Nelle foreste della Repubblica democratica del Congo i cercatori d’oro, oltre a disboscare, fanno scomparire le tradizioni dei pigmei.
Nelle foreste della Repubblica democratica del Congo i cercatori d’oro, oltre a disboscare, fanno scomparire le tradizioni dei pigmei.
Il Sinodo dei vescovi per l’Amazzonia sta affrontando molteplici questioni legate all’evangelizzazione e all’ecologia della regione Panamazzonica, ma è di interesse anche per quelle aree geografiche con le stesse problematiche, come il bacino fluviale del Congo. Ad esempio, la foresta nel nord est della Repubblica democratica del Congo è ricca di oro e altri minerali preziosi, che si trovano un po’ ovunque lungo i corsi d’acqua. Così, i cercatori vi si inoltrano sempre più, costruendo vere e proprie città provvisorie di baracche nei pressi dei siti più promettenti.
Gli abitanti originari di queste zone, i pigmei, hanno un carattere non combattivo, per cui, all’arrivo massiccio di questa gente, soprattutto bantu, si ritirano progressivamente all’interno della foresta. Padre Flavio Pante, missionario della Consolata con una ventennale esperienza tra le popolazioni pigmee del Congo, conosce bene la situazione e lo ha raccontato alla Rivista Missioni Consolata.
“Qualcuno paga la licenza di estrazione e manda i più disperati a cercare l’oro. Questi sono i cercatori artigianali, lavorano manualmente e nessuno assicura loro il minimo di sicurezza. Si può dire che stanno peggio dei pigmei. […] Tutto quello che i cercatori d’oro consumano, come il cibo, gli attrezzi, viene da lontano, dalle città, e arriva con grossi camion. Per questo è molto costoso. In questi agglomerati di baracche circolano soldi, prostituzione, malattie, violenza.”
Ma questi camion, quando se ne vanno prendendo principalmente la strada verso l’Uganda, lo fanno carichi di legname pregiato, spesso trasportato fuori dalla foresta dagli stessi pigmei. I quali, tra deforestazione e i continui rumori delle motoseghe, vedono anche ridursi la loro principale fonte di sostentamento; la selvaggina. Per p. Pante è un’invasione culturale, oltre che fisica.
“Il pigmeo è entrato in contatto con un’altra realtà. Ha visto il mercato del villaggio bantu, ascoltato la radio, sperimentato gli alcolici. Ormai non riesce più a staccarsi da queste cose, penetrando di più nel folto della foresta. Si avvicina alla popolazione di origine bantu e si accampa. Però è rimasto per indole raccoglitore e cacciatore, per cui può capitare che vada in un campo e raccolga del cibo: ma in questo modo, per la società bantu, diventa un ladro. Un comportamento dell’altro non puoi criticarlo se non lo conosci. Devi cercare di metterti nei suoi panni. Il pigmeo ha rubato o, piuttosto, ha preso per fame?”
Ma come possono fare i missionari a portare a indigeni come i pigmei i vantaggi di una formazione scolastica di tipo occidentale, a partire da leggere, scrivere e far di conto, senza prevaricare la loro cultura? Il compito delicato è quello di insegnare tenendo sempre presente la necessità di valorizzare quello che loro danno per scontato ma che stanno per perdere, ovvero le loro tradizioni. Durante la stagione secca, poi, i bambini devono andare a caccia e a raccogliere il miele con i propri genitori. Per anche tre mesi, quindi, si muoveranno nella foresta. Ma anche nei periodi stanziali è difficile che stiano fermi tutta la mattina. Ecco che i missionari della Consolata si sono inventati la scuola itinerante.
“È una scuola che si adatta ai periodi dell’anno e alla periodicità dei giorni. L’insegnante passa nell’accampamento dei pigmei e inizia a dare nozioni di base. Poi si integra con un cosiddetto esperto dell’accampamento, ovvero un adulto che tiene lezioni su elementi specifici, come la caccia, la tessitura, e tutti gli altri aspetti della vita pigmea”.
Questa trasmissione generazionale è fondamentale perché tra i pigmei, a differenza di alcune popolazioni dell’Amazzonia, non c’è sensibilità nei confronti della propria cultura, soprattutto perché sono trattati come esseri inferiori dai bantu e finiscono per crederci. Così, essi iniziano ad assumere loro comportamenti e usi, come ad esempio la richiesta di una dote per dare una figlia in matrimonio. Occorre quindi lavorare anche sui bantu per fargli cambiare mentalità, ma è molto difficile perché, secondo p. Pante, si sentono padroni della gente e il missionario viene percepito come uno straniero che mina i loro interessi.
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