Letture: Qoèlet 1,2; 2,21-23; Salmo 89; Lettera ai Colossesi 3,1-5.9-11; Luca 12,13-21
La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante: una doppia benedizione secondo la bibbia, eppure tutto è corroso da un tarlo micidiale. Ascolti la parabola e vedi che il fondale di quella storia è vuoto. L’uomo ricco è solo, chiuso nel cerchio murato del suo io, ossessionato dalla logica dell’accumulo, con un solo aggettivo nel suo vocabolario: “mio”, i miei raccolti, i miei magazzini, i miei beni, la mia vita, anima mia. Nessun altro personaggio che entri in scena, nessun nome, nessun volto, nessuno nella casa, nessuno alla porta, nessuno nel cuore. Vita desolatamente vuota, dalla quale perfino Dio è assente, sostituito dall’idolo dell’accumulo. Perché il ricco non ha mai abbastanza. Investe in magazzini e granai e non sa giocare al tavolo delle relazioni umane, sola garanzia di felicità. Ecco l’innesco del dramma: la totale solitudine.
L’accumulo è la sua idolatria. E gli idoli alla fine divorano i loro stessi devoti. Ingannandoli: “Anima mia hai molti beni per molti anni, divertiti e goditi la vita”. È forse questo, alla fin fine, l’errore che rovina tutto? Il voler godere la vita? No. Anche per il Vangelo è scontato che la vita umana sia, e non possa che essere un’incessante ricerca di felicità. Ma la sfida della felicità è che non può mai essere solitaria, ed ha sempre a che fare con il dono. L’uomo ricco è entrato nell’atrofia della vita, non ha più allenato i muscoli del dono e delle relazioni: Stolto, questa notte stessa… Stolto, perché vuoto di volti, vive soltanto un lungo morire, perché il cuore solitario si ammala; isolato, muore. Così si alleva la propria morte. Infatti: questa notte stessa ti sarà richiesta indietro la tua vita….
Essere vivo domani non è un diritto, è un miracolo. Rivedere il sole e i volti cari al mattino, non è né ovvio né dovuto, è un regalo. E che domani i miliardi di cellule del mio corpo siano ancora tutte tra loro connesse, coordinate e solidali è un improbabile prodigio. E quello che hai accumulato di chi sarà? La domanda ultima, la sola che rimane quando non rimane più niente, suona così: dopo che tu sei passato, dietro di te, nel tuo mondo, è rimasta più vita o meno vita? Unico bene.
La parabola ricorda le semplici, sovversive leggi evangeliche dell’economia, quelle che rovesciano le regole del gioco, e che si possono ridurre a due soltanto: 1. non accumulare; 2. se hai, hai per condividere. Davanti a Dio noi siamo ricchi solo di ciò che abbiamo condiviso; siamo ricchi di uno, di molti bicchieri di acqua fresca dati; di uno, di cento passi compiuti con chi aveva paura di restare solo; siamo ricchi di un cuore che ha perdonato per sette volte, per settanta volte sette.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
L’odierna pagina evangelica è un testo (Lc 12,13-21) presente nel solo vangelo secondo Luca, che non ha paralleli negli altri Sinottici. E le tematiche affrontate, di rilevanza sociale, sono particolarmente care a Luca: il lavoro, il possesso di beni, il rapporto con il denaro. La narrazione lucana ci mostra Gesù mentre parla ai discepoli e a una numerosa folla (Lc 12,1). La richiesta di un anonimo che, di mezzo alla folla, gli chiede di farsi arbitro su una questione di eredità e la secca risposta negativa di Gesù, costituiscono la prima parte (12,13-15) della nostra pericope che poi, attraverso una frase di transizione con cui Gesù mette in guardia i suoi uditori dalla cupidigia (12,15), prosegue e si conclude con una parabola (12,16-20) seguita da un commento applicativo che ne trae la morale (12,21). La parabola ha al suo centro un “uomo ricco” (12,16) e “stolto” (12,20).
Gesù rifiuta dunque di intervenire in una disputa tra fratelli per questioni di eredità (cf. 12,13-14). Di fronte al penoso e purtroppo ricorrente spettacolo delle divisioni profonde che attraversano le famiglie quando si prospetta di dividere un’eredità, Gesù si tira indietro e non si attribuisce compiti che nulla hanno a che fare con la missione che ha ricevuto dal Padre. L’obbedienza al Padre porta Gesù a non sentirsi legittimato a intervenire sempre, in ogni caso e su questioni di qualsiasi ordine e natura. “Chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?” (12,13). Ci si può chiedere che rapporto vi sia tra questo episodio e la successiva parabola. Credo che il legame si trovi in quella “morte” di cui si parla apertamente nella parabola (12,20), ma che è presente anche nel breve dialogo che apre la pericope e che verte su una questione di eredità. “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità” (12,13). Gesù si sottrae a questa richiesta e rifiuta di porsi come mediatore e giudice su questioni in cui si combattono, presumibilmente, piccole ingiustizie, interessi meschini, dissapori famigliari.
Ora, l’eredità è uno dei modi con cui l’uomo tenta di addomesticare la morte, di farla rientrare nel mondo dei vivi. Noi trasmettiamo, lasciamo eredità (non solo di tipo economico) ad altri per far passare qualcosa della nostra vita in altri che vivranno dopo che noi saremo morti. E di fronte alla morte, come agli altri aspetti che costituiscono il lato mancante della vita, cioè il lato che fa sperimentare la vita come mancanza, come perdita, come vuoto: morte, appunto, colpa, malattia, Gesù non dà regole, non fornisce norme, non emana precetti o leggi, non si rifugia in soluzioni legali o giuridiche. Gesù invece ne fa l’occasione affinché l’uomo possa conoscere il proprio cuore, possa vedere qual è il suo ubi consistam, in che cosa pone il senso della sua vita e da che cosa la fa dipendere, e indica una soluzione nella via della relazione, la relazione con Dio e la relazione con gli altri uomini. Emblematico il finale della parabola: “ciò che hai accumulato di chi sarà?” (12,20). Perché la vita non dipende dai beni ma sta appesa alle relazioni, ad altri a cui ci leghiamo per amore. E ancora: “Così è di chi accumula per sé e non arricchisce davanti a Dio” (12,21): perché Dio è la fonte della vita e può richiedere questa notte stessa la tua vita.
Di fronte alla domanda dello sconosciuto, la risposta di Gesù è pronta e indica un discernimento maturato da tempo nel profondo, e dunque sicuro di sé. Gesù guarda come dall’alto la domanda postagli e se ne estrania, la valuta estranea, forse suscitando lo stupore e la delusione nell’interlocutore. Qual è il luogo di discernimento di Gesù, il posto in cui si situa? Qual è questo luogo alto dove si fonda la sua libertà e la sua parresia? È il luogo che, in obbedienza e comunione con Dio, integra la morte, che assume la morte come occhio veritativo, come sguardo che illumina il reale e dà luce e senso alla vita. Mosè, su indicazione di Dio, salì sul monte Nebo e dall’alto vide la terra che sarebbe stata data in eredità non a lui ma ai figli d’Israele. Guardò la terra, per ordine di Dio, con lo sguardo di chi si prepara a morire. Sguardo non cinico né disperato, ma dolorosamente gioioso per i figli d’Israele e timorosamente affidato alla bocca di Dio, al suo ordine, al suo bacio (Dt 34). Al contrario, la visione con cui il diavolo cerca di sedurre Gesù conducendolo su un alto monte, gli mostra tutte le ricchezze e i regni del mondo promettendoglieli come “suoi”. È una visione ubriacante che dimentica e rimuove la morte, che illude di onnipotenza l’essere umano, e può arrivare ad assolutizzare il mondano sostituendolo a Dio. Gesù rigetta questa visione (Mt 4,8-10; Lc 4,5-8). Ma chi non la rigetta si ritrova preda della cupidigia, della bramosia, della voracità di possesso, della bulimia di chi vuole darsi vita accumulando beni, riempiendosi, cercando di colmarsi e anestetizzando il vuoto che dal lato mancante della vita preme verso il suo centro. Quel vuoto, infatti, è lo spazio della relazione e la condizione dell’amore.
La risposta di Gesù al suo anonimo interlocutore risale dal piano esteriore delle dispute al piano interiore del cuore: egli mette in guardia tutti dalla cupidigia, dall’avidità, dalla brama di possedere. L’avidità proviene dal cuore (cf. Mc 7,22) ed è equiparabile all’idolatria (cf. Col 3,5). E la cupidigia che qui emerge a proposito di un’eredità famigliare è la stessa che ostacola l’ottenimento dell’eredità del Regno di Dio (cf. 1Cor 6,10; Ef 5,5). L’idolatria dà illusioni di vita, ma produce morte. La vita non consiste nei beni, dice Gesù. E nasce per noi la domanda: in che cosa consiste la vita? In che cosa facciamo consistere la nostra vita? “Ma che è mai la vostra vita?” chiede Giacomo ai ricchi che dicono “Oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni”, mentre non sanno e non possono sapere “che cosa sarà domani” (Gc 4,13-14). La cupidigia, la logica dell’accumulo e del possesso sono una via che gli umani percorrono per scongiurare la morte: risposta fallimentare a un problema reale. Al problema radicale che la morte pone a ogni vita e a tutta la vita. E questo mettere le mani sul futuro viene rimproverato anche al ricco insensato della parabola che fra sé e sé dice di avere a disposizione molti anni illudendosi di poter padroneggiare il tempo. La cecità a cui la ricchezza dà origine è evidenziata nella figura del ricco stupido, letteralmente “senza intelligenza” (áphron: 12,20). Egli pensa di possedere anche ciò che per definizione è indisponibile: il tempo, il futuro, la vita. E il binomio ricchezza – stupidità è espresso in modo tale che il “pieno” della ricchezza sembra camuffare il desolante “vuoto”, la penosa carenza di intelligenza e di sapienza del ricco. La carenza di intelligenza diviene anche mancanza di relazioni e rifiuto di fraternità perché l’orizzonte interiore ed esistenziale del ricco è tutto assorbito dal proprio ego: egli “arricchisce per sé” (12,20) dimenticando Dio e i fratelli. Il peccato è sempre, ricorda Agostino, “ripiegamento del cuore su di sé”.
Colpisce il fatto che la parabola che Gesù narra abbia un unico protagonista, almeno prima dell’intervento di Dio nel v. 20, e sia costituita da un monologo interiore dell’uomo che, già ricco, viene beneficiato ulteriormente da un raccolto particolarmente abbondante della sua campagna (12,16). Il dialogo con sé stesso è una forma letteraria con cui l’autore svela il carattere del protagonista e consente al lettore di entrare nell’animo del personaggio e di coglierne i movimenti interiori, i dubbi, le riflessioni e infine le decisioni a cui perviene e le basi su cui fonda tali decisioni. Interessante la successione tra la domanda “Che farò?” (12,17) e la risoluzione “Farò così” (12,18), che troviamo analoga nel monologo interiore dell’amministratore disonesto. Nella situazione critica in cui si viene a trovare, quest’ultimo si chiede “Che farò?” (Lc 16,3) e si risponde “So che cosa farò” (16,4). Il lettore si trova di fronte a una sorta di radiografia dell’anima del protagonista, segue il cammino dei suoi ragionamenti e può raffrontarli con i propri modi di pensare, di riflettere, di reagire alle situazioni della vita. Come in uno specchio egli può vedere riflessa la propria interiorità nella interiorità del personaggio che gli viene presentata “al lavoro”, e può passare alla riflessione sui propri modi di prendere decisioni e di agire. E così, il lettore si sente direttamente riguardato dalla parola e dalla domanda che Dio pone al termine della parabola.
E l’insegnamento da trarre è quello della memoria della propria condizione di caducità e mortalità che anche la tradizione sapienziale veterotestamentaria ricorda a più riprese come necessaria per vivere con sapienza e umiltà e per sapersi rapportare con saggezza ai beni terreni (Sal 39,6-7; Sir 11,18-19). In effetti, l’avidità, la brama di ricchezza inganna l’uomo promettendogli di poter avere tutto, comprare e possedere tutto: “Tutto, infatti, obbedisce al denaro”, dice Qoelet (10,19). Tommaso d’Aquino dirà: “Con le ricchezze uno acquista la possibilità di commettere qualsiasi peccato e di soddisfare tutti i desideri peccaminosi: ecco in che modo la cupidigia è la radice di tutti i mali”. La memoria della morte è qui elemento che salva l’umanità stessa dell’uomo preservandola da illusioni dall’esito catastrofico.
Luciano Manicardi
Monastero di Bose
XVIII domenica
Tempo ordinario, Anno C
Letture: Qoèlet 1,2; 2,21-23; Salmo 89; Lettera ai Colossesi 3,1-5.9-11; Luca 12,13-21
La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante: una doppia benedizione secondo la bibbia, eppure tutto è corroso da un tarlo micidiale. Ascolti la parabola e vedi che il fondale di quella storia è vuoto. L’uomo ricco è solo, chiuso nel cerchio murato del suo io, ossessionato dalla logica dell’accumulo, con un solo aggettivo nel suo vocabolario: “mio”, i miei raccolti, i miei magazzini, i miei beni, la mia vita, anima mia. Nessun altro personaggio che entri in scena, nessun nome, nessun volto, nessuno nella casa, nessuno alla porta, nessuno nel cuore. Vita desolatamente vuota, dalla quale perfino Dio è assente, sostituito dall’idolo dell’accumulo. Perché il ricco non ha mai abbastanza. Investe in magazzini e granai e non sa giocare al tavolo delle relazioni umane, sola garanzia di felicità. Ecco l’innesco del dramma: la totale solitudine.
L’accumulo è la sua idolatria. E gli idoli alla fine divorano i loro stessi devoti. Ingannandoli: “Anima mia hai molti beni per molti anni, divertiti e goditi la vita”. È forse questo, alla fin fine, l’errore che rovina tutto? Il voler godere la vita? No. Anche per il Vangelo è scontato che la vita umana sia, e non possa che essere un’incessante ricerca di felicità. Ma la sfida della felicità è che non può mai essere solitaria, ed ha sempre a che fare con il dono. L’uomo ricco è entrato nell’atrofia della vita, non ha più allenato i muscoli del dono e delle relazioni: Stolto, questa notte stessa… Stolto, perché vuoto di volti, vive soltanto un lungo morire, perché il cuore solitario si ammala; isolato, muore. Così si alleva la propria morte. Infatti: questa notte stessa ti sarà richiesta indietro la tua vita….
Essere vivo domani non è un diritto, è un miracolo. Rivedere il sole e i volti cari al mattino, non è né ovvio né dovuto, è un regalo. E che domani i miliardi di cellule del mio corpo siano ancora tutte tra loro connesse, coordinate e solidali è un improbabile prodigio. E quello che hai accumulato di chi sarà? La domanda ultima, la sola che rimane quando non rimane più niente, suona così: dopo che tu sei passato, dietro di te, nel tuo mondo, è rimasta più vita o meno vita? Unico bene.
La parabola ricorda le semplici, sovversive leggi evangeliche dell’economia, quelle che rovesciano le regole del gioco, e che si possono ridurre a due soltanto: 1. non accumulare; 2. se hai, hai per condividere. Davanti a Dio noi siamo ricchi solo di ciò che abbiamo condiviso; siamo ricchi di uno, di molti bicchieri di acqua fresca dati; di uno, di cento passi compiuti con chi aveva paura di restare solo; siamo ricchi di un cuore che ha perdonato per sette volte, per settanta volte sette.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
L’odierna pagina evangelica è un testo (Lc 12,13-21) presente nel solo vangelo secondo Luca, che non ha paralleli negli altri Sinottici. E le tematiche affrontate, di rilevanza sociale, sono particolarmente care a Luca: il lavoro, il possesso di beni, il rapporto con il denaro. La narrazione lucana ci mostra Gesù mentre parla ai discepoli e a una numerosa folla (Lc 12,1). La richiesta di un anonimo che, di mezzo alla folla, gli chiede di farsi arbitro su una questione di eredità e la secca risposta negativa di Gesù, costituiscono la prima parte (12,13-15) della nostra pericope che poi, attraverso una frase di transizione con cui Gesù mette in guardia i suoi uditori dalla cupidigia (12,15), prosegue e si conclude con una parabola (12,16-20) seguita da un commento applicativo che ne trae la morale (12,21). La parabola ha al suo centro un “uomo ricco” (12,16) e “stolto” (12,20).
Gesù rifiuta dunque di intervenire in una disputa tra fratelli per questioni di eredità (cf. 12,13-14). Di fronte al penoso e purtroppo ricorrente spettacolo delle divisioni profonde che attraversano le famiglie quando si prospetta di dividere un’eredità, Gesù si tira indietro e non si attribuisce compiti che nulla hanno a che fare con la missione che ha ricevuto dal Padre. L’obbedienza al Padre porta Gesù a non sentirsi legittimato a intervenire sempre, in ogni caso e su questioni di qualsiasi ordine e natura. “Chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?” (12,13). Ci si può chiedere che rapporto vi sia tra questo episodio e la successiva parabola. Credo che il legame si trovi in quella “morte” di cui si parla apertamente nella parabola (12,20), ma che è presente anche nel breve dialogo che apre la pericope e che verte su una questione di eredità. “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità” (12,13). Gesù si sottrae a questa richiesta e rifiuta di porsi come mediatore e giudice su questioni in cui si combattono, presumibilmente, piccole ingiustizie, interessi meschini, dissapori famigliari.
Ora, l’eredità è uno dei modi con cui l’uomo tenta di addomesticare la morte, di farla rientrare nel mondo dei vivi. Noi trasmettiamo, lasciamo eredità (non solo di tipo economico) ad altri per far passare qualcosa della nostra vita in altri che vivranno dopo che noi saremo morti. E di fronte alla morte, come agli altri aspetti che costituiscono il lato mancante della vita, cioè il lato che fa sperimentare la vita come mancanza, come perdita, come vuoto: morte, appunto, colpa, malattia, Gesù non dà regole, non fornisce norme, non emana precetti o leggi, non si rifugia in soluzioni legali o giuridiche. Gesù invece ne fa l’occasione affinché l’uomo possa conoscere il proprio cuore, possa vedere qual è il suo ubi consistam, in che cosa pone il senso della sua vita e da che cosa la fa dipendere, e indica una soluzione nella via della relazione, la relazione con Dio e la relazione con gli altri uomini. Emblematico il finale della parabola: “ciò che hai accumulato di chi sarà?” (12,20). Perché la vita non dipende dai beni ma sta appesa alle relazioni, ad altri a cui ci leghiamo per amore. E ancora: “Così è di chi accumula per sé e non arricchisce davanti a Dio” (12,21): perché Dio è la fonte della vita e può richiedere questa notte stessa la tua vita.
Di fronte alla domanda dello sconosciuto, la risposta di Gesù è pronta e indica un discernimento maturato da tempo nel profondo, e dunque sicuro di sé. Gesù guarda come dall’alto la domanda postagli e se ne estrania, la valuta estranea, forse suscitando lo stupore e la delusione nell’interlocutore. Qual è il luogo di discernimento di Gesù, il posto in cui si situa? Qual è questo luogo alto dove si fonda la sua libertà e la sua parresia? È il luogo che, in obbedienza e comunione con Dio, integra la morte, che assume la morte come occhio veritativo, come sguardo che illumina il reale e dà luce e senso alla vita. Mosè, su indicazione di Dio, salì sul monte Nebo e dall’alto vide la terra che sarebbe stata data in eredità non a lui ma ai figli d’Israele. Guardò la terra, per ordine di Dio, con lo sguardo di chi si prepara a morire. Sguardo non cinico né disperato, ma dolorosamente gioioso per i figli d’Israele e timorosamente affidato alla bocca di Dio, al suo ordine, al suo bacio (Dt 34). Al contrario, la visione con cui il diavolo cerca di sedurre Gesù conducendolo su un alto monte, gli mostra tutte le ricchezze e i regni del mondo promettendoglieli come “suoi”. È una visione ubriacante che dimentica e rimuove la morte, che illude di onnipotenza l’essere umano, e può arrivare ad assolutizzare il mondano sostituendolo a Dio. Gesù rigetta questa visione (Mt 4,8-10; Lc 4,5-8). Ma chi non la rigetta si ritrova preda della cupidigia, della bramosia, della voracità di possesso, della bulimia di chi vuole darsi vita accumulando beni, riempiendosi, cercando di colmarsi e anestetizzando il vuoto che dal lato mancante della vita preme verso il suo centro. Quel vuoto, infatti, è lo spazio della relazione e la condizione dell’amore.
La risposta di Gesù al suo anonimo interlocutore risale dal piano esteriore delle dispute al piano interiore del cuore: egli mette in guardia tutti dalla cupidigia, dall’avidità, dalla brama di possedere. L’avidità proviene dal cuore (cf. Mc 7,22) ed è equiparabile all’idolatria (cf. Col 3,5). E la cupidigia che qui emerge a proposito di un’eredità famigliare è la stessa che ostacola l’ottenimento dell’eredità del Regno di Dio (cf. 1Cor 6,10; Ef 5,5). L’idolatria dà illusioni di vita, ma produce morte. La vita non consiste nei beni, dice Gesù. E nasce per noi la domanda: in che cosa consiste la vita? In che cosa facciamo consistere la nostra vita? “Ma che è mai la vostra vita?” chiede Giacomo ai ricchi che dicono “Oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni”, mentre non sanno e non possono sapere “che cosa sarà domani” (Gc 4,13-14). La cupidigia, la logica dell’accumulo e del possesso sono una via che gli umani percorrono per scongiurare la morte: risposta fallimentare a un problema reale. Al problema radicale che la morte pone a ogni vita e a tutta la vita. E questo mettere le mani sul futuro viene rimproverato anche al ricco insensato della parabola che fra sé e sé dice di avere a disposizione molti anni illudendosi di poter padroneggiare il tempo. La cecità a cui la ricchezza dà origine è evidenziata nella figura del ricco stupido, letteralmente “senza intelligenza” (áphron: 12,20). Egli pensa di possedere anche ciò che per definizione è indisponibile: il tempo, il futuro, la vita. E il binomio ricchezza – stupidità è espresso in modo tale che il “pieno” della ricchezza sembra camuffare il desolante “vuoto”, la penosa carenza di intelligenza e di sapienza del ricco. La carenza di intelligenza diviene anche mancanza di relazioni e rifiuto di fraternità perché l’orizzonte interiore ed esistenziale del ricco è tutto assorbito dal proprio ego: egli “arricchisce per sé” (12,20) dimenticando Dio e i fratelli. Il peccato è sempre, ricorda Agostino, “ripiegamento del cuore su di sé”.
Colpisce il fatto che la parabola che Gesù narra abbia un unico protagonista, almeno prima dell’intervento di Dio nel v. 20, e sia costituita da un monologo interiore dell’uomo che, già ricco, viene beneficiato ulteriormente da un raccolto particolarmente abbondante della sua campagna (12,16). Il dialogo con sé stesso è una forma letteraria con cui l’autore svela il carattere del protagonista e consente al lettore di entrare nell’animo del personaggio e di coglierne i movimenti interiori, i dubbi, le riflessioni e infine le decisioni a cui perviene e le basi su cui fonda tali decisioni. Interessante la successione tra la domanda “Che farò?” (12,17) e la risoluzione “Farò così” (12,18), che troviamo analoga nel monologo interiore dell’amministratore disonesto. Nella situazione critica in cui si viene a trovare, quest’ultimo si chiede “Che farò?” (Lc 16,3) e si risponde “So che cosa farò” (16,4). Il lettore si trova di fronte a una sorta di radiografia dell’anima del protagonista, segue il cammino dei suoi ragionamenti e può raffrontarli con i propri modi di pensare, di riflettere, di reagire alle situazioni della vita. Come in uno specchio egli può vedere riflessa la propria interiorità nella interiorità del personaggio che gli viene presentata “al lavoro”, e può passare alla riflessione sui propri modi di prendere decisioni e di agire. E così, il lettore si sente direttamente riguardato dalla parola e dalla domanda che Dio pone al termine della parabola.
E l’insegnamento da trarre è quello della memoria della propria condizione di caducità e mortalità che anche la tradizione sapienziale veterotestamentaria ricorda a più riprese come necessaria per vivere con sapienza e umiltà e per sapersi rapportare con saggezza ai beni terreni (Sal 39,6-7; Sir 11,18-19). In effetti, l’avidità, la brama di ricchezza inganna l’uomo promettendogli di poter avere tutto, comprare e possedere tutto: “Tutto, infatti, obbedisce al denaro”, dice Qoelet (10,19). Tommaso d’Aquino dirà: “Con le ricchezze uno acquista la possibilità di commettere qualsiasi peccato e di soddisfare tutti i desideri peccaminosi: ecco in che modo la cupidigia è la radice di tutti i mali”. La memoria della morte è qui elemento che salva l’umanità stessa dell’uomo preservandola da illusioni dall’esito catastrofico.
Luciano Manicardi
Monastero di Bose