Dopo viaggi anche di anni, affamati e assetati, fuggiti da prigionia e abusi, questi giovani trovano a Oujda chi li aiuta.
Dopo viaggi anche di anni, affamati e assetati, fuggiti da prigionia e abusi, questi giovani trovano a Oujda chi li aiuta.
Dopo viaggi stremanti dai Paesi dell’Africa Subsahariana segnati da povertà, guerre, dittature militari, Oujda è la prima città che moltissimi migranti trovano dopo aver attraversato il confine con l’Algeria. Di notte, queste persone rischiano la vita pur di arrivare a tentare la traversata per mare o per terra verso l’Europa. Pochissimi sono quelli che decidono di tornare nella propria patria grazie ai programmi di protezione dell’Organizzazione Internazionale Migranti, riferisce Popoli e Missione.
In questo centro abitato sorge, affiancata da numerosi minareti, la parrocchia di San Luigi, dove i missionari si dedicano all’accoglienza dei migranti, che hanno così la possibilità di fermarsi qualche giorno o settimana per riposare e recuperare le energie in vista della prosecuzione del loro itinerario. Le persone accolte arrivano spesso in condizioni difficili, dopo mesi o persino anni di cammino. Sono affamati, assetati, vestiti di stracci, sotto choc, il corpo segnato da ferite dopo periodi di prigionia, schiavitù, torture, maltrattamenti e abusi di ogni tipo perpetrati perlopiù da trafficanti che chiedono loro denaro per lasciarli andare.
Ibrahima, giunto dalla Guinea Conakry, dice di essere diplomato, però il titolo non serve a niente in un Paese che non ha futuro: «Sono qui da un mese, ma sono partito due anni fa. Ho attraversato la Sierra Leone, la Liberia, poi sono entrato in Costa d’Avorio e dopo in Mali, passando per il deserto fino in Algeria e adesso sono in Marocco». Amadou ha fatto all’incirca lo stesso percorso (è passato anche dalla Tunisia), ma è via da casa da quattro anni e nella missione è riuscito per la prima volta a chiamare la madre, che lo credeva morto.
I missionari si fanno carico di tante storie come queste. «Il nostro lavoro è accoglierli, non siamo qui per giudicare il loro sogno di vita», dice padre Edwin, «Loro sanno bene a cosa vanno incontro: in mare le probabilità di morte sono altissime, loro lo sanno, ma spesso mi dicono: “Padre, per me è meglio morire in mare che morire nel mio Paese”». Questo disperato viaggio rimarrà una delle pagine più dolorose della loro vita, ma almeno i duemila giovani che passano ogni anno per la missione possono contare su un luogo che li fornisce di un kit con dentifricio, spazzolino, sapone e rasoio, abiti puliti e un posto dove lavarsi, mangiare e riposare, insomma essere capiti e aiutati.
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