Letture: Sapienza 9,13-18; Salmo 89; Filèmone 9b-10.12-17; Luca 14,25-33
Parole dure e severe. Alcune bruciano come chiodi di una crocifissione del cuore. Se uno non mi ama più di quanto ami padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e perfino la propria vita, non può… Un elenco puntiglioso di sette oggetti d’amore che compongono la geografia del cuore, la nostra mappa della felicità. Se uno non mi ama più della propria vita… sembrano le parole di un esaltato. Ma davvero questo brano parla di sacrificare qualsiasi legame del cuore? Credo si tratti di colpi duri che spezzano la conchiglia per trovare la perla. Il punto di comparazione è attorno al verbo “amare”, in una formula per me meravigliosa e creativa “amare di più”. Le condizioni che Gesù pone contengono il «morso del più», il loro obiettivo non è una diminuzione ma un potenziamento, il cuore umano non è figlio di sottrazioni ma di addizioni, non è chiesto di sacrificare ma di aggiungere. Come se dicesse: Tu sai quanto è bello dare e ricevere amore, quanto gli affetti ti lavorino per farti uomo realizzato, donna felice, ebbene io posso offrirti qualcosa di ancora più bello e vitale.
Gesù si offre come incremento, accrescimento di vita. Una vita intensa, piena, profondamente amata e mai rinnegata. Chi non porta la propria croce… La croce non è da portare per amore della sofferenza. «Credimi, è così semplice quando si ama» (J. Twardowski): là dove metti il tuo cuore, lì troverai anche le tue ferite. Con il suo “amare di più” Gesù non intende instaurare una competizione sentimentale o emotiva tra sé e la costellazione degli affetti del discepolo. Da una simile sfida affettiva sa bene che non uscirebbe vincitore, se non presso pochi “folli di Dio”. Per comprendere nel giusto senso il verbo amare, occorre considerare il retroterra biblico, confrontarsi con il Dio geloso dell’Alleanza (Dt 6,15) che chiede di essere amato con tutto il cuore e l’anima e le forze (in modo radicale come Gesù).
La richiesta di amare Dio non è primariamente affettiva. Lungo tutta l’Alleanza e i Profeti significa essere fedeli, non seguire gli idoli, ascoltare, ubbidire, essere giusti nella vita. Amare con tutto il cuore, la totalità del cuore non significa esclusività. Amerai Dio con tutto il cuore, non significa amerai solo lui. Con tutto il cuore amerai anche tua madre, tuo figlio, tuo marito, il tuo amico. Senza amori dimezzati. Ascolta Israele: non avrai altro dio all’infuori di me, e non già: non avrai altri amori all’infuori di me. Gesù si offre come ottavo oggetto d’amore al nostro cuore plurale, come pienezza della polifonia dell’esistenza. E lo può fare perché Lui possiede la chiave dell’arte di amare fino in fondo, fino all’estremo del dono.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
«Quale uomo può conoscere il volere di Dio?» (Sap 9,13). Attraverso questo interrogativo, che non di rado affiora lungo il cammino della nostra vita, siamo posti di fronte a uno scarto in qualche modo costitutivo della nostra natura umana. L’uomo fa fatica a vedere lontano, i passi del suo pensiero sono «incerti e… timidi», poiché le sue prospettive sono limitate: «a stento immaginiamo le cose della terra… ma chi ha investigato le cose del cielo?» (Sap 9,16). La parola Dio custodisce e rivela all’uomo «ciò che è gradito» a Dio (cfr.Sap 9,18), traccia il sentiero del cammino che conduce alla sua volontà. Alle volte è però troppo esigente, in quanto ci pone di fronte a paradossi per noi insuperabili e sembra andare oltre ogni razionalità: «se uno viene a me e non mi ama più di quanto ama suo padre…chiunque non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26.33).
L’inadeguatezza dell’uomo, la sua incapacità di un autentico discernimento secondo il volere di Dio è superata solo da quella Sapienza che Dio stesso dona senza misura: «chi avrebbe conosciuto il tuo volere se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?» (Sap 9,17). È lo Spirito di Dio, che ci è stato dato da colui che conosce il Padre e i suoi disegni, a superare questa nostra incapacità di discernere, nel groviglio delle nostre vicende quotidiane, nella pesantezza del nostro pensare e volere, ciò che è gradito a Dio. Mediante questa sapienza spirituale noi possiamo valutare tutte le cose e tutte le situazioni in maniera talvolta paradossale, ma conforme all’unica Verità. Allora, assieme a Dio e imparando da Lui, noi possiamo contare i passi della nostra vita, dirigerli sulle sue vie, infondere in essi il gusto della sua sapienza: «Insegnaci a contare i nostri giorni – ci invita pregare il salmo – e acquisteremo un cuore saggio» (Sal 89,12).
Solo un cuore abitato dalla sapienza che viene dall’alto può valutare, nella logica evangelica, la chiamata alla sequela di Gesù. Anzi, Gesù stesso è quella sapienza che il Padre ci dona e che ci rivela la sua volontà; solo fissando lo sguardo su Gesù, possiamo cogliere la verità di quel cammino che ci viene da lui indicato e superare tutto ciò che a noi pare illogico, paradossale e addirittura umanamente urtante. Dunque, i versetti di Lc 14,25-33 possono essere letti e compresi solo in questa prospettiva.
Luca sottolinea che Gesù, prima di pronunciare la dura parola della sequela a quella «folla numerosa che andava con lui, si voltò» (v. 25). Solo ponendosi di fronte al volto di Gesù (a quello sguardo che si volge indietro per veder coloro che lo seguono, quel volto che ci precede sempre nel nostro faticoso cammino), l’uomo può comprendere quella parola che non solo è radicale o esigente, ma dura; anzi, urtante: «se uno viene a me, e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre…e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo» (vv. 26-27). Attraverso il suo sguardo e la sua parola penetrante, Gesù anzitutto mette in guardia quella folla di uomini che gli va dietro circa la serietà di quel cammino che pensano di poter fare: quanti di questi ‘ammiratori’ entusiasti cammineranno con lui sino in fondo? Quanti sapranno condividere lo scandalo della croce (portare la propria croce)?
Gesù esige un salto di qualità in questo cammino dietro a lui: «se uno viene a me…». E questo è dato anzitutto dall’incontro con lui, perché è lui che deve essere seguito. Dunque, non si deve mai dimenticare che c’è uno che precede, che cammina avanti, che conosce la strada, che sa quale è la meta e il senso di essa. L’essere discepoli non è la realizzazione personale di una opera il cui obbiettivo è nelle nostre mani e lo si può raggiungere con il nostro sforzo, con le nostre possibilità, con la nostra buona volontà. Le due parabole, quella della torre (vv.28-30) e quella del re che si prepara alla guerra (vv. 31-32), potrebbero suggerire l’idea di una scelta ben calcolata, ponderata; anzi, sembra quasi un’allusione a quel discernimento sapiente che sa valutare le proprie possibilità e quindi, alla fine, anche accettare la rinuncia di una impresa al di sopra delle proprie forze.
Prudenza, capacità di ponderare la serietà e rischi di una scelta, saggio calcolo: certamente queste parabole suggeriscono tutto questo. Ma si potrebbe dire che il calcolo previsto è quello che permette di «trovare i modi non per sfuggire alla logica della croce, bensì per viverla sino alle estreme conseguenze. Questo è il “calcolo” richiesto al discepolo» (B. Maggioni). «Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi…» (v.33): la sequela non è semplice questione di programma ben valutato, ma è libertà da tutto e capacità di affidamento. Non si diventa discepoli misurando e calcolando le proprie forze, ma liberi e senza resistenze, vulnerabili, si diventa discepoli consegnandosi e affidandosi totalmente e radicalmente a colui che sta davanti.
Il discepolo, dunque, è colui che accetta di avere un maestro, che si lascia guidare, che umilmente pone i suoi passi dietro a quelli di colui che conosce la strada; il discepolo è colui che non presume di sé, ma sa continuamente consegnare la sua debolezza nelle mani di colui che può tutto. Certamente, uno può consegnare se stesso solo se è libero. Ecco allora il senso della parola dura di Gesù, una parola che mette in guardia da scelte superficiali, troppo entusiastiche, scelte calcolate e piene di riserve. Due espressioni focalizzano la forza e la radicalità della sequela: odiare (v.26) e portare la propria croce (v.27). L’utilizzo del verbo odiare (di chiaro sapore semitico) esprime anzitutto la necessità di un distacco che conduce ad una libertà capace di raggiungere il centro della propria vita (odiare la propria vita significa liberala da ciò che la soffoca, se si rimane attaccati egoisticamente ad essa). Ma questo distacco deve raggiungere anche il tessuto delle relazioni affettive: «padre, madre, moglie, figli, fratelli e sorelle…».
Che significato ha questa parola apparentemente così inumana e contro la stessa legge di Dio? A qualcuno Gesù può chiedere una sequela che passa concretamente attraverso una rinuncia ad un modo di vivere le relazioni e il rapporto con le cose: è la scelta di chi accoglie il dono del celibato e di chi accetta la povertà come via evangelica. Ma ciò che è importante e ciò che deve essere convertito, se uno vuole essere discepolo di Gesù, è il modo di vivere le relazioni e il rapporto con le cose. «Odiare il padre e la madre» e «rinunciare a tutti propri averi» (v. 33) per seguire Gesù, vuol dire mettere al centro della propria vita lo stesso Signore e da lì ripartire per intessere le relazioni più quotidiane, rapportarsi alle cose e ai beni materiali, fare delle scelte che testimonino la libertà e la gioia evangeliche. Seguire Gesù significa allora amare come lui ama, anzi lasciare che lui ami attraverso di noi.
Portare la croce è l’altra paradossale condizione per seguire Gesù. È una espressione plastica (richiama il patibolo che il condannato portava sulle spalle avviandosi al luogo del supplizio) che non esprime direttamente tutte quelle sofferenze che si è chiamati ad accettare nella logica della volontà di Dio. La croce è sì sapienza di Dio, ma in sé non è un bene che Dio vuole. La croce è comprensibile solo in rapporto a Gesù, come espressione di una condivisione radicale della sua logica e del suo destino. Allora portare la croce è come avviarsi verso una morte e, con Gesù, essere disposti a donare la propria vita. Non si tratta dunque di assumere ciò che già fa parte della condizione umana (la sofferenza) ed eventualmente accettarlo passivamente (o spiritualizzarlo): portare la croce vuol dire conformarsi al cammino di Gesù e come lui camminare verso il dono della vita. Ma, non dimentichiamolo mai, tutto questo è possibile perché Qualcuno cammina davanti a noi: è lui che raccoglie le nostre fatiche e porta il peso della nostra debolezza. Seguire Gesù mette certamente in gioco la nostra scelta, con tutti noi stessi (mente, cuore, volontà, sentimenti, ecc.), ma esige soprattutto la capacità di rinunciare a tutte quelle sicurezze interiori che ci fanno forti, per affidarci e consegnarci nella nostra povertà e inadeguatezza a colui che ci fa discepoli. Noi non possiamo salvarci: siamo salvati. Non possiamo farci discepoli: siamo fatti discepoli, giorno dopo giorno, da Gesù.
Monastero di Dumenza
XXIII domenica
Tempo ordinario, Anno C
Letture: Sapienza 9,13-18; Salmo 89; Filèmone 9b-10.12-17; Luca 14,25-33
Parole dure e severe. Alcune bruciano come chiodi di una crocifissione del cuore. Se uno non mi ama più di quanto ami padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e perfino la propria vita, non può… Un elenco puntiglioso di sette oggetti d’amore che compongono la geografia del cuore, la nostra mappa della felicità. Se uno non mi ama più della propria vita… sembrano le parole di un esaltato. Ma davvero questo brano parla di sacrificare qualsiasi legame del cuore? Credo si tratti di colpi duri che spezzano la conchiglia per trovare la perla. Il punto di comparazione è attorno al verbo “amare”, in una formula per me meravigliosa e creativa “amare di più”. Le condizioni che Gesù pone contengono il «morso del più», il loro obiettivo non è una diminuzione ma un potenziamento, il cuore umano non è figlio di sottrazioni ma di addizioni, non è chiesto di sacrificare ma di aggiungere. Come se dicesse: Tu sai quanto è bello dare e ricevere amore, quanto gli affetti ti lavorino per farti uomo realizzato, donna felice, ebbene io posso offrirti qualcosa di ancora più bello e vitale.
Gesù si offre come incremento, accrescimento di vita. Una vita intensa, piena, profondamente amata e mai rinnegata. Chi non porta la propria croce… La croce non è da portare per amore della sofferenza. «Credimi, è così semplice quando si ama» (J. Twardowski): là dove metti il tuo cuore, lì troverai anche le tue ferite. Con il suo “amare di più” Gesù non intende instaurare una competizione sentimentale o emotiva tra sé e la costellazione degli affetti del discepolo. Da una simile sfida affettiva sa bene che non uscirebbe vincitore, se non presso pochi “folli di Dio”. Per comprendere nel giusto senso il verbo amare, occorre considerare il retroterra biblico, confrontarsi con il Dio geloso dell’Alleanza (Dt 6,15) che chiede di essere amato con tutto il cuore e l’anima e le forze (in modo radicale come Gesù).
La richiesta di amare Dio non è primariamente affettiva. Lungo tutta l’Alleanza e i Profeti significa essere fedeli, non seguire gli idoli, ascoltare, ubbidire, essere giusti nella vita. Amare con tutto il cuore, la totalità del cuore non significa esclusività. Amerai Dio con tutto il cuore, non significa amerai solo lui. Con tutto il cuore amerai anche tua madre, tuo figlio, tuo marito, il tuo amico. Senza amori dimezzati. Ascolta Israele: non avrai altro dio all’infuori di me, e non già: non avrai altri amori all’infuori di me. Gesù si offre come ottavo oggetto d’amore al nostro cuore plurale, come pienezza della polifonia dell’esistenza. E lo può fare perché Lui possiede la chiave dell’arte di amare fino in fondo, fino all’estremo del dono.
P. Ermes Ronchi
Avvenire
«Quale uomo può conoscere il volere di Dio?» (Sap 9,13). Attraverso questo interrogativo, che non di rado affiora lungo il cammino della nostra vita, siamo posti di fronte a uno scarto in qualche modo costitutivo della nostra natura umana. L’uomo fa fatica a vedere lontano, i passi del suo pensiero sono «incerti e… timidi», poiché le sue prospettive sono limitate: «a stento immaginiamo le cose della terra… ma chi ha investigato le cose del cielo?» (Sap 9,16). La parola Dio custodisce e rivela all’uomo «ciò che è gradito» a Dio (cfr.Sap 9,18), traccia il sentiero del cammino che conduce alla sua volontà. Alle volte è però troppo esigente, in quanto ci pone di fronte a paradossi per noi insuperabili e sembra andare oltre ogni razionalità: «se uno viene a me e non mi ama più di quanto ama suo padre…chiunque non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26.33).
L’inadeguatezza dell’uomo, la sua incapacità di un autentico discernimento secondo il volere di Dio è superata solo da quella Sapienza che Dio stesso dona senza misura: «chi avrebbe conosciuto il tuo volere se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?» (Sap 9,17). È lo Spirito di Dio, che ci è stato dato da colui che conosce il Padre e i suoi disegni, a superare questa nostra incapacità di discernere, nel groviglio delle nostre vicende quotidiane, nella pesantezza del nostro pensare e volere, ciò che è gradito a Dio. Mediante questa sapienza spirituale noi possiamo valutare tutte le cose e tutte le situazioni in maniera talvolta paradossale, ma conforme all’unica Verità. Allora, assieme a Dio e imparando da Lui, noi possiamo contare i passi della nostra vita, dirigerli sulle sue vie, infondere in essi il gusto della sua sapienza: «Insegnaci a contare i nostri giorni – ci invita pregare il salmo – e acquisteremo un cuore saggio» (Sal 89,12).
Solo un cuore abitato dalla sapienza che viene dall’alto può valutare, nella logica evangelica, la chiamata alla sequela di Gesù. Anzi, Gesù stesso è quella sapienza che il Padre ci dona e che ci rivela la sua volontà; solo fissando lo sguardo su Gesù, possiamo cogliere la verità di quel cammino che ci viene da lui indicato e superare tutto ciò che a noi pare illogico, paradossale e addirittura umanamente urtante. Dunque, i versetti di Lc 14,25-33 possono essere letti e compresi solo in questa prospettiva.
Luca sottolinea che Gesù, prima di pronunciare la dura parola della sequela a quella «folla numerosa che andava con lui, si voltò» (v. 25). Solo ponendosi di fronte al volto di Gesù (a quello sguardo che si volge indietro per veder coloro che lo seguono, quel volto che ci precede sempre nel nostro faticoso cammino), l’uomo può comprendere quella parola che non solo è radicale o esigente, ma dura; anzi, urtante: «se uno viene a me, e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre…e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo» (vv. 26-27). Attraverso il suo sguardo e la sua parola penetrante, Gesù anzitutto mette in guardia quella folla di uomini che gli va dietro circa la serietà di quel cammino che pensano di poter fare: quanti di questi ‘ammiratori’ entusiasti cammineranno con lui sino in fondo? Quanti sapranno condividere lo scandalo della croce (portare la propria croce)?
Gesù esige un salto di qualità in questo cammino dietro a lui: «se uno viene a me…». E questo è dato anzitutto dall’incontro con lui, perché è lui che deve essere seguito. Dunque, non si deve mai dimenticare che c’è uno che precede, che cammina avanti, che conosce la strada, che sa quale è la meta e il senso di essa. L’essere discepoli non è la realizzazione personale di una opera il cui obbiettivo è nelle nostre mani e lo si può raggiungere con il nostro sforzo, con le nostre possibilità, con la nostra buona volontà. Le due parabole, quella della torre (vv.28-30) e quella del re che si prepara alla guerra (vv. 31-32), potrebbero suggerire l’idea di una scelta ben calcolata, ponderata; anzi, sembra quasi un’allusione a quel discernimento sapiente che sa valutare le proprie possibilità e quindi, alla fine, anche accettare la rinuncia di una impresa al di sopra delle proprie forze.
Prudenza, capacità di ponderare la serietà e rischi di una scelta, saggio calcolo: certamente queste parabole suggeriscono tutto questo. Ma si potrebbe dire che il calcolo previsto è quello che permette di «trovare i modi non per sfuggire alla logica della croce, bensì per viverla sino alle estreme conseguenze. Questo è il “calcolo” richiesto al discepolo» (B. Maggioni). «Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi…» (v.33): la sequela non è semplice questione di programma ben valutato, ma è libertà da tutto e capacità di affidamento. Non si diventa discepoli misurando e calcolando le proprie forze, ma liberi e senza resistenze, vulnerabili, si diventa discepoli consegnandosi e affidandosi totalmente e radicalmente a colui che sta davanti.
Il discepolo, dunque, è colui che accetta di avere un maestro, che si lascia guidare, che umilmente pone i suoi passi dietro a quelli di colui che conosce la strada; il discepolo è colui che non presume di sé, ma sa continuamente consegnare la sua debolezza nelle mani di colui che può tutto. Certamente, uno può consegnare se stesso solo se è libero. Ecco allora il senso della parola dura di Gesù, una parola che mette in guardia da scelte superficiali, troppo entusiastiche, scelte calcolate e piene di riserve. Due espressioni focalizzano la forza e la radicalità della sequela: odiare (v.26) e portare la propria croce (v.27). L’utilizzo del verbo odiare (di chiaro sapore semitico) esprime anzitutto la necessità di un distacco che conduce ad una libertà capace di raggiungere il centro della propria vita (odiare la propria vita significa liberala da ciò che la soffoca, se si rimane attaccati egoisticamente ad essa). Ma questo distacco deve raggiungere anche il tessuto delle relazioni affettive: «padre, madre, moglie, figli, fratelli e sorelle…».
Che significato ha questa parola apparentemente così inumana e contro la stessa legge di Dio? A qualcuno Gesù può chiedere una sequela che passa concretamente attraverso una rinuncia ad un modo di vivere le relazioni e il rapporto con le cose: è la scelta di chi accoglie il dono del celibato e di chi accetta la povertà come via evangelica. Ma ciò che è importante e ciò che deve essere convertito, se uno vuole essere discepolo di Gesù, è il modo di vivere le relazioni e il rapporto con le cose. «Odiare il padre e la madre» e «rinunciare a tutti propri averi» (v. 33) per seguire Gesù, vuol dire mettere al centro della propria vita lo stesso Signore e da lì ripartire per intessere le relazioni più quotidiane, rapportarsi alle cose e ai beni materiali, fare delle scelte che testimonino la libertà e la gioia evangeliche. Seguire Gesù significa allora amare come lui ama, anzi lasciare che lui ami attraverso di noi.
Portare la croce è l’altra paradossale condizione per seguire Gesù. È una espressione plastica (richiama il patibolo che il condannato portava sulle spalle avviandosi al luogo del supplizio) che non esprime direttamente tutte quelle sofferenze che si è chiamati ad accettare nella logica della volontà di Dio. La croce è sì sapienza di Dio, ma in sé non è un bene che Dio vuole. La croce è comprensibile solo in rapporto a Gesù, come espressione di una condivisione radicale della sua logica e del suo destino. Allora portare la croce è come avviarsi verso una morte e, con Gesù, essere disposti a donare la propria vita. Non si tratta dunque di assumere ciò che già fa parte della condizione umana (la sofferenza) ed eventualmente accettarlo passivamente (o spiritualizzarlo): portare la croce vuol dire conformarsi al cammino di Gesù e come lui camminare verso il dono della vita. Ma, non dimentichiamolo mai, tutto questo è possibile perché Qualcuno cammina davanti a noi: è lui che raccoglie le nostre fatiche e porta il peso della nostra debolezza. Seguire Gesù mette certamente in gioco la nostra scelta, con tutti noi stessi (mente, cuore, volontà, sentimenti, ecc.), ma esige soprattutto la capacità di rinunciare a tutte quelle sicurezze interiori che ci fanno forti, per affidarci e consegnarci nella nostra povertà e inadeguatezza a colui che ci fa discepoli. Noi non possiamo salvarci: siamo salvati. Non possiamo farci discepoli: siamo fatti discepoli, giorno dopo giorno, da Gesù.
Monastero di Dumenza