V domenica di Pasqua

Anno C

Letture: Atti 14,21b-27; Salmo 144; Apocalisse 21,1-5a; Giovanni 13,31-33a.34-35

Se cerchiamo la firma inconfondibile di Gesù, il suo marchio esclusivo, lo troviamo in queste parole. Pochi versetti, registrati durante l’ultima cena, quando per l’unica volta nel vangelo, Gesù dice ai suoi discepoli: «Figlioli», usa una parola speciale, affettuosa, carica di tenerezza: figliolini, bambini miei. «Vi do un comandamento nuovo: come io ho amato voi così amatevi anche voi gli uni gli altri». Parole infinite, in cui ci addentriamo come in punta di cuore, trattenendo il fiato. Amare. Ma che cosa vuol dire amare, come si fa? Dietro alle nostre balbuzie amorose c’è la perdita di contatto con lui, con Gesù. Ci aiuta il vangelo di oggi. La Bibbia è una biblioteca sull’arte di amare. E qui siamo forse al capitolo centrale. E infatti ecco Gesù aggiungere: amatevi come io ho amato voi.

L’amore ha un come, prima che un ciò, un oggetto. La novità è qui, non nel verbo, ma nell’avverbio. Gesù non dice semplicemente «amate». Non basta amare, potrebbe essere solo una forma di dipendenza dall’altro, o paura dell’abbandono, un amore che utilizza il partner, oppure fatto solo di sacrifici. Esistono anche amori violenti e disperati. Amori tristi e perfino distruttivi. Come io ho amato voi. Gesù usa i verbi al passato: guardate a quello che ho fatto, non parla al futuro, non della croce che pure già si staglia, parla di cronaca vissuta. Appena vissuta. Siamo nella cornice dell’Ultima Cena, quando Gesù, nella sua creatività, inventa gesti mai visti: il Maestro che lava i piedi nel gesto dello schiavo o della donna. Offre il pane anche a Giuda, che lo ha preso ed è uscito. E sprofonda nella notte. Dio è amore che si offre anche al traditore, e fino all’ultimo lo chiama amico. Non è amore sentimentale quello di Gesù, lui è il racconto inedito della tenerezza del Padre; ama con i fatti, con le sue mani, concretamente: lo fa per primo, in perdita, senza contare.

È amore intelligente, che vede prima, più a fondo, più lontano. In Simone di Giovanni, il pescatore, vede la Roccia; in Maria di Magdala, la donna dei sette demoni, intuisce colei che parlerà con gli angeli; dentro Zaccheo, il ladro arricchito, vede l’uomo più generoso di Gerico. Amore che legge la primavera del cuore, pur dentro i cento inverni! Che tira fuori da ciascuno il meglio di ciò che può diventare: intere fontane di speranza e libertà; tira fuori la farfalla dal bruco che credevo di essere. In che cosa consiste la gloria, evocate per cinque volte in due versetti, la gloria per ciascuno di noi? La gloria dell’uomo, e la stessa gloria si Dio consistono nell’amare. Non c’è altro di cui vantarsi. È lì il successo della vita. La sua verità. «La verità rivelata è l’amore» (P. Florenski).

P. Ermes Ronchi
Avvenire

 

Per entrare nello spirito del brano odierno bisogna ribaltare ogni logica mondana, come spesso è necessario nel Vangelo, là dove ci si trova di fronte a pagine conclusive e altamente rivelative, in particolare quando si tratta di tradurre in risposte di vita la Parola, già penetrata nel cuore attraverso l’ascolto attento. Rifiutare ogni logica mondana precede la ricerca del punto di vista di Dio, cioè di quell’infinita Forza di Amore, sorgente di Vita e di Felicità. Perché il linguaggio del brano è linguaggio di Dio, di quel Dio che si è spogliato della sua divinità per vestirsi di fragili membra umane, per vivere con un tenero cuore umano e parlare con parole umane che adombrano e rivelano il divino da cui provengono.

Quel Dio è Gesù di Nazareth che sta per giungere al compimento della volontà salvifica del Padre, col quale vive in intima unione, e sta per rinunciare, con la morte in croce, anche alla minima dignità terrena, abbracciando l’infima condizione dell’uomo tradito, rinnegato, abbandonato all’indicibile sofferenza. Con quale scopo? “Amare i propri amici fino alla fine” col dono della propria vita, che gli sarà ridata con la Resurrezione, e manifestare in mezzo agli uomini che questo è l’Amore del Padre per loro, considerati tutti, sia che appartengano al passato, al presente o al futuro, come il Suo Popolo, chiamato a condividere la Sua vita nell’eterna Gloria. Per questo Gesù proclama glorificato il Padre e si proclama glorificato dal Padre.

Giuda è appena uscito dal Cenacolo per portare a compimento il suo tragico misfatto e, nel buio della notte, si leva, sorprendentemente, il grido di giubilo di Gesù: “Ora il Figlio dell’Uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui!” Povera logica umana incapace di comprendere questo gioioso annuncio, dove il verbo glorificare, al passivo e all’attivo, viene insistentemente ripetuto! Ma Gesù che lo pronuncia è già proiettato oltre la sua morte ignominiosa e vive in anticipo il senso della sua glorificazione, perché sa, nella sua divina sapienza, che essa consiste nel trionfo dell’Amore e della Vita, grazie alla Resurrezione che il Padre sta per donargli e, per suo tramite, sta per donare a tutti gli uomini.

I Risorti alla Vita Eterna saranno, a loro volta, partecipi e fautori della Gloria di Dio: il Padre infatti non fa preparare il banchetto della gioia fino a quando non sono tornati a casa i Figli che si erano allontanati e, forse, non sono ancora entrati quelli, rimasti sempre vicini, incapaci però di comprendere la forza del suo Amore sconfinato e perdonante. Tornato alla realtà del tragico presente, Gesù chiama teneramente i suoi discepoli figlioletti, per prepararli alla sua dipartita e preannunciare quel loro vano cercare ”fra i morti, Colui che è vivo”. Il Regno di Dio è aperto per ora a Lui soltanto, ma quando Lui ne sarà la Porta, anche loro, al momento in attesa, potranno entrarvi ed abitare il posto da Lui per loro preparato.

È l’addio affettuoso e umanissimo del Figlio dell’Uomo, Messia atteso e finalmente venuto a segnare per sempre la grande svolta della Storia. Nell’addio Egli non può non lasciare un suo testamento, intessuto dello stesso Amore che gli ha fatto scegliere di nascere, vivere e morire come l’Uomo perfetto, il modello assoluto di cui nessuna creatura umana potrà replicare l’esclusiva Santità. Eppure la sua fiducia nell’uomo emerge nel comandamento nuovo, come invito dolce e affettuoso a realizzare il Sogno di Dio. Invito da intendere, più realisticamente, come visione del Regno verso il quale tutti, credenti e non credenti, siamo in cammino, senza sapere quando e come ci arriveremo, ma nessuno, spero e credo, senza una qualche certezza d’essere accolto. La novità dell’ultimo comandamento, riassuntivo di tutta la predicazione di Gesù, consiste nell’Amore scambievole e poggia, a mio avviso, la sua unicità nel “come io vi ho amato”, dove il “come” va interpretato nel suo duplice significato. Poiché certamente Gesù, che tante volte ha proposto ai discepoli una fiduciosa sequela del suo modo di vivere, non può non indicare come condizione dell’amore reciproco la stessa gratuità che aveva improntato il suo Amore per loro. Ma non è da escludere l’altra accezione di kathòs, traducibile con “siccome/dal momento che”.

Infatti solo l’Amore ricevuto da Gesù può originare nei discepoli, divenuti consapevoli, quel flusso d’amore che fa comprendere la nostra funzione di semplici anelli di una preziosissima catena di bontà che, per intervento dello Spirito, si comunica a tutti, ben oltre ogni nostro impegno morale e ben oltre ogni terrena aspettativa. È quell’essere parte di una catena, che ha Gesù come punto di partenza e di arrivo, che ci può far sentire meno inadeguati nel compiere qualche timido segno di carità o qualche sporadico gesto di perdono. È solo la percezione o la consapevolezza d’essere amati fino in fondo, senza alcun merito da parte nostra, che può farci muovere piccoli e, forse, avari passi, per donare ad altri la sovrabbondanza di quanto abbiamo ricevuto. Non so poi se, almeno fra credenti, siamo mai stati in grado di manifestare al mondo, distratto, d’essere discepoli di Gesù, e di testimoniare l’universalità del suo Amore.

Vanna
Comunità Kairos