XXXII domenica

Tempo ordinario, Anno C

Letture: Secondo libro dei Maccabei 7,1-2.9-14; Salmo 16; Seconda lettera ai tessalonicesi 2,16-3,5; Luca 20,27-38

Sono gli ultimi giorni di Gesù. I gruppi di potere, sacerdoti, anziani, farisei, scribi, sadducei sono uniti nel rifiuto di quel rabbì di periferia, sbucato dal nulla, che si arroga il potere di insegnare, senza averne l’autorità, senza nessuna carta in regola, un laico qualsiasi. Lo contestano, lo affrontano, lo sfidano, un cerchio letale che gli si stringe intorno. In questo episodio adottano una strategia diversa: metterlo in ridicolo. La storiella paradossale di una donna, sette volte vedova e mai madre, è adoperata dai sadducei come caricatura della fede nella risurrezione dei morti: di quale dei sette fratelli che l’hanno sposata sarà moglie quella donna? Gesù, come è solito fare quando lo si vuole imprigionare in questioni di corto respiro, ci invita a pensare altrimenti e più in grande: Quelli che risorgono non prendono moglie né marito. La vita futura non è il prolungamento di quella presente. Coloro che sono morti non risorgono alla vita biologica ma alla vita di Dio. La vita eterna vuol dire vita dell’Eterno.

Io sono la risurrezione e la vita, ha detto Gesù a Marta. Notiamo la successione: prima la risurrezione e poi la vita, con una sorta di inversione temporale, e non, come ci saremmo aspettati: prima la vita, poi la morte, poi la risurrezione. La risurrezione inizia in questa vita. Risurrezione dei vivi, più che dei morti, sono i viventi che devono alzarsi e destarsi: risorgere. Facciamo attenzione: Gesù non dichiara la fine degli affetti. “Se nel tuo paradiso non posso ritrovare mia madre, tieniti pure il tuo paradiso” (David. M. Turoldo). Bellissimo il verso di Mariangela Gualtieri: io ringraziare desidero per i morti nostri che fanno della morte un luogo abitato.

L’eternità non è una terra senza volti e senza nomi. Forte come la morte è l’amore, tenace più dello sheol (Cantico). Non è la vita che vince la morte, è l’amore; quando ogni amore vero si sommerà agli altri nostri amori veri, senza gelosie e senza esclusioni, generando non limiti o rimpianti, ma una impensata capacità di intensità, di profondità, di vastità. Un cuore a misura di oceano. Anzi: “non ci verrà chiesto di abbandonare quei volti amati e familiari per rivolgerci a uno sconosciuto, fosse pure Dio stesso. Il nostro errore non è stato quello di averli amati troppo, ma di non esserci resi conto di che cosa veramente stavamo amando” (Clive Staples Lewis). Quando vedremo il volto di Dio, capiremo di averlo sempre conosciuto: faceva parte di tutte le nostre innocenti esperienze d’amore terreno, creandole, sostenendole, e muovendole, istante dopo istante, dall’interno. Tutto ciò che in esse era autentico amore, è stato più suo che nostro, e nostro soltanto perché suo. Inizio di ogni risurrezione.

P. Ermes Ronchi
Avvenire

 

In questa domenica, che ci porta ormai alla fine di questo anno liturgico, il brano del vangelo di Luca ci parla di resurrezione, di un altro mondo, di un Dio dei vivi e non dei morti. Per noi tutti che, nonostante la nostra fede, davanti alla morte proviamo sconcerto, disagio, a volte proprio paura, Gesù viene a parlarci di VITA, quella vera, quella per sempre. Davanti alla finitudine che è la condizione dell’uomo, Dio ci parla di un “per sempre” che diventa vero anche per quell’uomo che a causa del peccato deve fare i conti per tutta la sua vita con la morte e spesso lo fa come se la morte fosse l’ultima parola. La resurrezione di Cristo, centro della nostra fede, è la promessa per ogni creatura di entrare con Gesù nel cuore del Padre, nella gloria dei cieli, nel mondo che non avrà fine. “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né dolore perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,3-4). Ma già il profeta Isaia diceva: “Eliminerà la morte per sempre. Asciugherà le lacrime da ogni volto e si dirà in quel giorno: ecco il nostro Dio in cui abbiamo sperato perché ci salvasse”. (Is 25,7-9)

Nel nostro testo leggiamo che si avvicinarono a Gesù dei sadducei. Costoro facevano parte dell’aristocrazia sacerdotale e negavano la resurrezione mettendola in ridicolo anche come semplice prospettiva. Sicuramente questi uomini presentano a Gesù un caso limite anche perché hanno il desiderio di polemizzare con i farisei i quali, invece, credevano nella resurrezione dei morti e che nel racconto (di Marco) sul tributo a Cesare erano stati sconfitti nella loro controversia con Gesù. I sadducei per dimostrare l’incongruenza della resurrezione si basavano sulla legge del levirato, benché ai tempi di Gesù non fosse già più praticata perché era stata superata la concezione tribale! In base a Deuteronomio 25,5-10, il cognato (levir in latino, da cui il nome della legge) era tenuto a sposare la moglie del fratello morto senza prole per poter dare il nome del defunto ai figli. Questo aveva lo scopo di garantire la trasmissione dei beni patrimoniali nel medesimo clan che altrimenti sarebbero andati dispersi confluendo in altri nuclei familiari.

Gesù risponde a questa provocazione dicendo che la vita dei risorti è una vita completamente nuova che non avrà più bisogno né del matrimonio, né del generare figli perché non ci sarà più la morte. Dobbiamo tenere presente che l’evangelista Luca parla a lettori di cultura greca dove la distinzione tra anima e corpo era molto forte: il corpo era la prigione dell’anima e solo se lo spirito riusciva a liberarsi del corpo poteva congiungersi al mondo divino e questo spiega perché per i greci la resurrezione fosse qualcosa di assurdo. Gesù sottolinea la discontinuità che la resurrezione ha con la vita terrena: c’è un mondo presente e un mondo futuro. La resurrezione non è la rianimazione di un cadavere, ma la spiritualizzazione di tutto l’essere umano che partecipa alla vita di Dio; dice infatti che “i figli di questo mondo” (v. 34) hanno una esistenza diversa dai “figli della resurrezione” (v. 35).

Nella nuova condizione di risorti saremo come angeli, figli di Dio che vivono per Lui. In Israele la fede della resurrezione non parte dal presupposto filosofico dell’immortalità dell’anima, ma dall’esperienza della promessa e della potenza di Dio. Il suo amore dura in eterno e non può venir meno neanche davanti alla morte: Dio deve vincerla e farci risorgere per mantenere la sua fedeltà. “Riconoscerete che io sono il Signore quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete, vi farò riposare nel vostro paese, saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò”. (Ez 37, 13-ss).

Lo deduciamo anche dalla prima lettura che oggi la liturgia ci offre nel libro dei Maccabei con la storia di sette fratelli (2 Mac 7,1-2.9-14). “Il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna” (v 9). “Da Dio si ha la speranza di essere da lui pure risuscitati” (v 14). Il fedele anticotestamentario (nel libro dei Maccabei siamo nel II sec a.C.) è fermamente convinto che il legame d’amore instauratosi tra il giusto e Dio già durante l’esistenza terrena, non può non giungere a fioritura perfetta. La comunione di grazie dell’esistenza presente si trasforma in comunione definitiva. La fede cristiana ha il suo inizio nella resurrezione di Gesù, infatti “se Cristo non è risorto è vana la nostra fede” (1Cor 15,17). La resurrezione è vivere per sempre con il Signore con il quale già ora viviamo: “Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato sé stesso per me” (Gal 2,20).

Nella resurrezione riceveremo la pienezza della nostra condizione di figli e avremo un corpo spirituale: “Il nostro corpo si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso; si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo psichico e risorge un corpo spirituale” (1Cor 15,42). “Che poi i morti risorgono lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto quando chiama il Signore Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi” (Lc 20,38); se Dio resta il loro Dio e loro sono morti significa necessariamente che sono risorti, la sua fedeltà non è vinta dalla morte! La nostra vita, quindi, può essere già ora piena di speranza sapendo che la morte non avrà mai l’ultima parola perché il Figlio ha vinto la morte con la sua morte! “Dov’è o morte la tua vittoria?” (1Cor 15,55) E come ci dice il libro della Sapienza: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi perché è il Signore amante della vita” (Sap 1,13, 11,26). E ancora: “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio e nessun tormento le toccherà… essi sono nella pace… la loro speranza è piena di immortalità… i fedeli dimoreranno presso di lui nell’amore” (Sap 3,1.2.4.9).

Monastero di Sant’Agata Feltria