Se vuoi la pace, disarma le relazioni: un percorso biblico per aiutarci a diventare costruttori di relazioni umane. Parte 6
Se vuoi la pace, disarma le relazioni: un percorso biblico per aiutarci a diventare costruttori di relazioni umane. Parte 6
1. Il pensiero unico dell’equilibrio del terrore
Il comandamento dell’amore verso i nemici consegnatoci da Gesù (cf. Mt 5,44; Lc 6,27) non lasciò indifferenti i suoi discepoli dopo la sua morte e risurrezione, neppure l’apostolo Paolo e i primi cristiani. Tutti erano consapevoli che tale comandamento era impossibile secondo le nostre logiche umane, ma possibile secondo la logica del vangelo. Dal punto di vista esclusivamente umano, la nostra sapienza e cultura, infatti, è inabile a recepire tale comandamento, perché non ha la capacità e la forza di ribaltare quella che per noi è diventata un’affermazione ormai ovviamente scontata: “Se vuoi la pace, prepara la guerra”. Questo significa che la pace la si ottiene soltanto se tra i nemici c’è un equilibrio di forze, vale a dire se entrambi hanno armi potenti ed efficaci così da farsi paura a vicenda e quindi temere una sconfitta devastante. Detto altrimenti: solo l’equilibrio del terrore garantisce la pace. È il cosiddetto realismo del buon senso.
Nella sostanza, questo è il pensiero unico omologante che ci è stato trasmesso durante questo anno di guerra tra Ucraina e Russia e che ancora ci accompagnerà per molto tempo. Una grande omologazione a cui si è adeguato anche il pensiero di molti cristiani, e tra loro anche coloro che usano vantarsi del nome “cristiano”, ma poi si rivelano inabili e incapaci a tradurre e ad articolare in un progetto politico serio e intelligentemente laico il comandamento evangelico dell’amore verso i nemici e della ricerca di una pace giusta e duratura. Non dovrebbe essere questo il loro compito e servizio? D’altronde, dobbiamo ammettere che molte guerre nel passato e le trecentosettantotto in atto ai nostri giorni sono spesso combattute da cristiani e alcune anche tra cristiani, come tra Ucraina e Russia, dove si giustifica la guerra in nome di Dio e in suo nome si benedicono le armi.
2. La Lettera agli Efesini
Se in obbedienza alla teoria dell’equilibrio del terrore molti cristiani oggi, di fronte al comandamento dell’amore verso i nemici e della ricerca della pace, rimangono indifferenti o, tutt’al più, lo considerano possibile solo nell’ambito privato delle relazioni interpersonali, non così per la generazione dei cristiani del I secolo d. C., almeno per quella più sensibile. Lo testimonia una pagina della Lettera agli Efesini, cap. 6, versetti 10-18. La Lettera, che si articola in sei capitoli, è stata scritta verso la fine del I secolo, probabilmente tra il 60 e il 90 d. C., dopo la morte dell’apostolo Paolo, da un suo collaboratore nell’opera di fondazione e di evangelizzazione delle comunità cristiane dell’Asia Minore, composta prevalentemente da cristiani provenienti dal paganesimo: cristiani abitanti nelle città di Efeso, Smirne, Mileto, Laodicea, Gerapoli, Colossi, ecc.
Nel I secolo d. C. Efeso era una città internazionale, importante dal punto di vista politico, religioso, culturale, e commerciale. Era la capitale della provincia dell’impero romano in Asia; da secoli vi aveva sede il tempio di Artemide, considerato fra le sette meraviglie del mondo. Efeso era la principale città portuale dell’Anatolia, quindi era un centro commerciale fiorente, vi abitava una popolazione cosmopolita, ricca dal punto di vista economico e vivace culturalmente, attrezzata di ampio teatro, di un ginnasio e di una biblioteca. Qui gli ebrei si erano insediati già da tempo, ottenendo la cittadinanza da Antioco II Teo, che regnò dal 262 al 246 a. C.
Ad Efeso l’apostolo Paolo soggiornò per circa tre anni (cf. At 19,10; 20.31), tra il 52 e il 54 oppure tra il 55 e il 57. Ebbe una intensa e feconda attività di evangelizzazione, che gli procurò qualche problema con gli argentieri della città (cf. At 19,23-41) e una probabile prigionia (cf. 1Cor 15,32; 2Cor 1,8-11). Ma di tutto questo non si fa cenno nella Lettera gli Efesini. Il mittente della lettera, come abbiamo detto un collaboratore di Paolo, rimasto anonimo per scelta, ha voluto indirizzare la lettera a tutte le comunità cristiane dell’Asia Minore, non solo a quella di Efeso, al fine di ricordare che noi cristiani siamo stati coinvolti da Dio nel suo mistero, vale a dire nel suo progetto d’amore, e questa sua iniziativa trasforma le nostre esistenze, superando fragilità e resistenze di noi esseri umani, grazie al dono gratuito della vita del suo Figlio per noi, il Signore della Storia e della sua Chiesa, il quale ci ha donato una esistenza nuova, capace di vivere relazioni interpersonali di comunione e di pace (cf. Ef 1-3).
Queste relazioni nuove chiedono di essere vissute con uno stile di vita rinnovato nella comunità ecclesiale, nelle relazioni interpersonali e sociali e nella comunità domestica (cf. Ef 4,1-6,9), ma con la consapevolezza, che la vita cristiana in questo mondo è una lotta contro quelle mentalità diaboliche e malvage che si insinuano nelle coscienze degli umani e nelle loro istituzioni, dominandole e rendendole disumane e invivibili (cf. Ef 6,10-12). Per queste ragioni l’autore della Lettera esorta i cristiani a rivestirsi dell’armatura di Dio, ovvero della potenza disarmante di Dio, per resistere a queste mentalità diaboliche e disumane e imparare a confliggere alla maniera di Dio e non alla maniera umana (cf. Ef 6,13-18). Accostiamoci un po’ più da vicino alla pagina di Ef 6,10-18, che rappresenta la conclusione esortativa della Lettera.
3. Per uno stile di vita disarmato a motivo del Vangelo
Ecco il testo di Ef 6,10-18:«Per il resto, rafforzatevi nel Signore e nel vigore della sua potenza. Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove. State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio. In ogni occasione, pregate con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, e a questo scopo vegliate con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi».
In questa pagina le comunità cristiane sono vivamente esortate a rivestirsi dell’armatura di Dio, cioè della potenza di Dio, che è una potenza disarmante e non guerrafondaia. Infatti l’armatura di Dio è fatta per disarmare innanzitutto noi stessi e per resistere e lottare, non contro le persone («carne e sangue»), ma contro quella cultura di violenza, di arroganza e di divisione («il diavolo», «gli spiriti del male») sempre dominante in questo mondo («i principati e le potenze») e che abilmente si insinua nelle coscienze dei cristiani deformandone il loro stile di vita. L’autore della Lettera, evidenziando la necessità di rivestirsi, sta di fatto evocando l’evento battesimale: con il battesimo il cristiano viene rivestito di Cristo (cf. Gal 3,27), viene rivestito dell’uomo nuovo (cf. Ef 4,24) e in Cristo, «nostra Pace» (Ef 2,14), riceve l’armatura di Dio come sostegno e forza per imparare a confliggere, imitando non gli eserciti umana, bensì Dio e il suo Figlio Gesù, il quale ci consegna – una consegna battesimale! – la sapienza nonviolenta del vangelo, che è finalizzata ad abbattere muri e fili spinati e a costruire relazioni di pace, di riconciliazione e di fraternità tra gli uomini e le donne di tutti i tempi (cf. Ef 2,14-17).
Perciò in Ef 4,26 è scritto: «Adiratevi ma non peccate; non tramonti il sole sulla vostra ira», come a dire: indignatevi di fronte al male e all’ingiustizia, ma non rispondete alla violenza con altra violenza. E in Rm 12,21 l’apostolo Paolo aggiunge: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene». Si tratta di imparare da Dio e dal suo Figlio Gesù l’arte della lotta, come preghiamo nel Sal 144,1.4: «Benedetto il Signore, mia roccia, che addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia», perché «l’uomo è come un soffio, i suoi giorni come ombra che passa», la nostra esistenza di credenti non è capace di sostenere una simile lotta. Da qui, allora, è facile comprendere che le armi indicate in Ef 6,14-18 – la cintura della verità, la corazza della giustizia, i calzari per l’annuncio della pace, lo scudo della fede, l’elmo della salvezza, la spada della Parola di Dio e la preghiera vigilante – sono tutte armi nonviolente; ed eccetto una (la spada), le altre non sono di attacco ma di difesa. Attraverso l’uso del linguaggio metaforico l’autore della Lettera, infatti, vuole esortare i cristiani ad assumere uno stile di vita disarmato che ha il sapore profetico del vangelo accolto, pregato e vissuto in un contesto socio-culturale – quello dell’impero romano – dominato dalla violenza e dalla guerra.
– «Attorno ai fianchi, la verità» (cf. Is 11,5): secondo la fede biblica la verità indica sia la fedeltà che l’insieme dell’annuncio evangelico, vale a dire il disegno d’amore di Dio per la salvezza dell’umanità. Cingersi di questa cintura, che è la stessa cintura del Messia, significa interiorizzare la verità della nostra esistenza, ovvero ritornare a vivere con fedeltà ciò che siamo secondo il progetto di Dio: figli scelti e amati da lui, che, resistendo al male, imparano ad amare gli altri come fratelli e sorelle.
– «La corazza della giustizia» (cf. Is 59,17; Sap 5,18): per la fede biblica la giustizia di Dio è l’attenzione, la premura e la cura che egli ha per l’umanità, in particolare per le persone deboli, fragili e povere. I cristiani, che si rivestono della giustizia di Dio imparano a non rispondere al male con il male, ma a fare il bene, cioè a prendersi cura degli altri, e in particolare dei poveri, così come si prende cura Dio attraverso l’opera del suo Figlio Gesù.
– «I piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace» (cf. Is 52,7): di fronte al dominio del male, i cristiani sono chiamati a diventare messaggeri e operatori di pace, valore eloquente della loro vocazione di figli di Dio (cf. Mt 5,9) e della presenza del Regno di Dio nel mondo (cf. Rm 14,17).
– «Afferrare lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno» (cf. Sal 28,7): i cristiani, nella resistenza e nella lotta contro il male e le strutture di peccato (istituzioni ingiuste e disumane), sono chiamati a vivere la fede come relazione di amicizia con Dio, come fiducia in lui e nel suo Figlio Gesù, che nella sua Pasqua ha sconfitto ogni malvagità e ingiustizia.
– «Prendete l’elmo della salvezza» (cf. Is 59,17): nella resistenza e nella lotta contro il male i cristiani si affidano all’azione salvifica di Dio che passava attraverso la morte e risurrezione di Cristo e ci riempie della sua presenza. Questo vuol dire partecipare alle sofferenze e alla passione di Cristo, dove facciamo l’esperienza della forza della risurrezione nella debolezza della nostra fragilità (cf. 2Cor 12,9-10), sapendo che nulla possiamo fare senza la presenza di Cristo in noi.
– «[prendete] anche la spada dello Spirito, che è la parola di Dio» (cf. Is 11,2.4; 49,2; Eb 4,12): nella resistenza e nella lotta contro il male i cristiani devono impegnarsi con più dedizione e perseveranza nell’ascolto della Parola di Dio, lasciando che essa li trafigga e penetri nelle profondità della loro coscienza, per discernere la qualità evangelica dei loro sentimenti e pensieri.
– «Pregate… e… vegliate»: nella resistenza e nella lotta contro il male è tutta l’esistenza dei cristiani che diventa preghiera vigilante, affinché tutti i cristiani e tutti gli uomini di buona volontà, che nel mondo lottano in modo nonviolento per la giustizia e la pace, per costruire una società più umana e fraterna, non si incattiviscano (cf. Lc 18,1) a motivo del fatto che la giustizia e la pace tardano a venire…, ma continuino a perseverare.
Armi di questa natura e spessore il cristiano le accoglie come dono della paternità di Dio, che lo stesso Cristo Gesù ha “indossato” e che a sua volta dona ai credenti per mezzo del suo Spirito. Abitando Cristo in noi, si rafforza il nostro uomo interiore (cf. Ef 3,14-17), ovvero il nostro cuore, la nostra interiorità, dove maturano progetti e decisioni, i quali prendono forma e concretizzazione quando agiamo nelle pieghe complesse e complicate della storia umana. D’altronde, curare l’interiorità diventa fondamentale per un percorso evangelico autentico di umanizzazione e di pacificazione della vita. L’origine del male e della violenza, infatti, risiede nel cuore umano, che si rivela violento quando la persona liberamente decide di scegliere la violenza e si rende responsabile di atti violenti. E chi può sanare il cuore violento dell’essere umano, che sia cristiano o diversamente credente o non-credente? Soltanto la forza sanante della nonviolenza di Gesù, testimoniata a noi nell’evento pasquale – e non funerario – della sua passione e morte: se lo accogliamo, con lui muore il nostro cuore di pietra violento e rinasce a vita nuova il nostro cuore di carne umanizzato, capace di amare e di aprire nella storia sentieri di pace e di riconciliazione.
Fr. Egidio Palumbo
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