Letture: Isaia 43,16-21; Salmo 125; Filippesi 3,8-14; Giovanni 8,1-11
Gli scribi e i farisei gli condussero una donna… la posero in mezzo, quasi non fosse una persona ma una cosa, che si prende, si porta, si mette di qua o di là, dove a loro va bene, anche a morte. Sono scribi che mettono Dio contro l’uomo, il peggio che possa capitare alla fede, lettori di una bibbia dimezzata, sordi ai profeti («dice il Signore: io non godo della morte di chi muore», Ez 18,32). La posero in mezzo. Sguardi di pietra su di lei. La paura che le sale dal cuore agli occhi, ciechi perché non hanno nessuno su cui potersi posare. Attorno a lei si è chiuso il cerchio di un tribunale di soli maschi, che si credono giusti al punto di ricoprire al tempo stesso tutti i ruoli: prima accusatori, poi giudici e infine carnefici. Chiedono a Gesù: È lecito o no uccidere in nome di Dio? Loro immaginano che Gesù dirà di no e così lo faranno cadere in trappola, mostrando che è contro la Legge, un bestemmiatore.
Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra… nella furia di parole e gesti omicidi, introduce una pausa di silenzio; non si oppone a viso aperto, li avrebbe fatti infuriare ancora di più. Poi, spiazza tutti i devoti dalla fede omicida, dicendo solo: chi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei. Peccato e pietre? Gesù scardina con poche parole limpide lo schema delitto/castigo, quello su cui abbiamo fondato le nostre paure e tanta parte dei nostri fantasmi interiori. Rimangono soli Gesù e la donna, e lui ora si alza in piedi davanti a lei, come davanti a una persona attesa e importante. E le parla. Nessuno le aveva parlato: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Neanch’io ti condanno, vai. E non le chiede di confessare la colpa, neppure le domanda se è pentita. Gesù, scrive non più per terra ma nel cuore della donna e la parola che scrive è: futuro.
Va’ e d’ora in poi non peccare più. Sette parole che bastano a cambiare una vita. Qualunque cosa quella donna abbia fatto, non rimane più nulla, cancellato, annullato, azzerato. D’ora in avanti: «Donna, tu sei capace di amare, puoi amare ancora, amare bene, amare molto. Questo tu farai…». Non le domanda che cosa ha fatto, le indica che cosa potrà fare. Lei non appartiene più al suo sbaglio, ma al suo futuro, ai semi che verranno seminati, alle persone che verranno amate. Il perdono è qualcosa che non libera il passato, fa molto di più: libera il futuro. E il bene possibile, solo possibile, di domani, conta di più del male di adesso. Nel mondo del vangelo è il bene che revoca il male, non viceversa. Il perdono è un vero dono, il solo dono che non ci farà più vittime, che non farà più vittime, né fuori né dentro noi.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Il volto di Dio che la parabola di Lc 15,11-32 ci ha rivelato nell’abbraccio accogliente del padre misericordioso (il testo evangelico della IV domenica di Quaresima) si riflette nello sguardo e nella parola che Gesù rivolge a una donna adultera in procinto di essere condannata alla lapidazione dagli scribi e dai farisei, secondo i dettami della legge mosaica. Il perdono che Gesù offre a questa donna è come una cammino rinnovato, una rigenerazione, una possibilità inaspettata di salvezza. Solo Dio ha il coraggio di dimenticare ciò che è passato e aprire «nel deserto una strada» (Is 43,19) che conduce al luogo della vita e della pace. La parola di Gesù è come un balsamo che ridà alla donna peccatrice la forza per camminare nuovamente verso la vita: «neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11). Lo sguardo di quella donna, attraverso la potenza e la gratuità del perdono, è ormai proiettato verso un futuro carico di speranza; il peccato che la tratteneva prigioniera è alle spalle, è passato, è stato consumato dalla misericordia di Gesù. Sulle labbra di quella donna si potrebbero porre le parole con cui Paolo esprime la dinamica della sua vita, ormai afferrata dall’amore di Cristo: «dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta… mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo» (Fil 3,12-14).
Il racconto di Gv 8,1-11 è realmente una parabola che ci rivela la capacità di Dio di creare e rinnovare la vita dell’uomo. La promessa di Dio ai deportati di Israele a Babilonia, riportata nel testo di Isaia (prima lettura), trova come una realizzazione personale nel cammino di vita che Gesù apre a una donna peccatrice: «Non ricordate più le cose passate – dice il Signore attraverso il suo profeta – non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova» (Is 43,18-19). E sotto il segno della novità è, infatti, tutto l’episodio dell’incontro di Gesù con la donna adultera. Sorprendentemente questa pericope, inserita nel racconto di Giovanni, ma mancante in molti manoscritti del quarto vangelo, ci è stata conservata come un racconto a se stante, irriducibile alle tradizioni evangeliche che noi conosciamo. Pur presentando agganci con lo stile narrativo di Luca (si pensi all’episodio quasi speculare dell’incontro di Gesù con la peccatrice nella casa di Simone in Lc 7,36-50), questo racconto è carico di originalità, nella forma, ma soprattutto nel contenuto. E probabilmente il comportamento di Gesù è apparso scandaloso alla stessa comunità cristiana, se ha faticato a inserirlo nel canone dei vangeli.
Certamente, in questo racconto si cammina sul filo del rasoio. Si ha quasi l’impressione che la gravità di un comportamento moralmente negativo non venga presa in seria considerazione dalle parole di Gesù. Ma tutto, in questo racconto, conduce a un luogo di rivelazione: il cuore di Dio colmo di compassione. Si può allora dire – e questo di per sé è già un messaggio fondamentale – che l’agire inaudito di Gesù, il perdono e la misericordia che emergono nell’incontro con i peccatori, sono il riflesso di quel volto di Dio a cui la stessa comunità cristiana è chiamata a convertirsi. Il testo di Gv 8 diventa come una icona che deve plasmare e motivare non solo il cammino personale di conversione, ma la prassi ecclesiale di fronte a ogni peccatore. Anche la comunità dei credenti deve incessantemente mettersi alla scuola di Colui che ha detto : «voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno» (Gv 8,15).
Possiamo cogliere il centro del racconto proprio a partire da Gesù, dal suo sguardo su coloro che gli stanno di fonte (gli scribi, i farisei, la donna adultera), dalle sue parole, dai suoi silenzi (essenziali e autorevoli), dai suoi gesti, misteriosi ed eloquenti allo stesso tempo. Parole, silenzi, gesti, sguardo, hanno il peso del giudizio di Dio e, nella misura in cui vengono accolti e lasciati macerare nel cuore, aprono l’orizzonte interiore spostando il nostro sguardo dalla realtà del peccato (che non viene assolutamente minimizzata) al volto stesso di Dio. E ancora una volta ci viene rivelata l’autentica traiettoria della conversione, la forza che permette un cammino di liberazione dal peccato: il perdono inaspettato e totalmente gratuito di Dio. E in questa dinamica di liberazione, in questo paradossale esodo interiore, sono invitati a entrare sia la donna adultera che gli scribi e i farisei. Ci soffermiamo soprattutto sul confronto tra Gesù e gli scribi e i farisei.
Coloro che conducono davanti a Gesù una donna, colta in flagrante adulterio, possiedono già una chiave di lettura della situazione in cui quella donna è stata coinvolta. Si tratta della legge di Mosè, un testo della Scrittura che prevede un soluzione drastica per questa sorta di peccato: la lapidazione (cfr. Lv 20,10 e Dt 22,21). La sicurezza di questi uomini (hanno la parola di Dio dalla loro parte) contrasta con il fatto che esigono da Gesù un coinvolgimento, una interpretazione del caso. Perché rivolgere a Gesù quella domanda – «ora Mosè nella legge ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?» (v. 5) – quando il ‘caso’ era già risolto nella Legge? C’è forse un desiderio di uscire dalle strettoie legalistiche per percorrere una via nuova oppure c’è l’intenzione di mettere alla prova Gesù, metterlo in contrasto con Mosè? Questi maestri si aspettano che Gesù rompa il silenzio iniziando la sua risposta con quella parola che spesso hanno udito: «Mosè vi ha detto… ma io vi dico…». Ciò che Gesù fa, invece, è sorprendente e mette costoro con le spalle al muro. In due successivi momenti, ritmati dal silenzio e dalla parola, Gesù riesce a creare il vuoto attorno a questi uomini e, quasi sospendendoli su di esso come su di un abisso, li obbliga a spostare lo sguardo sul loro cuore, sul loro comportamento, sul loro modo di giudicare, sul loro modo di rapportarsi a Dio. E tutto avviene attraverso un gesto e una parola.
Un gesto misterioso ripetuto due volte, un gesto che ha suscitato molte interpretazioni: «Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra… e chinatosi di nuovo, scriveva per terra» (vv. 6.8). È un gesto profetico, simbolicamente carico della forza del giudizio di Dio su ogni uomo, un gesto che potrebbe tradurre questa parola di Geremia: «coloro che si allontanano da me, saranno scritti per terra» (Ger 17,13). Gesù non pronuncia alcun giudizio contro questi uomini così sicuri della loro giustizia; li rimanda al tribunale della loro coscienza perché in esso facciano la verità. E la parola che finalmente Gesù pronuncia, rompendo quel silenzio carico di attesa, è come un spada che penetra nel cuore di questi uomini: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (v. 7). Gesù non nega il giudizio di Dio o la Legge e neppure chiede pietà per la donna, scusandola o difendendola per un peccato che sicuramente ha commesso; vuole che ciascuno rivolga il giudizio della parola di Dio anzitutto verso se stesso. Adulteri o no, tutti siamo peccatori e bisognosi di conversione e di perdono. Gesù vuole che il giudizio di Dio sia di Dio, non dell’uomo; l’uomo non può arrogarsi questo diritto. E in Dio il giudizio non è mai senza una possibilità di salvezza, perché Dio non vuole la morte ma la vita.
E il cerchio mortale attorno a quella donna viene così spezzato, aprendosi alla vita: «quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani» (v. 9), «accusati dalla loro coscienza», come aggiunge un manoscritto. Ora Gesù è solo di fronte alla donna adultera. E per quella donna la solitudine del peccato che quasi la rendeva anonima (è semplicemente una adultera, è identificata con il suo peccato, è prigioniera di esso) si apre all’incontro con la misericordia. Con una espressione lapidaria, sant’Agostino così dice: «rimasero solo loro due: la misera e la misericordia». E il dialogo tra Gesù e quella donna rivela la profondità del cuore di Dio: è un dialogo in cui ogni parola trasmette compassione, pace, libertà, gioia; un dialogo in cui ogni parola è carica della serietà dell’amore di Dio e attende dall’uomo una risposta responsabile e fedele.
La parola di Gesù non è la parola di chi semplicemente invita a dimenticare e a fuggire un passato fatto di morte e di schiavitù, ma una parola che impegna a guardare la propria vita con serietà, con gli occhi di Dio, e ad aprirla a un orizzonte di grazia e di misericordia. Quella donna perdonata perché non condannata ma salvata («neppure io ti condanno»), d’ora in poi dovrà vivere in conformità con la liberazione ricevuta («va’ e d’ora in poi non peccare più»). L’essere perdonati gratuitamente, senza condizioni, è la forza per riprendere il cammino. Possiamo mettere sulle labbra di questa donna, sulle nostre labbra di peccatori perdonati, queste parole tratte dal Sal 103,10-14 e dal Sal 32,1.11: «Il Signore non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe… egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere»… «Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato… Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti! Voi tutti, retti di cuore, ridete di gioia».
Monastero di Dumenza
V domenica di Quaresima
Anno C
Letture: Isaia 43,16-21; Salmo 125; Filippesi 3,8-14; Giovanni 8,1-11
Gli scribi e i farisei gli condussero una donna… la posero in mezzo, quasi non fosse una persona ma una cosa, che si prende, si porta, si mette di qua o di là, dove a loro va bene, anche a morte. Sono scribi che mettono Dio contro l’uomo, il peggio che possa capitare alla fede, lettori di una bibbia dimezzata, sordi ai profeti («dice il Signore: io non godo della morte di chi muore», Ez 18,32). La posero in mezzo. Sguardi di pietra su di lei. La paura che le sale dal cuore agli occhi, ciechi perché non hanno nessuno su cui potersi posare. Attorno a lei si è chiuso il cerchio di un tribunale di soli maschi, che si credono giusti al punto di ricoprire al tempo stesso tutti i ruoli: prima accusatori, poi giudici e infine carnefici. Chiedono a Gesù: È lecito o no uccidere in nome di Dio? Loro immaginano che Gesù dirà di no e così lo faranno cadere in trappola, mostrando che è contro la Legge, un bestemmiatore.
Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra… nella furia di parole e gesti omicidi, introduce una pausa di silenzio; non si oppone a viso aperto, li avrebbe fatti infuriare ancora di più. Poi, spiazza tutti i devoti dalla fede omicida, dicendo solo: chi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei. Peccato e pietre? Gesù scardina con poche parole limpide lo schema delitto/castigo, quello su cui abbiamo fondato le nostre paure e tanta parte dei nostri fantasmi interiori. Rimangono soli Gesù e la donna, e lui ora si alza in piedi davanti a lei, come davanti a una persona attesa e importante. E le parla. Nessuno le aveva parlato: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Neanch’io ti condanno, vai. E non le chiede di confessare la colpa, neppure le domanda se è pentita. Gesù, scrive non più per terra ma nel cuore della donna e la parola che scrive è: futuro.
Va’ e d’ora in poi non peccare più. Sette parole che bastano a cambiare una vita. Qualunque cosa quella donna abbia fatto, non rimane più nulla, cancellato, annullato, azzerato. D’ora in avanti: «Donna, tu sei capace di amare, puoi amare ancora, amare bene, amare molto. Questo tu farai…». Non le domanda che cosa ha fatto, le indica che cosa potrà fare. Lei non appartiene più al suo sbaglio, ma al suo futuro, ai semi che verranno seminati, alle persone che verranno amate. Il perdono è qualcosa che non libera il passato, fa molto di più: libera il futuro. E il bene possibile, solo possibile, di domani, conta di più del male di adesso. Nel mondo del vangelo è il bene che revoca il male, non viceversa. Il perdono è un vero dono, il solo dono che non ci farà più vittime, che non farà più vittime, né fuori né dentro noi.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Il volto di Dio che la parabola di Lc 15,11-32 ci ha rivelato nell’abbraccio accogliente del padre misericordioso (il testo evangelico della IV domenica di Quaresima) si riflette nello sguardo e nella parola che Gesù rivolge a una donna adultera in procinto di essere condannata alla lapidazione dagli scribi e dai farisei, secondo i dettami della legge mosaica. Il perdono che Gesù offre a questa donna è come una cammino rinnovato, una rigenerazione, una possibilità inaspettata di salvezza. Solo Dio ha il coraggio di dimenticare ciò che è passato e aprire «nel deserto una strada» (Is 43,19) che conduce al luogo della vita e della pace. La parola di Gesù è come un balsamo che ridà alla donna peccatrice la forza per camminare nuovamente verso la vita: «neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11). Lo sguardo di quella donna, attraverso la potenza e la gratuità del perdono, è ormai proiettato verso un futuro carico di speranza; il peccato che la tratteneva prigioniera è alle spalle, è passato, è stato consumato dalla misericordia di Gesù. Sulle labbra di quella donna si potrebbero porre le parole con cui Paolo esprime la dinamica della sua vita, ormai afferrata dall’amore di Cristo: «dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta… mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo» (Fil 3,12-14).
Il racconto di Gv 8,1-11 è realmente una parabola che ci rivela la capacità di Dio di creare e rinnovare la vita dell’uomo. La promessa di Dio ai deportati di Israele a Babilonia, riportata nel testo di Isaia (prima lettura), trova come una realizzazione personale nel cammino di vita che Gesù apre a una donna peccatrice: «Non ricordate più le cose passate – dice il Signore attraverso il suo profeta – non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova» (Is 43,18-19). E sotto il segno della novità è, infatti, tutto l’episodio dell’incontro di Gesù con la donna adultera. Sorprendentemente questa pericope, inserita nel racconto di Giovanni, ma mancante in molti manoscritti del quarto vangelo, ci è stata conservata come un racconto a se stante, irriducibile alle tradizioni evangeliche che noi conosciamo. Pur presentando agganci con lo stile narrativo di Luca (si pensi all’episodio quasi speculare dell’incontro di Gesù con la peccatrice nella casa di Simone in Lc 7,36-50), questo racconto è carico di originalità, nella forma, ma soprattutto nel contenuto. E probabilmente il comportamento di Gesù è apparso scandaloso alla stessa comunità cristiana, se ha faticato a inserirlo nel canone dei vangeli.
Certamente, in questo racconto si cammina sul filo del rasoio. Si ha quasi l’impressione che la gravità di un comportamento moralmente negativo non venga presa in seria considerazione dalle parole di Gesù. Ma tutto, in questo racconto, conduce a un luogo di rivelazione: il cuore di Dio colmo di compassione. Si può allora dire – e questo di per sé è già un messaggio fondamentale – che l’agire inaudito di Gesù, il perdono e la misericordia che emergono nell’incontro con i peccatori, sono il riflesso di quel volto di Dio a cui la stessa comunità cristiana è chiamata a convertirsi. Il testo di Gv 8 diventa come una icona che deve plasmare e motivare non solo il cammino personale di conversione, ma la prassi ecclesiale di fronte a ogni peccatore. Anche la comunità dei credenti deve incessantemente mettersi alla scuola di Colui che ha detto : «voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno» (Gv 8,15).
Possiamo cogliere il centro del racconto proprio a partire da Gesù, dal suo sguardo su coloro che gli stanno di fonte (gli scribi, i farisei, la donna adultera), dalle sue parole, dai suoi silenzi (essenziali e autorevoli), dai suoi gesti, misteriosi ed eloquenti allo stesso tempo. Parole, silenzi, gesti, sguardo, hanno il peso del giudizio di Dio e, nella misura in cui vengono accolti e lasciati macerare nel cuore, aprono l’orizzonte interiore spostando il nostro sguardo dalla realtà del peccato (che non viene assolutamente minimizzata) al volto stesso di Dio. E ancora una volta ci viene rivelata l’autentica traiettoria della conversione, la forza che permette un cammino di liberazione dal peccato: il perdono inaspettato e totalmente gratuito di Dio. E in questa dinamica di liberazione, in questo paradossale esodo interiore, sono invitati a entrare sia la donna adultera che gli scribi e i farisei. Ci soffermiamo soprattutto sul confronto tra Gesù e gli scribi e i farisei.
Coloro che conducono davanti a Gesù una donna, colta in flagrante adulterio, possiedono già una chiave di lettura della situazione in cui quella donna è stata coinvolta. Si tratta della legge di Mosè, un testo della Scrittura che prevede un soluzione drastica per questa sorta di peccato: la lapidazione (cfr. Lv 20,10 e Dt 22,21). La sicurezza di questi uomini (hanno la parola di Dio dalla loro parte) contrasta con il fatto che esigono da Gesù un coinvolgimento, una interpretazione del caso. Perché rivolgere a Gesù quella domanda – «ora Mosè nella legge ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?» (v. 5) – quando il ‘caso’ era già risolto nella Legge? C’è forse un desiderio di uscire dalle strettoie legalistiche per percorrere una via nuova oppure c’è l’intenzione di mettere alla prova Gesù, metterlo in contrasto con Mosè? Questi maestri si aspettano che Gesù rompa il silenzio iniziando la sua risposta con quella parola che spesso hanno udito: «Mosè vi ha detto… ma io vi dico…». Ciò che Gesù fa, invece, è sorprendente e mette costoro con le spalle al muro. In due successivi momenti, ritmati dal silenzio e dalla parola, Gesù riesce a creare il vuoto attorno a questi uomini e, quasi sospendendoli su di esso come su di un abisso, li obbliga a spostare lo sguardo sul loro cuore, sul loro comportamento, sul loro modo di giudicare, sul loro modo di rapportarsi a Dio. E tutto avviene attraverso un gesto e una parola.
Un gesto misterioso ripetuto due volte, un gesto che ha suscitato molte interpretazioni: «Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra… e chinatosi di nuovo, scriveva per terra» (vv. 6.8). È un gesto profetico, simbolicamente carico della forza del giudizio di Dio su ogni uomo, un gesto che potrebbe tradurre questa parola di Geremia: «coloro che si allontanano da me, saranno scritti per terra» (Ger 17,13). Gesù non pronuncia alcun giudizio contro questi uomini così sicuri della loro giustizia; li rimanda al tribunale della loro coscienza perché in esso facciano la verità. E la parola che finalmente Gesù pronuncia, rompendo quel silenzio carico di attesa, è come un spada che penetra nel cuore di questi uomini: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (v. 7). Gesù non nega il giudizio di Dio o la Legge e neppure chiede pietà per la donna, scusandola o difendendola per un peccato che sicuramente ha commesso; vuole che ciascuno rivolga il giudizio della parola di Dio anzitutto verso se stesso. Adulteri o no, tutti siamo peccatori e bisognosi di conversione e di perdono. Gesù vuole che il giudizio di Dio sia di Dio, non dell’uomo; l’uomo non può arrogarsi questo diritto. E in Dio il giudizio non è mai senza una possibilità di salvezza, perché Dio non vuole la morte ma la vita.
E il cerchio mortale attorno a quella donna viene così spezzato, aprendosi alla vita: «quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani» (v. 9), «accusati dalla loro coscienza», come aggiunge un manoscritto. Ora Gesù è solo di fronte alla donna adultera. E per quella donna la solitudine del peccato che quasi la rendeva anonima (è semplicemente una adultera, è identificata con il suo peccato, è prigioniera di esso) si apre all’incontro con la misericordia. Con una espressione lapidaria, sant’Agostino così dice: «rimasero solo loro due: la misera e la misericordia». E il dialogo tra Gesù e quella donna rivela la profondità del cuore di Dio: è un dialogo in cui ogni parola trasmette compassione, pace, libertà, gioia; un dialogo in cui ogni parola è carica della serietà dell’amore di Dio e attende dall’uomo una risposta responsabile e fedele.
La parola di Gesù non è la parola di chi semplicemente invita a dimenticare e a fuggire un passato fatto di morte e di schiavitù, ma una parola che impegna a guardare la propria vita con serietà, con gli occhi di Dio, e ad aprirla a un orizzonte di grazia e di misericordia. Quella donna perdonata perché non condannata ma salvata («neppure io ti condanno»), d’ora in poi dovrà vivere in conformità con la liberazione ricevuta («va’ e d’ora in poi non peccare più»). L’essere perdonati gratuitamente, senza condizioni, è la forza per riprendere il cammino. Possiamo mettere sulle labbra di questa donna, sulle nostre labbra di peccatori perdonati, queste parole tratte dal Sal 103,10-14 e dal Sal 32,1.11: «Il Signore non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe… egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere»… «Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato… Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti! Voi tutti, retti di cuore, ridete di gioia».
Monastero di Dumenza