Letture: Deuteronomio 30,10-14; Salmo 18; Colossesi 1,15-20; Luca 10,25-37
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. Uno dei racconti più belli al mondo. Solo poche righe, di sangue, polvere e splendore. Il mondo intero scende da Gerusalemme a Gerico. Nessuno può dire: io faccio un’altra strada, io non c’entro. Siamo tutti sulla medesima strada. E ci salveremo insieme, o non ci sarà salvezza. Un sacerdote scendeva per quella stessa strada. Il primo che passa è un prete, un rappresentante di Dio e del potere, vede l’uomo ferito ma passa oltre. Non passare oltre il sangue di Abele. Oltre non c’è nulla, tantomeno Dio, solo una religione sterile come la polvere.
Invece un samaritano, che era in viaggio, vide, ne ebbe compassione, si fece vicino. Un samaritano, gente ostile e disprezzata, che non frequenta il tempio, si commuove, si fa vicino, si fa prossimo. Tutti termini di una carica infinita, bellissima, che grondano umanità. Non c’è umanità possibile senza compassione, il meno sentimentale dei sentimenti, senza prossimità, il meno zuccheroso, il più concreto. Il samaritano si avvicina. Non è spontaneo fermarsi, i briganti possono essere ancora nei dintorni. Avvicinarsi non è un istinto, è una conquista; la fraternità non è un dato ma un compito.
I primi tre gesti concreti: vedere, fermarsi, toccare, tracciano i primi tre passi della risposta a “chi è il mio prossimo?”. Vedere e lasciarsi ferire dalle ferite dell’altro. Il mondo è un immenso pianto, e «Dio naviga in questo fiume di lacrime» (Turoldo), invisibili però a chi ha perduto gli occhi del cuore, come il sacerdote e il levita. Fermarsi addosso alla vita che geme e si sta perdendo nella polvere della strada. Io ho fatto molto per questo mondo ogni volta che semplicemente sospendo la mia corsa per dire «eccomi, sono qui». Toccare: il samaritano versa olio e vino, fascia le ferite dell’uomo, lo solleva, lo carica, lo porta. Toccare l’altro è parlargli silenziosamente con il proprio corpo, con la mano: «Non ho paura e non sono nemico». Toccare l’altro è la massima vicinanza, dirgli: «Sono qui per te»; accettare ciò che lui è, così com’è; toccare l’altro è un atto di riverenza, di riconoscimento, di venerazione per la bontà dell’intera sua persona.
Il racconto di Luca poi si muove rapido, mettendo in fila dieci verbi per descrivere l’amore fattivo: vide, ebbe compassione, si avvicinò, versò, fasciò, caricò, portò, si prese cura, pagò… fino al decimo verbo: al mio ritorno salderò… Questo è il nuovo decalogo, perché l’uomo sia promosso a uomo, perché la terra sia abitata da “prossimi” e non da briganti o nemici. Al centro del messaggio di Gesù una parabola; al centro della parabola un uomo; e quel verbo: Tu amerai. Fa così, e troverai la vita.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Sarà anche a fin di bene, ma la maggior parte delle volte il nostro sguardo è rivolto solo su di noi, sulle nostre prestazioni, sul nostro efficientismo, sulla nostra immagine da mostrare. Persino sul piano morale diventa centrale la correttezza del nostro comportamento, come se la nostra felicità dipendesse da questa capacità di non sbagliare mai. E così anche la vita spirituale si trasforma in un’autocommiserazione o in un’autopromozione dei propri trofei davanti a Dio. Purtroppo, il tempo ci dirà che una vita passata a guardare se stessi, anche con l’obiettivo di migliorare e raggiungere traguardi etici e spirituali sempre più esigenti, non comporta necessariamente una vita felice. La vita diventa piena quando siamo capaci di cambiare il nostro sguardo o, come ci insegna il testo del Vangelo di Luca, di cambiare la domanda.
A volte persino le domande che rivolgiamo a Dio nella nostra preghiera non sono autentiche, rischiano di essere superficiali, domande di facciata che non esprimono quello che ci portiamo veramente nel cuore. Che senso ha per un esperto della Legge porre una domanda sulla Legge? Luca dice esplicitamente che si tratta di un modo per mettere alla prova Gesù, come facciamo a volte anche noi quando chiediamo qualcosa a Dio solo per mettere alla prova la sua bontà o la sua potenza, rimanendo puntualmente delusi. Eppure quella domanda svela qualcosa di quest’uomo: è un uomo che parla di doveri e di eredità. Usa termini giuridici, pensando di racchiudere l’eternità della vita nella correttezza di un comportamento. Come se la felicità fosse la conseguenza di quella correttezza.
Gesù non perde molto tempo con chi ragiona in questi termini. Sembra quasi che stia passando oltre, quando viene tirato indietro da un’altra domanda di quell’uomo, una domanda che finalmente rivela quello che si porta nel cuore e crea le condizioni per cominciare a guardare le cose da un altro punto di vista: chi è il mio prossimo? Chi è vicino a me? Qui il riferimento sono ancora io. Si tratta ancora di una persona che pretende che il mondo giri attorno a lui, nell’illusione di essere il centro dell’universo, come un bambino che vede solo i suoi bisogni, che misura tutto a partire da se stesso. Questo però è il varco che permette a Gesù di entrare nella sua vita e di aiutarlo a cambiare sguardo. Gesù gli racconta una storia nella quale si può rivedere, ma soprattutto una storia alla fine della quale la sua domanda troverà una formulazione nuova: chi è stato prossimo? Questa è la domanda dell’adulto che non aspetta che qualcuno si accorga di lui, ma prende l’iniziativa, fa il primo passo, si accorge del bisogno dell’altro e se ne prende cura. Questa è la domanda che porta alla felicità.
Questa storia racconta di un viaggio, che è in qualche modo immagine della vita. Quel viaggio nel quale incrociamo la vita degli altri, ma ci capita anche di farci male e di essere feriti, perché questo viaggio parla della nostra vulnerabilità, di quella debolezza che ci accomuna tutti, perché prima o poi tutti facciamo l’esperienza di essere feriti e di ritrovarci mezzi morti. C’è un uomo infatti che sta scendendo da Gerusalemme a Gerico. Scendere sembra qui uno sprofondare negli inferi della sofferenza, del dolore e del tradimento. È semplicemente un uomo, di lui non si dice nulla. Ciascuno di noi potrebbe essere quell’uomo. Non parla, non dice nulla, non sappiamo di dove sia, a quale popolo appartenga. È semplicemente un uomo, come ciascuno di noi. Un uomo ferito e questo dovrebbe bastare, senza altre motivazioni, per indurci a fermarci e a prenderci cura di lui.
Invece, per quella stessa strada scendono un sacerdote e un levita. Questa direzione del viaggio è forse un’allusione al fatto che avevano terminato da poco il loro turno di servizio nel Tempio di Gerusalemme e stanno ritornando a casa. Vedono, ma non si fermano, perché il culto non implica automaticamente la compassione. Si può passare tanto tempo nella casa di Dio e non aprire gli occhi sulle ferite degli altri. Per quella stessa strada, passa anche un samaritano. Sono gli incroci della vita. Nel suo caso, si tratta di un viaggio che non ha il carattere della liturgia e della religiosità. Eppure si ferma, perché avere compassione davanti alle ferite di un altro è questione di umanità, non di culto o religione. Si ferma davanti a un uomo anonimo, come per dire che non c’è una motivazione speciale per interrompere il suo viaggio.
La compassione poi è fatta di gesti concreti, non rimane uno sguardo, un sentimento, un’idea romantica. Questo samaritano compie delle azioni: si fa vicino, fascia le ferite, versa olio e vino, ne porta il peso trasportandolo in un albergo, se ne prende cura. Non solo. Il suo sguardo pensa anche al futuro. Si impegna a tornare ed eventualmente a completare la sua opera. Per il momento lascia due denari, più o meno due giornate di lavoro, né tanto né poco, ma quanto serve in quel momento. Prendersi cura delle ferite dell’altro non chiede gesti straordinari, ma l’onestà di riconoscere quello che serve oggi.
Se il dottore della legge che è in ciascuno di noi desidera trovare la vita piena, deve allora cambiare il suo sguardo, deve imparare dal samaritano, che ha preso l’iniziativa, lasciandosi muovere dalla compassione. Quando saremo capaci anche noi di uscire da noi stessi e dal ripiegamento sui nostri bisogni? Forse solo quando ci saremo accorti che un giorno anche noi ci siamo ritrovati mezzi morti sulla strada e un Samaritano, Gesù, ha avuto compassione di noi e si è preso cura delle nostre ferite. Non si diventa samaritani senza la consapevolezza di essere vulnerabili, persone ferite a cui tante volte è stata ridata la vita. Sì, Gesù è il Samaritano, colui che versa olio e vino sulle nostre ferite, segni messianici preannunciati dai profeti, colui che tornerà e porterà a compimento l’opera che già ha iniziato in nostro favore.
P. Gaetano Piccolo
Rigantur mentes
XV domenica
Tempo ordinario, Anno C
Letture: Deuteronomio 30,10-14; Salmo 18; Colossesi 1,15-20; Luca 10,25-37
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. Uno dei racconti più belli al mondo. Solo poche righe, di sangue, polvere e splendore. Il mondo intero scende da Gerusalemme a Gerico. Nessuno può dire: io faccio un’altra strada, io non c’entro. Siamo tutti sulla medesima strada. E ci salveremo insieme, o non ci sarà salvezza. Un sacerdote scendeva per quella stessa strada. Il primo che passa è un prete, un rappresentante di Dio e del potere, vede l’uomo ferito ma passa oltre. Non passare oltre il sangue di Abele. Oltre non c’è nulla, tantomeno Dio, solo una religione sterile come la polvere.
Invece un samaritano, che era in viaggio, vide, ne ebbe compassione, si fece vicino. Un samaritano, gente ostile e disprezzata, che non frequenta il tempio, si commuove, si fa vicino, si fa prossimo. Tutti termini di una carica infinita, bellissima, che grondano umanità. Non c’è umanità possibile senza compassione, il meno sentimentale dei sentimenti, senza prossimità, il meno zuccheroso, il più concreto. Il samaritano si avvicina. Non è spontaneo fermarsi, i briganti possono essere ancora nei dintorni. Avvicinarsi non è un istinto, è una conquista; la fraternità non è un dato ma un compito.
I primi tre gesti concreti: vedere, fermarsi, toccare, tracciano i primi tre passi della risposta a “chi è il mio prossimo?”. Vedere e lasciarsi ferire dalle ferite dell’altro. Il mondo è un immenso pianto, e «Dio naviga in questo fiume di lacrime» (Turoldo), invisibili però a chi ha perduto gli occhi del cuore, come il sacerdote e il levita. Fermarsi addosso alla vita che geme e si sta perdendo nella polvere della strada. Io ho fatto molto per questo mondo ogni volta che semplicemente sospendo la mia corsa per dire «eccomi, sono qui». Toccare: il samaritano versa olio e vino, fascia le ferite dell’uomo, lo solleva, lo carica, lo porta. Toccare l’altro è parlargli silenziosamente con il proprio corpo, con la mano: «Non ho paura e non sono nemico». Toccare l’altro è la massima vicinanza, dirgli: «Sono qui per te»; accettare ciò che lui è, così com’è; toccare l’altro è un atto di riverenza, di riconoscimento, di venerazione per la bontà dell’intera sua persona.
Il racconto di Luca poi si muove rapido, mettendo in fila dieci verbi per descrivere l’amore fattivo: vide, ebbe compassione, si avvicinò, versò, fasciò, caricò, portò, si prese cura, pagò… fino al decimo verbo: al mio ritorno salderò… Questo è il nuovo decalogo, perché l’uomo sia promosso a uomo, perché la terra sia abitata da “prossimi” e non da briganti o nemici. Al centro del messaggio di Gesù una parabola; al centro della parabola un uomo; e quel verbo: Tu amerai. Fa così, e troverai la vita.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
Sarà anche a fin di bene, ma la maggior parte delle volte il nostro sguardo è rivolto solo su di noi, sulle nostre prestazioni, sul nostro efficientismo, sulla nostra immagine da mostrare. Persino sul piano morale diventa centrale la correttezza del nostro comportamento, come se la nostra felicità dipendesse da questa capacità di non sbagliare mai. E così anche la vita spirituale si trasforma in un’autocommiserazione o in un’autopromozione dei propri trofei davanti a Dio. Purtroppo, il tempo ci dirà che una vita passata a guardare se stessi, anche con l’obiettivo di migliorare e raggiungere traguardi etici e spirituali sempre più esigenti, non comporta necessariamente una vita felice. La vita diventa piena quando siamo capaci di cambiare il nostro sguardo o, come ci insegna il testo del Vangelo di Luca, di cambiare la domanda.
A volte persino le domande che rivolgiamo a Dio nella nostra preghiera non sono autentiche, rischiano di essere superficiali, domande di facciata che non esprimono quello che ci portiamo veramente nel cuore. Che senso ha per un esperto della Legge porre una domanda sulla Legge? Luca dice esplicitamente che si tratta di un modo per mettere alla prova Gesù, come facciamo a volte anche noi quando chiediamo qualcosa a Dio solo per mettere alla prova la sua bontà o la sua potenza, rimanendo puntualmente delusi. Eppure quella domanda svela qualcosa di quest’uomo: è un uomo che parla di doveri e di eredità. Usa termini giuridici, pensando di racchiudere l’eternità della vita nella correttezza di un comportamento. Come se la felicità fosse la conseguenza di quella correttezza.
Gesù non perde molto tempo con chi ragiona in questi termini. Sembra quasi che stia passando oltre, quando viene tirato indietro da un’altra domanda di quell’uomo, una domanda che finalmente rivela quello che si porta nel cuore e crea le condizioni per cominciare a guardare le cose da un altro punto di vista: chi è il mio prossimo? Chi è vicino a me? Qui il riferimento sono ancora io. Si tratta ancora di una persona che pretende che il mondo giri attorno a lui, nell’illusione di essere il centro dell’universo, come un bambino che vede solo i suoi bisogni, che misura tutto a partire da se stesso. Questo però è il varco che permette a Gesù di entrare nella sua vita e di aiutarlo a cambiare sguardo. Gesù gli racconta una storia nella quale si può rivedere, ma soprattutto una storia alla fine della quale la sua domanda troverà una formulazione nuova: chi è stato prossimo? Questa è la domanda dell’adulto che non aspetta che qualcuno si accorga di lui, ma prende l’iniziativa, fa il primo passo, si accorge del bisogno dell’altro e se ne prende cura. Questa è la domanda che porta alla felicità.
Questa storia racconta di un viaggio, che è in qualche modo immagine della vita. Quel viaggio nel quale incrociamo la vita degli altri, ma ci capita anche di farci male e di essere feriti, perché questo viaggio parla della nostra vulnerabilità, di quella debolezza che ci accomuna tutti, perché prima o poi tutti facciamo l’esperienza di essere feriti e di ritrovarci mezzi morti. C’è un uomo infatti che sta scendendo da Gerusalemme a Gerico. Scendere sembra qui uno sprofondare negli inferi della sofferenza, del dolore e del tradimento. È semplicemente un uomo, di lui non si dice nulla. Ciascuno di noi potrebbe essere quell’uomo. Non parla, non dice nulla, non sappiamo di dove sia, a quale popolo appartenga. È semplicemente un uomo, come ciascuno di noi. Un uomo ferito e questo dovrebbe bastare, senza altre motivazioni, per indurci a fermarci e a prenderci cura di lui.
Invece, per quella stessa strada scendono un sacerdote e un levita. Questa direzione del viaggio è forse un’allusione al fatto che avevano terminato da poco il loro turno di servizio nel Tempio di Gerusalemme e stanno ritornando a casa. Vedono, ma non si fermano, perché il culto non implica automaticamente la compassione. Si può passare tanto tempo nella casa di Dio e non aprire gli occhi sulle ferite degli altri. Per quella stessa strada, passa anche un samaritano. Sono gli incroci della vita. Nel suo caso, si tratta di un viaggio che non ha il carattere della liturgia e della religiosità. Eppure si ferma, perché avere compassione davanti alle ferite di un altro è questione di umanità, non di culto o religione. Si ferma davanti a un uomo anonimo, come per dire che non c’è una motivazione speciale per interrompere il suo viaggio.
La compassione poi è fatta di gesti concreti, non rimane uno sguardo, un sentimento, un’idea romantica. Questo samaritano compie delle azioni: si fa vicino, fascia le ferite, versa olio e vino, ne porta il peso trasportandolo in un albergo, se ne prende cura. Non solo. Il suo sguardo pensa anche al futuro. Si impegna a tornare ed eventualmente a completare la sua opera. Per il momento lascia due denari, più o meno due giornate di lavoro, né tanto né poco, ma quanto serve in quel momento. Prendersi cura delle ferite dell’altro non chiede gesti straordinari, ma l’onestà di riconoscere quello che serve oggi.
Se il dottore della legge che è in ciascuno di noi desidera trovare la vita piena, deve allora cambiare il suo sguardo, deve imparare dal samaritano, che ha preso l’iniziativa, lasciandosi muovere dalla compassione. Quando saremo capaci anche noi di uscire da noi stessi e dal ripiegamento sui nostri bisogni? Forse solo quando ci saremo accorti che un giorno anche noi ci siamo ritrovati mezzi morti sulla strada e un Samaritano, Gesù, ha avuto compassione di noi e si è preso cura delle nostre ferite. Non si diventa samaritani senza la consapevolezza di essere vulnerabili, persone ferite a cui tante volte è stata ridata la vita. Sì, Gesù è il Samaritano, colui che versa olio e vino sulle nostre ferite, segni messianici preannunciati dai profeti, colui che tornerà e porterà a compimento l’opera che già ha iniziato in nostro favore.
P. Gaetano Piccolo
Rigantur mentes