Letture: Malachia 3,1-4; Salmo 23; Ebrei 2,14-18; Luca 2,22-40
A furia di tenere gli occhi bene aperti non si riesce a star fermi, si viene mossi, spinti, urtati verso quel che si aspetta e appena si intravede. Occhi spalancati di giorno e di notte, perché le promesse sono promesse e quel Dio non può deludere: Dio è fedele, molto più di noi e Simeone lo sa, per questo è detto «uomo giusto e pio». Forse lo ha cercato dappertutto, senza mai smettere di aspettarlo quel Messia che gli era stato promesso; forse non vedeva l’ora di trovarlo perché ormai era “sazio di giorni”, stanco di quella stanchezza piena, compiuta, di una vita spesa bene, una vita intera a desiderare Dio.
Aspettava il compimento, il vecchio Simeone, aspettava di riconoscere il Messia. E chissà se se l’era immaginato così quel Messia, un Bambino da stringere tra le braccia, un Bambino che per tutti gli altri non era altro che un bambino, ma che per occhi che desiderano vedere diventa il volto di Dio. Occhi che hanno saputo aspettare. Come l’avrà tenuto tra le braccia il vecchio Simeone quel Bambino? Lo avrà stretto sul cuore, guardandolo stupito? Avrà avuto paura di fargli male?
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Don Luigi Verdi
Questo passo del Vangelo presenta un uomo, Simeone, la cui vita è stata definita dall’attesa della venuta di Gesù. Oggigiorno tendiamo a vedere l’attesa come un problema da risolvere. Le stagioni sono troppo lente per noi, il raccolto viene inviato in tutto il mondo per soddisfare i nostri appetiti. Andare nei negozi è troppo lento, quindi ordiniamo su Amazon; inviare lettere scritte a mano per posta è troppo lento, quindi inviamo e-mail o messaggi di testo; incontrarsi di persona è troppo lento, quindi usiamo Zoom. (Praticamente tutti i nostri porgessi tecnologici sono orientati a rendere le cose più veloci, più facili, meno frizionali). Spesso siamo multitasking, come se il tempo stesso fosse un intralcio, bisognoso di moltiplicazione.
Attendere non è essenzialmente male e nemmeno essenzialmente bene. Ci sono molte ragioni per essere grati della comodità offerta dalla tecnologia. Ed è ancora più chiaro che non dovremmo aspettare che la malattia curi se stessa, che l’arco della giustizia si pieghi o che la sofferenza faccia il suo corso. Il progresso esige impazienza. E tuttavia, le qualità che definiscono l’attesa — tolleranza, perseveranza durante i cambiamenti, fede — sono le stesse che definiscono l’amore. Come l’amore, l’attesa richiede di essere appresa e praticata.
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Jonathan Safran Foer
Presentazione del Signore
Tempo ordinario, Anno C
Letture: Malachia 3,1-4; Salmo 23; Ebrei 2,14-18; Luca 2,22-40
A furia di tenere gli occhi bene aperti non si riesce a star fermi, si viene mossi, spinti, urtati verso quel che si aspetta e appena si intravede. Occhi spalancati di giorno e di notte, perché le promesse sono promesse e quel Dio non può deludere: Dio è fedele, molto più di noi e Simeone lo sa, per questo è detto «uomo giusto e pio». Forse lo ha cercato dappertutto, senza mai smettere di aspettarlo quel Messia che gli era stato promesso; forse non vedeva l’ora di trovarlo perché ormai era “sazio di giorni”, stanco di quella stanchezza piena, compiuta, di una vita spesa bene, una vita intera a desiderare Dio.
Aspettava il compimento, il vecchio Simeone, aspettava di riconoscere il Messia. E chissà se se l’era immaginato così quel Messia, un Bambino da stringere tra le braccia, un Bambino che per tutti gli altri non era altro che un bambino, ma che per occhi che desiderano vedere diventa il volto di Dio. Occhi che hanno saputo aspettare. Come l’avrà tenuto tra le braccia il vecchio Simeone quel Bambino? Lo avrà stretto sul cuore, guardandolo stupito? Avrà avuto paura di fargli male?
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Don Luigi Verdi
Questo passo del Vangelo presenta un uomo, Simeone, la cui vita è stata definita dall’attesa della venuta di Gesù. Oggigiorno tendiamo a vedere l’attesa come un problema da risolvere. Le stagioni sono troppo lente per noi, il raccolto viene inviato in tutto il mondo per soddisfare i nostri appetiti. Andare nei negozi è troppo lento, quindi ordiniamo su Amazon; inviare lettere scritte a mano per posta è troppo lento, quindi inviamo e-mail o messaggi di testo; incontrarsi di persona è troppo lento, quindi usiamo Zoom. (Praticamente tutti i nostri porgessi tecnologici sono orientati a rendere le cose più veloci, più facili, meno frizionali). Spesso siamo multitasking, come se il tempo stesso fosse un intralcio, bisognoso di moltiplicazione.
Attendere non è essenzialmente male e nemmeno essenzialmente bene. Ci sono molte ragioni per essere grati della comodità offerta dalla tecnologia. Ed è ancora più chiaro che non dovremmo aspettare che la malattia curi se stessa, che l’arco della giustizia si pieghi o che la sofferenza faccia il suo corso. Il progresso esige impazienza. E tuttavia, le qualità che definiscono l’attesa — tolleranza, perseveranza durante i cambiamenti, fede — sono le stesse che definiscono l’amore. Come l’amore, l’attesa richiede di essere appresa e praticata.
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Jonathan Safran Foer