A causa della pandemia, molti scelgono di tornare nel proprio Paese che hanno abbandonato per la perenne crisi economica.
A causa della pandemia, molti scelgono di tornare nel proprio Paese che hanno abbandonato per la perenne crisi economica.
Il dramma dei migranti venezuelani continua. Dopo aver abbandonato il proprio Paese in perenne crisi economica, si sono ritrovati a vivere la quarantena in Colombia, Ecuador o Perù, dove si erano rifugiati dopo aver il più delle volte camminato per centinaia di chilometri. Così, da qualche settimana è iniziato un controesodo. Come riporta l’Agenzia S.I.R., secondo l’ong Provea tremila venezuelani al giorno valicano di nuovo i confini della propria nazione, almeno per i passi frontalieri ufficiali.
Tra le cinque milioni di persone che sono all’estero senza una casa e un lavoro regolare, quindi, c’è chi ritiene meno grave rientrare in Venezuela, dove i motivi della crisi, seconda solo a quella siriana, non sono stati per niente risolti. Il fatto che essi siano disposti a tornare nell’inferno da cui erano fuggiti dà l’idea delle difficoltà che stanno vivendo durante la pandemia in corso. Ma quelli che rimangono all’estero non è che se la passino bene, come spiega Óscar Calderón Barragán, direttore del Servizio gesuita ai rifugiati dell’America Latina.
«Soprattutto Perù ed Ecuador hanno ristretto le proprie politiche di accoglienza, richiedono il visto e non hanno attuato politiche specifiche per i rifugiati e per il loro inserimento. Assistiamo inoltre, proprio in un momento così difficile, a una diminuzione del tre per cento dei finanziamenti alle organizzazioni internazionali che si occupano di migrazioni.»
Inoltre, chi rientra deve scegliere se passare dalla frontiera ufficiale, sapendo di dover poi vivere un periodo forzato in quarantena ammassati in centri inadeguati dal punto di vista igienico e sanitario, o affidarsi alle bande criminali e ai trafficanti di esseri umani che gestiscono le trochas, vie di passaggio clandestine. Padre Eduardo Soto Parra, direttore del Servizio gesuita ai rifugiati del Venezuela, racconta all’Agenzia S.I.R.:
«Scontiamo in questa emergenza la mancanza di una politica regionale complessiva sulla migrazione venezuelana, un fenomeno mai visto che non ha avuto risposte. Anzi, i nostri connazionali all’estero hanno conosciuto xenofobia e stigmatizzazione, politiche restrittive, carenza di prospettiva umanitaria, con la parziale eccezione della Colombia. Molti tornano anche perché non riescono più a inviare le rimesse ai propri parenti, una cosa molto importante in un Paese che tiene molto alla famiglia. Non dobbiamo dimenticare che molti sono partiti lasciando i figli piccoli con i nonni, o con i fratelli maggiori. Così si spiega questo desiderio di tornare, che però a mio avviso è passeggero. Una volta terminata l’emergenza, coloro che tornano lasceranno nuovamente il Paese.»
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