XIX domenica

Tempo ordinario, Anno C

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. […]».

Siate pronti, tenetevi pronti: un invito che sale dal profondo della vita, perché vivere è attendere. La vita è attesa: di una persona da amare, di un dolore da superare, di un figlio da abbracciare, di un mondo migliore, della luce infinita che possa illuminare le tue paure e le tue ombre. Attesa di Dio. «E verrà, se insisto\ a sperare, non visto…\Verrà,\ già viene\ il suo bisbiglio» (C. Rebora). Le cose più importanti non vanno cercate, ma attese (S. Weil). Lo stesso Dio «sitit sitiri», dicevano i Padri, Dio ha sete che abbiamo sete di lui, desidera essere desiderato, ha desiderio del nostro desiderio.

Ed è quello che mostrano i servi della parabola, che fanno molto di più di ciò che era loro richiesto. Restare svegli fino all’alba, con le vesti già strette ai fianchi, con le lampade sempre accese, è un di più che ha il potere di incantare il padrone al suo arrivo. Quello dei servi è un atteggiamento non dettato né da dovere né da paura, essi attendono così intensamente qualcuno che è desiderato, come fa l’amata nel Cantico dei Cantici: «dormo, ma il mio cuore veglia» (5,2). E se tornando il padrone li troverà svegli, beati quei servi.

In verità vi dico – quando Gesù usa questi termini intende risvegliare la nostra attenzione su qualcosa di importante – li farà mettere a tavola e passerà a servirli. È il capovolgimento dell’idea di padrone: il punto commovente, sublime di questo racconto, il momento straordinario, quando accade l’impensabile: il Signore si mette a fare il servo! Dio viene e si pone a servizio della felicità dei suoi, della loro pienezza di vita! Gesù ribadisce, perché si imprima bene, l’atteggiamento sorprendente del Signore: si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. È l’immagine clamorosa, che solo Gesù ha osato, di Dio nostro servitore; quel volto che solo lui ha rivelato e incarnato nell’ultima sera, cingendo un asciugamano, prendendo fra le sue mani i piedi dei discepoli, facendo suo il ruolo proprio dello schiavo o della donna.

La fortuna dei servi della parabola, la loro beatitudine – ribadita due volte – non deriva dall’aver resistito tutta la notte, non è frutto della loro fedeltà o bravura. La fortuna nostra, di noi servi inaffidabili, consiste nel fatto di avere un padrone così, pieno di fiducia verso di noi, che non nutre sospetti, cuore luminoso, che ci affida la casa, le chiavi, le persone. La fiducia del mio Signore mi conquista, mi commuove, ad essa rispondo. La nostra grazia sta nel miracolo di un Dio che ha fede nell’uomo. Io crederò in lui, perché lui crede in me. Sarà il solo Signore che io servirò perché è l’unico che si è fatto mio servitore.

Letture: Sapienza 18,6-9; Salmo 32; Ebrei 11,1-2.8-19; Luca 12,32-48

Ermes Ronchi
Avvenire

 

Gesù non tollera la paura e non vuole che i suoi discepoli sentano la minaccia della paura. Quest’insegnamento è fondamentale nel Vangelo. Ossia, chi crede in Gesù deve essere una persona senza paura. Perché? Molto semplice: perché il Regno non è una promessa, è un possesso che è già suo. E parlare del Regno è parlare di Dio. Infatti l’espressione «Regno di Dio» è una maniera per designare Dio stesso. Quindi, quello che in realtà Gesù afferma è enorme: Dio è vostro. Cioè, Dio si è offerto, lo avete a vostra disposizione. Il dono di Dio ai credenti è Dio stesso. Si è dato a noi. Che paura può esserci, se è così?

La conseguenza è logica: se il vostro possesso è Dio, perché desiderate altro? Staccatevi da qualsiasi forma di appropriazione. Fate agli altri quello che Dio ha fatto a voi. Il dono di sé a chi si vuole amare. Ma cos’è avere Dio? E di conseguenza cos’è darsi agli altri? Vediamo: quello che ci separa gli uni dagli altri è la proprietà. Quello che è mio non è tuo. E questo – ce lo dice l’esperienza – ci separa, ci allontana, crea rivalità, scontri, invidie, odi, rancori…. È la cosa più brutta della vita. Avere Dio ed essere di Dio, questo, condiviso con gli altri, è amarci, darci, sentirci sicuri, gioire di quello che ci rende più felici, che sono l’affetto condiviso, la mutua fiducia, la sicurezza nell’altro. In questo, né più né meno, consiste l’utopia alla quale aspiriamo, l’anelito che semina il Vangelo nel più profondo del nostro essere.

Detto ciò, tutto il resto non ha bisogno di spiegazione, va da sé. Chi vive così, vive vigilante, trasmette felicità, è una persona buona ed un buon cittadino. Perché è una persona che, proprio come Dio ha fatto con Gesù, si è umanizzato fino al fondo del suo essere.

p. José María Castillo
Il dialogo