XXIX domenica

Tempo ordinario, Anno C

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. […]

Disse poi una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai. Questi sempre e mai, parole infinite e definitive, sembrano una missione impossibile. Eppure qualcuno c’è riuscito: «Alla fine della sua vita frate Francesco non pregava più, era diventato preghiera» (Tommaso da Celano). Ma come è possibile lavorare, incontrare, studiare, mangiare, dormire e nello stesso tempo pregare? Dobbiamo capire: pregare non significa dire preghiere; pregare sempre non vuol dire ripetere formule senza smettere mai. Gesù stesso ci ha messo in guardia: «Quando pregate non moltiplicate parole, il Padre sa…» (Mt 6,7). Un maestro spirituale dei monaci antichi, Evagrio il Pontico, ci assicura: «Non compiacerti nel numero dei salmi che hai recitato: esso getta un velo sul tuo cuore. Vale di più una sola parola nell’intimità, che mille stando lontano».

Intimità: pregare alle volte è solo sentire una voce misteriosa che ci sussurra all’orecchio: io ti amo, io ti amo, io ti amo. E tentare di rispondere. Pregare è come voler bene, c’è sempre tempo per voler bene: se ami qualcuno, lo ami giorno e notte, senza smettere mai. Basta solo che ne evochi il nome e il volto, e da te qualcosa si mette in viaggio verso quella persona. Così è con Dio: pensi a lui, lo chiami, e da te qualcosa si mette in viaggio all’indirizzo dell’eterno: «Il desiderio prega sempre, anche se la lingua tace. Se tu desideri sempre, tu preghi sempre» (sant’Agostino). Il tuo desiderio di preghiera è già preghiera, non occorre star sempre a pensarci. La donna incinta, anche se non pensa in continuazione alla creatura che vive in lei, diventa sempre più madre a ogni battito del cuore.

Il Vangelo ci porta poi a scuola di preghiera da una vedova, una bella figura di donna, forte e dignitosa, anonima e indimenticabile, indomita davanti al sopruso. C’era un giudice corrotto. E una vedova si recava ogni giorno da lui e gli chiedeva: fammi giustizia contro il mio avversario! Una donna che non si arrende ci rivela che la preghiera è un no gridato al «così vanno le cose», è il primo vagito di una storia neonata: la preghiera cambia il mondo cambiandoci il cuore.

Qui Dio non è rappresentato dal giudice della parabola, lo incontriamo invece nella povera vedova, che è carne di Dio in cui grida la fame di giustizia. Perché pregare? È come chiedere: perché respirare? Per vivere! Alla fine pregare è facile come respirare. «Respirate sempre Cristo», ultima perla dell’abate Antonio ai suoi monaci, perché è attorno a noi. «In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28). Allora la preghiera è facile come il respiro, semplice e vitale come respirare l’aria stessa di Dio.

Letture: Esodo 17,8-13; Salmo 120; 2 Timoteo 3,14-4,2; Luca 18,1-8

Ermes Ronchi
Avvenire

 

Nel capitolo 18 del vangelo di Luca, l’autore conclude il lungo insegnamento sulla fede, che aveva iniziato nel capitolo precedente con la richiesta dei discepoli a Gesù “Accresci la nostra fede”. Ma la fede non dipende da Dio, darla, accrescerla o meno, la fede è la risposta degli uomini al dono d’amore che Dio dà a tutti. Come si è visto molto bene nell’episodio del samaritano, l’unico che torna indietro a rispondere, a ringraziare del dono della vita, e solo per lui si parla di fede. Ebbene, nel brano che adesso vediamo, si conclude questo lungo insegnamento sulla fede. Rischiando di essere fuorviati dal primo versetto che leggiamo, a comprendere che questo sia un insegnamento sulla preghiera.

In realtà non è un insegnamento sulla preghiera, ma è l’assicurazione della giustizia in questa società. Quindi non un insegnamento sulla preghiera, ma l’assicurazione del compimento della giustizia in questa società. Il fine di questo brano, che adesso vediamo, è la giustizia e il mezzo è la preghiera. Leggiamo il capitolo 18 del vangelo di Luca. “Diceva loro” – Gesù si rivolge ai discepoli, che, vi ricordo, avevano chiesto “Accresci la nostra fede” – “una parabola sulla necessità di pregare sempre” – quindi pregare con perseveranza – “senza stancarsi mai”.

Questa preghiera, l’abbiamo già detto, è finalizzata a una cosa, a ottenere giustizia. E’ una preghiera che si risolve in un impegno da parte dei discepoli perché ci sia giustizia. E Gesù, in questa parabola, presenta una città in cui viveva un giudice, «Che non temeva Dio». Ecco, teniamo presente che è una parabola, quindi ha un linguaggio particolare, non è un insegnamento sulla preghiera, tanto è vero che mai viene nominato il Padre, il nome del Dio di Gesù in questo vangelo. Non viene nominato il Padre, colui al quale non bisogna chiedere perché conosce i bisogni degli uomini prima che questi glieli presentino, ma Dio.

«Né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova»; la vedova, insieme all’orfano e allo straniero, erano le persone che non avevano un uomo che pensasse a loro, erano le persone sprovvedute, erano gli emarginati. E Dio, nel salmo 68, si dichiara difensore delle vedove. «Una vedova che andava da lui dicendo: Fammi giustizia». Ecco, l’espressione “fare giustizia”, importante per la comprensione di questo brano, compare per ben quattro volte. «Contro il mio avversario. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non tempo Dio e non ho riguardo per alcuno …», il ritratto che Gesù fa dell’uomo potente è molto significativo.

Sono persone ciniche alle quali interessa soltanto il proprio interesse e non i bisogni delle persone. «… dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia» – e per la seconda volta torna il tema della giustizia – «perché non venga continuamente a importunarmi». E’ curioso il termine che adopera l’evangelista, che letteralmente è “farmi un occhio nero”: è tradotto con “importunarmi”, ma “fare un occhio nero” non significa tanto che questa vedova al giudice lo colpisca con un pugno, era un’espressione che significava “danneggiare la reputazione”. Questa è la parabola.

«E il Signore soggiunse» – quindi rivolto ai discepoli – «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto: Ed io non farò forse giustizia» – e per la terza volta compare l’espressione “fare giustizia” – “«ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui?». Quindi, se un giudice disonesto riesce a fare giustizia per non essere più importunato, quanto più il Padre, al quale non bisogna chiedere, farà giustizia ai suoi eletti. Questo “gridare giorno e notte” è un’espressione della preghiera che l’evangelista prende dai salmi, i salmi 22 e 42. E che cos’è che gridano questi eletti giorno e notte verso di lui? Ebbene, l’evangelista Luca è quello al quale sta più a cuore di tutti gli altri il tema della giustizia, della giustizia sociale.

Per questo, già all’inizio del suo vangelo, nel Magnificat, l’inno di lode che mette in bocca a Maria e a Elisabetta, c’era scritto che il Signore ha disperso i superbi, che il Signore ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato, che il Signore ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote. E’ questa la giustizia che la comunità cristiana deve portare su questa terra, ma, perché si manifesti questa giustizia, che inaugura il regno di Dio, c’è bisogno di una rottura con i valori che la società presenta. Quindi non si può chiedere al Signore che si realizzi questa giustizia, se per primi i discepoli non hanno rotto con i valori falsi della società.

Quindi l’evangelista qui si richiama a quel desiderio di giustizia che corre lungo tutto il suo vangelo. Dice Gesù, «Li farà aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia» – e l’espressione “fare giustizia” compare per la quarta volta – «prontamente». Quindi Gesù assicura che se c’è questo desiderio di giustizia, questo cambio dei valori della società, il regno di Dio – perché di questo si tratta – si inaugura. Ma Gesù è dubbioso, dice: «Il Figlio dell’uomo», il figlio dell’uomo indica Gesù nella sua pienezza, nella condizione divina, Gesù è figlio di Dio, in quanto rappresenta Dio nella sua condizione umana, ma è figlio dell’Uomo in quanto rappresenta l’uomo nella sua piena condizione divina.

«Ma il Figlio dell’Uomo, quando verrà», in questo vangelo nel capitolo precedente, Gesù dice che il Figlio dell’Uomo verrà al momento della distruzione di Gerusalemme. Quando il tempio sarà abbattuto, questo ostacolo che impediva di manifestare la volontà di Dio al suo popolo, ecco che il Figlio dell’Uomo si manifesta, cioè si rende percepibile il progetto di Dio sull’umanità. «Ma il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Gesù, ai discepoli che avevano detto “Accresci la nostra fede”, aveva detto “No, non avete fede neanche come un chicco di senape”, il granello proverbialmente più piccolo. Gesù si chiede se i discepoli hanno questa fede, cioè una rottura con questa istituzione: ce l’avranno?

Ecco perché Gesù si chiede, in maniera dubitativa, anche perché questo vangelo termina in una maniera drammatica. Nonostante tutto ciò che Gesù ha detto e insegnato, i suoi discepoli rimangono attaccati alle istituzioni religiose e, al momento dell’ascensione di Gesù, tornano nel tempio a lodare il Signore, quel tempio che Gesù aveva dichiarato “un covo di ladri”, loro lo ritengono ancora un luogo sacro. Ecco perché Gesù si chiede se quando verrà troverà questa fede. Una fede che implica la rottura con le istituzioni, con i valori della società, per inaugurare quelli nuovi del regno di Dio.

p. Alberto Maggi
Il dialogo