Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo […].
Epifania, festa dei cercatori di Dio, dei lontani, che si sono messi in cammino dietro a un loro profeta interiore, a parole come quelle di Isaia. «Alza il capo e guarda». Due verbi bellissimi: alza, solleva gli occhi, guarda in alto e attorno, apri le finestre di casa al grande respiro del mondo. E guarda, cerca un pertugio, un angolo di cielo, una stella polare, e da lassù interpreta la vita, a partire da obiettivi alti. Il Vangelo racconta la ricerca di Dio come un viaggio, al ritmo della carovana, al passo di una piccola comunità: camminano insieme, attenti alle stelle e attenti l’uno all’altro. Fissando il cielo e insieme gli occhi di chi cammina a fianco, rallentando il passo sulla misura dell’altro, di chi fa più fatica.
Poi il momento più sorprendente: il cammino dei Magi è pieno di errori: perdono la stella, trovano la grande città anziché il piccolo villaggio; chiedono del bambino a un assassino di bambini; cercano una reggia e troveranno una povera casa. Ma hanno l’infinita pazienza di ricominciare. Il nostro dramma non è cadere, ma arrenderci alle cadute. Ed ecco: videro il bambino in braccio alla madre, si prostrarono e offrirono doni. Il dono più prezioso che i Magi portano non è l’oro, è il loro stesso viaggio. Il dono impagabile sono i mesi trascorsi in ricerca, andare e ancora andare dietro ad un desiderio più forte di deserti e fatiche. Dio desidera che abbiamo desiderio di Lui. Dio ha sete della nostra sete: il nostro regalo più grande.
Entrati, videro il Bambino e sua madre e lo adorarono. Adorano un bambino. Lezione misteriosa: non l’uomo della croce né il risorto glorioso, non un uomo saggio dalle parole di luce né un giovane nel pieno del vigore, semplicemente un bambino. Non solo a Natale Dio è come noi, non solo è il Dio-con-noi, ma è un Dio piccolo fra noi. E di lui non puoi avere paura, e da un bambino che ami non ce la fai ad allontanarti. Informatevi con cura del Bambino e poi fatemelo sapere perché venga anch’io ad adorarlo!
Erode è l’uccisore di sogni ancora in fasce, è dentro di noi, è quel cinismo, quel disprezzo che distruggono sogni e speranze. Vorrei riscattare queste parole dalla loro profezia di morte e ripeterle all’amico, al teologo, all’artista, al poeta, allo scienziato, all’uomo della strada, a chiunque: Hai trovato il Bambino? Ti prego, cerca ancora, accuratamente, nella storia, nei libri, nel cuore delle cose, nel Vangelo e nelle persone; cerca ancora con cura, fissando gli abissi del cielo e gli abissi del cuore, e poi raccontamelo come si racconta una storia d’amore, perché venga anch’io ad adorarlo, con i miei sogni salvati da tutti gli Erodi della storia e del cuore.
Letture: Isaia 60,1-6; Salmo 71; Efesini 3,2-3.5-6; Matteo 2,1-12
Ermes Ronchi
Avvenire
Alla nascita e alla morte di Gesù risuona per lui lo stesso titolo, “Re dei giudei”. Alla nascita – è il testo che oggi la liturgia ci propone – lo dicono i magi e lo ripetono gli scribi ed Erode; alla morte lo fa scrivere Pilato su un cartello (cf. Mc 15,26 e par.; Gv 19,19), lo usano i soldati per schernirlo (cf. Mc 15,18; Mt 27,29; Gv 19,3), lo leggono tutti i presenti all’esecuzione barbara della crocifissione (cf. Gv 19,20). Alla nascita e sotto la croce vi è la stessa rivelazione: l’umanità è una nella ricerca di Dio e nel ripudio di Dio, o meglio nel credere al bene con speranza oppure nel non credere al bene, preferendo la violenza, il male.
Dunque il vangelo dell’Epifania, della manifestazione dell’identità di Gesù alle genti, a quelli che non erano ebrei, figli di Israele, è un vangelo decisivo, che dà alla festa odierna un particolare significato: Gesù è nato Re dei giudei, Re del popolo di Dio, ma per tutti, e tutti possono cercarlo e andare a lui. In questo racconto di Matteo ci sono eventi, eventi nella storia, ma c’è anche una lettura che l’evangelista fa nella fede. Nasce un bambino in una semplice famiglia formata da un artigiano, Giuseppe, e dalla sua giovane moglie, Maria; nasce in una stalla, riparo per il gregge nella campagna di Betlemme, eppure alcuni uomini da lontano, dall’oriente, o meglio dalla loro sapienza “orientata”, nella loro ricerca sono portati a vedere in questa semplice nascita il compimento del loro cercare, la pienezza della loro attesa.
I magi non conoscono le Scritture né la lingua o le consuetudini della terra verso cui si mettono in viaggio. Sono talmente sprovveduti da chiedere informazioni a Erode circa la nascita del nuovo re, ma sono uomini abitati dal desiderio, dall’inquietudine e dunque in ricerca, in attesa. Tutti gli umani di ogni tempo e cultura hanno in comune soprattutto la ricerca del bene, anche se poi contraddicono questo loro desiderio così impegnativo. In ogni essere umano c’è un anelito al bene, alla vita piena, alla pace, e questo fuoco che abita gli umani li spinge a cercare, a mettersi in cammino, a dichiarare per loro insufficiente la terra che abitano, l’orizzonte consueto. Per questo cammino gli umani cercano e trovano come segnali ciò che possono: il cielo, la terra, il mare e anche le creature animate e inanimate con le quali sanno comunicare.
In quel lungo pellegrinaggio, soprattutto della mente e del cuore, alcuni sapienti, i magi, hanno guardato alle stelle, alla sabbia del deserto, alle bestie che cavalcavano, al bagaglio che trasportavano con sé, per vivere e per fare doni. Per chi scruta l’orizzonte sempre sorge una stella, sempre – come dice il nostro brano evangelico – c’è un oriente, un segno che sorge all’orizzonte, che invita al cammino. E così è avvenuto per quei mágoi, che dall’oriente (apò anatolôn) giungono a Gerusalemme, la città santa, l’ombelico del mondo (cf. Sal 48,3; cf. Ez 5,5; 38,12). Essi chiedono: “Dov’è il Re dei giudei che è nato?”, proprio ai giudei che non si erano accorti della nascita del loro Re. Non se n’era accorto il re che regnava in quel momento, Erode, non se n’erano accorti i sacerdoti del tempio di Gerusalemme e neppure gli esperti delle sante Scritture, gli scribi. Ecco lo scandalo: chi è deputato a conoscere e a osservare ciò che accade non sa, chi è capace di interpretare puntualmente le Scritture in riferimento al Re dei giudei lo annuncia con chiarezza e certezza, eppure in una situazione di radicale accecamento. È così, e ancora oggi avviene così: si possono conoscere le parole di Dio contenute nelle Scritture, si possono citare e spiegare con competenza, si possono addirittura insegnare agli altri, eppure, nel contempo, restare in una situazione di totale cecità o sordità, manifestazioni della sklerokardía, della callosità del cuore che impedisce di discernere la presenza dell’azione di Dio.
Questa venuta dei magi causa però inquietudine, turbamento da parte dei rappresentanti del potere politico e di tutta Gerusalemme, perché quando un potere ne vede sorgere un altro teme e trema, sentendosi minacciato. Da quell’ora l’inquietudine e il turbamento non cesseranno, fino al giorno in cui questo Re dei giudei che è nato andrà alla morte, rivestito di un manto di porpora, con una canna come scettro in mano, con una corona di spine sulla testa, deriso, sbeffeggiato e infine appeso nudo a un palo, la croce!
Eppure quei sapienti obbedienti alle Scritture dei giudei, anzi ri-orientati dalle Scritture, riescono nuovamente a vedere la stella che, dopo una lunga eclisse, li conduce fino al bambino Re Messia, a Betlemme, dove trovano ciò che cercavano ma che certamente non si aspettavano così: non una reggia, non una corte regale in festa, non lo sfarzo degno della nascita di un principe, ma semplicemente un bambino e sua madre. Contemplano non quello che avevano tanto atteso e cercato, ma altro: l’imprevedibile nascita di un povero bambino in una famiglia semplice che ha trovato riparo in una grotta. Tre sono i segni che i magi hanno ascoltato interpretato: la stella apparsa nel cielo, un evento di questo mondo che va assolutamente percepito e decifrato; le sante Scritture, che contengono quella parola di Dio che illumina e rivela ciò che non possiamo sapere da noi stessi; l’ardere del cuore che chiede di fare il viaggio, l’inquietudine che spinge a cercare, ad andare verso una promessa.
E così, come convertiti, mutati nella loro mente e nel loro cuore, i magi riconoscono la vera regalità nell’anti-regalità, la regalità potente e universale nella debolezza umana, in un infante incapace di parlare e di essere eloquente con la parola. Eppure capiscono, giungono alla fede, sebbene non siano destinatari né della rivelazione né delle sante Scritture; e non a caso Matteo annota che fanno ritorno al loro paese attraverso un altro cammino, cioè un altro modo di pensare e di vivere; “convertiti”, dunque.
Così avviene la rivelazione, per i giudei e per le genti: solo guardando alla debolezza di Gesù, al suo essere piccolo, si può comprendere la sua vera regalità, la sua vera identità, non plasmata in base alle immagini dei re e dei potenti di questo mondo. Per altre strade gli altri vangeli diranno la stessa cosa: contemplazione (theoría) di Gesù è il vederlo crocifisso (cf. Lc 23,48); visione che porta alla fede in Gesù è vederlo come seme caduto a terra (cf. Gv 12,24). Quei magi, convertiti alla vista del bambino in quella povera famiglia, in quella greppia, adorano, si prostrano e gli offrono in dono oro, incenso e mirra, prodotti preziosi dell’oriente, elaborati dalla cultura delle genti. Ciò che Gesù risorto chiederà ai discepoli – “Andate e fate discepole tutte le genti” (Mt 28,19) – ha qui la sua primizia, perché nei magi le genti iniziano a farsi discepole di Gesù stesso. Le genti, infatti, divengono discepole quando cercano con sincerità, si aprono con audacia e si mettono in cammino senza indugio.
Nell’Epifania del Re dei giudei a Betlemme comincia a manifestarsi quello scisma che si consumerà di fronte a Gesù: da una parte il riconoscimento e l’adorazione delle genti, dall’altra il non riconoscimento da parte dei figli della promessa. Eppure proprio in questo evento Gesù, l’umanizzazione del Dio di Israele, appare come luogo di incontro tra le genti e il popolo di Dio, perché figlio di Israele, Re dei giudei, ma riconosciuto e adorato come Re anche dall’umanità priva della promessa.
Quanti uomini e quante donne, dall’oriente e dall’occidente, dal nord e dal sud, come questi magi cercano il bene, si sentono viandanti, in cammino, si esercitano a riconoscere la salvezza come umanizzazione e si impegnano perché l’umano sia sempre più umano. Lo sappiano o meno, sono persone alle quali ogni bambino che nasce, ogni umano che viene al mondo deve apparire con la dignità di un re; come un fratello o una sorella che attende da noi il nostro oro (ciò che abbiamo), il nostro incenso (il profumo sprigionato dalla nostra presenza), la nostra mirra (ciò che sappiamo sacrificare di noi stessi, spendendo la vita per l’altro).
L’Epifania è manifestazione della vera regalità a tutti, cristiani e non cristiani. Ma ormai ci incamminiamo verso la Pasqua, come ricorda l’indizione della data di questa “festa delle feste”, che oggi viene fatta nelle chiese d’oriente e d’occidente: la Pasqua, quando il Re dei giudei farà la fine di chiunque osa pensare e mettere in pratica una regalità come servizio dell’altro e non come potere violento. Ma l’ultima parola spetta a Dio, al Dio di Gesù, colui che lo ha costituito Signore e Messia per sempre, Re dei Giudei e dunque Re dell’universo.
Enzo Bianchi
Monastero di Bose
Epifania del Signore
Anno C
Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo […].
Epifania, festa dei cercatori di Dio, dei lontani, che si sono messi in cammino dietro a un loro profeta interiore, a parole come quelle di Isaia. «Alza il capo e guarda». Due verbi bellissimi: alza, solleva gli occhi, guarda in alto e attorno, apri le finestre di casa al grande respiro del mondo. E guarda, cerca un pertugio, un angolo di cielo, una stella polare, e da lassù interpreta la vita, a partire da obiettivi alti. Il Vangelo racconta la ricerca di Dio come un viaggio, al ritmo della carovana, al passo di una piccola comunità: camminano insieme, attenti alle stelle e attenti l’uno all’altro. Fissando il cielo e insieme gli occhi di chi cammina a fianco, rallentando il passo sulla misura dell’altro, di chi fa più fatica.
Poi il momento più sorprendente: il cammino dei Magi è pieno di errori: perdono la stella, trovano la grande città anziché il piccolo villaggio; chiedono del bambino a un assassino di bambini; cercano una reggia e troveranno una povera casa. Ma hanno l’infinita pazienza di ricominciare. Il nostro dramma non è cadere, ma arrenderci alle cadute. Ed ecco: videro il bambino in braccio alla madre, si prostrarono e offrirono doni. Il dono più prezioso che i Magi portano non è l’oro, è il loro stesso viaggio. Il dono impagabile sono i mesi trascorsi in ricerca, andare e ancora andare dietro ad un desiderio più forte di deserti e fatiche. Dio desidera che abbiamo desiderio di Lui. Dio ha sete della nostra sete: il nostro regalo più grande.
Entrati, videro il Bambino e sua madre e lo adorarono. Adorano un bambino. Lezione misteriosa: non l’uomo della croce né il risorto glorioso, non un uomo saggio dalle parole di luce né un giovane nel pieno del vigore, semplicemente un bambino. Non solo a Natale Dio è come noi, non solo è il Dio-con-noi, ma è un Dio piccolo fra noi. E di lui non puoi avere paura, e da un bambino che ami non ce la fai ad allontanarti. Informatevi con cura del Bambino e poi fatemelo sapere perché venga anch’io ad adorarlo!
Erode è l’uccisore di sogni ancora in fasce, è dentro di noi, è quel cinismo, quel disprezzo che distruggono sogni e speranze. Vorrei riscattare queste parole dalla loro profezia di morte e ripeterle all’amico, al teologo, all’artista, al poeta, allo scienziato, all’uomo della strada, a chiunque: Hai trovato il Bambino? Ti prego, cerca ancora, accuratamente, nella storia, nei libri, nel cuore delle cose, nel Vangelo e nelle persone; cerca ancora con cura, fissando gli abissi del cielo e gli abissi del cuore, e poi raccontamelo come si racconta una storia d’amore, perché venga anch’io ad adorarlo, con i miei sogni salvati da tutti gli Erodi della storia e del cuore.
Letture: Isaia 60,1-6; Salmo 71; Efesini 3,2-3.5-6; Matteo 2,1-12
Ermes Ronchi
Avvenire
Alla nascita e alla morte di Gesù risuona per lui lo stesso titolo, “Re dei giudei”. Alla nascita – è il testo che oggi la liturgia ci propone – lo dicono i magi e lo ripetono gli scribi ed Erode; alla morte lo fa scrivere Pilato su un cartello (cf. Mc 15,26 e par.; Gv 19,19), lo usano i soldati per schernirlo (cf. Mc 15,18; Mt 27,29; Gv 19,3), lo leggono tutti i presenti all’esecuzione barbara della crocifissione (cf. Gv 19,20). Alla nascita e sotto la croce vi è la stessa rivelazione: l’umanità è una nella ricerca di Dio e nel ripudio di Dio, o meglio nel credere al bene con speranza oppure nel non credere al bene, preferendo la violenza, il male.
Dunque il vangelo dell’Epifania, della manifestazione dell’identità di Gesù alle genti, a quelli che non erano ebrei, figli di Israele, è un vangelo decisivo, che dà alla festa odierna un particolare significato: Gesù è nato Re dei giudei, Re del popolo di Dio, ma per tutti, e tutti possono cercarlo e andare a lui. In questo racconto di Matteo ci sono eventi, eventi nella storia, ma c’è anche una lettura che l’evangelista fa nella fede. Nasce un bambino in una semplice famiglia formata da un artigiano, Giuseppe, e dalla sua giovane moglie, Maria; nasce in una stalla, riparo per il gregge nella campagna di Betlemme, eppure alcuni uomini da lontano, dall’oriente, o meglio dalla loro sapienza “orientata”, nella loro ricerca sono portati a vedere in questa semplice nascita il compimento del loro cercare, la pienezza della loro attesa.
I magi non conoscono le Scritture né la lingua o le consuetudini della terra verso cui si mettono in viaggio. Sono talmente sprovveduti da chiedere informazioni a Erode circa la nascita del nuovo re, ma sono uomini abitati dal desiderio, dall’inquietudine e dunque in ricerca, in attesa. Tutti gli umani di ogni tempo e cultura hanno in comune soprattutto la ricerca del bene, anche se poi contraddicono questo loro desiderio così impegnativo. In ogni essere umano c’è un anelito al bene, alla vita piena, alla pace, e questo fuoco che abita gli umani li spinge a cercare, a mettersi in cammino, a dichiarare per loro insufficiente la terra che abitano, l’orizzonte consueto. Per questo cammino gli umani cercano e trovano come segnali ciò che possono: il cielo, la terra, il mare e anche le creature animate e inanimate con le quali sanno comunicare.
In quel lungo pellegrinaggio, soprattutto della mente e del cuore, alcuni sapienti, i magi, hanno guardato alle stelle, alla sabbia del deserto, alle bestie che cavalcavano, al bagaglio che trasportavano con sé, per vivere e per fare doni. Per chi scruta l’orizzonte sempre sorge una stella, sempre – come dice il nostro brano evangelico – c’è un oriente, un segno che sorge all’orizzonte, che invita al cammino. E così è avvenuto per quei mágoi, che dall’oriente (apò anatolôn) giungono a Gerusalemme, la città santa, l’ombelico del mondo (cf. Sal 48,3; cf. Ez 5,5; 38,12). Essi chiedono: “Dov’è il Re dei giudei che è nato?”, proprio ai giudei che non si erano accorti della nascita del loro Re. Non se n’era accorto il re che regnava in quel momento, Erode, non se n’erano accorti i sacerdoti del tempio di Gerusalemme e neppure gli esperti delle sante Scritture, gli scribi. Ecco lo scandalo: chi è deputato a conoscere e a osservare ciò che accade non sa, chi è capace di interpretare puntualmente le Scritture in riferimento al Re dei giudei lo annuncia con chiarezza e certezza, eppure in una situazione di radicale accecamento. È così, e ancora oggi avviene così: si possono conoscere le parole di Dio contenute nelle Scritture, si possono citare e spiegare con competenza, si possono addirittura insegnare agli altri, eppure, nel contempo, restare in una situazione di totale cecità o sordità, manifestazioni della sklerokardía, della callosità del cuore che impedisce di discernere la presenza dell’azione di Dio.
Questa venuta dei magi causa però inquietudine, turbamento da parte dei rappresentanti del potere politico e di tutta Gerusalemme, perché quando un potere ne vede sorgere un altro teme e trema, sentendosi minacciato. Da quell’ora l’inquietudine e il turbamento non cesseranno, fino al giorno in cui questo Re dei giudei che è nato andrà alla morte, rivestito di un manto di porpora, con una canna come scettro in mano, con una corona di spine sulla testa, deriso, sbeffeggiato e infine appeso nudo a un palo, la croce!
Eppure quei sapienti obbedienti alle Scritture dei giudei, anzi ri-orientati dalle Scritture, riescono nuovamente a vedere la stella che, dopo una lunga eclisse, li conduce fino al bambino Re Messia, a Betlemme, dove trovano ciò che cercavano ma che certamente non si aspettavano così: non una reggia, non una corte regale in festa, non lo sfarzo degno della nascita di un principe, ma semplicemente un bambino e sua madre. Contemplano non quello che avevano tanto atteso e cercato, ma altro: l’imprevedibile nascita di un povero bambino in una famiglia semplice che ha trovato riparo in una grotta. Tre sono i segni che i magi hanno ascoltato interpretato: la stella apparsa nel cielo, un evento di questo mondo che va assolutamente percepito e decifrato; le sante Scritture, che contengono quella parola di Dio che illumina e rivela ciò che non possiamo sapere da noi stessi; l’ardere del cuore che chiede di fare il viaggio, l’inquietudine che spinge a cercare, ad andare verso una promessa.
E così, come convertiti, mutati nella loro mente e nel loro cuore, i magi riconoscono la vera regalità nell’anti-regalità, la regalità potente e universale nella debolezza umana, in un infante incapace di parlare e di essere eloquente con la parola. Eppure capiscono, giungono alla fede, sebbene non siano destinatari né della rivelazione né delle sante Scritture; e non a caso Matteo annota che fanno ritorno al loro paese attraverso un altro cammino, cioè un altro modo di pensare e di vivere; “convertiti”, dunque.
Così avviene la rivelazione, per i giudei e per le genti: solo guardando alla debolezza di Gesù, al suo essere piccolo, si può comprendere la sua vera regalità, la sua vera identità, non plasmata in base alle immagini dei re e dei potenti di questo mondo. Per altre strade gli altri vangeli diranno la stessa cosa: contemplazione (theoría) di Gesù è il vederlo crocifisso (cf. Lc 23,48); visione che porta alla fede in Gesù è vederlo come seme caduto a terra (cf. Gv 12,24). Quei magi, convertiti alla vista del bambino in quella povera famiglia, in quella greppia, adorano, si prostrano e gli offrono in dono oro, incenso e mirra, prodotti preziosi dell’oriente, elaborati dalla cultura delle genti. Ciò che Gesù risorto chiederà ai discepoli – “Andate e fate discepole tutte le genti” (Mt 28,19) – ha qui la sua primizia, perché nei magi le genti iniziano a farsi discepole di Gesù stesso. Le genti, infatti, divengono discepole quando cercano con sincerità, si aprono con audacia e si mettono in cammino senza indugio.
Nell’Epifania del Re dei giudei a Betlemme comincia a manifestarsi quello scisma che si consumerà di fronte a Gesù: da una parte il riconoscimento e l’adorazione delle genti, dall’altra il non riconoscimento da parte dei figli della promessa. Eppure proprio in questo evento Gesù, l’umanizzazione del Dio di Israele, appare come luogo di incontro tra le genti e il popolo di Dio, perché figlio di Israele, Re dei giudei, ma riconosciuto e adorato come Re anche dall’umanità priva della promessa.
Quanti uomini e quante donne, dall’oriente e dall’occidente, dal nord e dal sud, come questi magi cercano il bene, si sentono viandanti, in cammino, si esercitano a riconoscere la salvezza come umanizzazione e si impegnano perché l’umano sia sempre più umano. Lo sappiano o meno, sono persone alle quali ogni bambino che nasce, ogni umano che viene al mondo deve apparire con la dignità di un re; come un fratello o una sorella che attende da noi il nostro oro (ciò che abbiamo), il nostro incenso (il profumo sprigionato dalla nostra presenza), la nostra mirra (ciò che sappiamo sacrificare di noi stessi, spendendo la vita per l’altro).
L’Epifania è manifestazione della vera regalità a tutti, cristiani e non cristiani. Ma ormai ci incamminiamo verso la Pasqua, come ricorda l’indizione della data di questa “festa delle feste”, che oggi viene fatta nelle chiese d’oriente e d’occidente: la Pasqua, quando il Re dei giudei farà la fine di chiunque osa pensare e mettere in pratica una regalità come servizio dell’altro e non come potere violento. Ma l’ultima parola spetta a Dio, al Dio di Gesù, colui che lo ha costituito Signore e Messia per sempre, Re dei Giudei e dunque Re dell’universo.
Enzo Bianchi
Monastero di Bose