dei colori liturgici, nella Chiesa cattolica è possibile utilizzare, invece del viola normalmente utilizzato durante la Quaresima, il colore rosa nei paramenti liturgici, possibile solo in questo giorno e nella domenica Gaudete in Avvento. Orbene, il Vangelo di questa domenica ci propone una delle parabole più note: la parabola del figliol prodigo conosciuta anche come parabola del Padre misericordioso.
Il brano evangelico che la contiene inizia in questo modo: «Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”». Allora Gesù disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze». È da notare che il figlio giovane, chiedendo al padre la propria parte di eredità, è come se lo dichiarasse morto; il padre, invece, davanti alla richiesta del figlio, non si oppone, non lo punisce, anzi lo lascia libero e gli permette che si allontani da casa. E così il giovane, annota l’evangelista, «Pochi giorni dopo, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto». Notiamo che la via imboccata dal giovane si rivela fallimentare. Ha perso tutto, ha toccato il fondo, si accorge di aver dissipato tutto stupidamente. Non avendo più niente e trovandosi nel bisogno, si vede costretto a pascolare i porci (animali impuri per eccellenza, per gli ebrei).
«Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci». La degradazione e la fame fanno nascere la nostalgia dell’aria di casa e il desiderio di farvi ritorno, non più da figlio, ma almeno da servo, pur di respirare quell’aria e avere di che vivere decentemente. Il giovane, dunque, «ritornò in sé». Non sappiamo se il giovane sia pentito, dato che la sua presa di coscienza dipende dalla sua condizione penosa, e non sappiamo neppure se la consapevolezza di aver perso l’identità di figlio e di non poterla recuperare per qualche merito sia sincera oppure semplicemente un tentativo di commuovere il padre, pur di ottenere cibo e alloggio: «Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Questo figlio, però, che ragiona in una logica di giustizia retributiva, davvero non conosce il cuore del padre che, da parte sua, lo ha già perdonato.
E qui la parabola arriva al suo apice: «Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Il padre, dunque, lo sta aspettando e quando arriva, sporco e maleodorante, lo abbraccia, lo bacia prima ancora che lui parli. Poi il padre ordina ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Travolto da questa misericordia sovrabbondante, il figlio riesce solo a dire poche delle parole che si era preparato: è in questo momento che egli comprende che il padre non solo l’ha sempre atteso, ma lo ha amato anche quando lui lo ha abbandonato. Il padre non verifica se il figlio è pentito, lo accoglie, lo perdona e fa festa. Dio, dunque, scrive san Paolo, «non ama il peccato degli uomini, ma ci ama nel nostro peccato, ci ama mentre noi siamo suoi nemici» (cf Rm 5, 6-10).
La parabola potrebbe finire qui, ma Gesù vuole rivelarci anche la reazione del fratello maggiore, il quale si dimostra incapace quanto l’altro di comprendere l’amore del padre. Egli è rimasto a casa, non ha mai trasgredito un comando del padre. Ora è adirato, non comprende e non si capacita che il padre possa fare festa per suo fratello, «questo tuo figlio» egli lo chiama. Questa espressione sottolinea il disprezzo verso suo fratello. Il padre, però, annota Luca, «uscì a supplicarlo», pregandolo di entrare alla festa: «bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Ebbene, l’atteggiamento dei due fratelli è un invito a verificare la nostra risposta alla misericordia del Padre. Siamo noi disposti a convertirci, a chiedere perdono e a riconciliarci con Dio? Siamo consapevoli che Dio ci ama teneramente ed immensamente? Siamo pronti ad accogliere nel nostro cuore la sua inesauribile misericordia? Nel Padre nostro ci rivolgiamo a Dio dicendo: «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Dio perdona sempre le nostre colpe, e noi ci sforziamo di perdonare i nostri fratelli? Chiediamo al Signore che ci aiuti a non vivere chiusi nei nostri risentimenti ma ad aprirci all’accoglienza verso il prossimo affinché possiamo rallegrarci in Lui.
Don Lucio D’Abbraccio