Dopo l’accordo di pace, cosa sta cambiando in Eritrea

Aldilà di piccole trasformazioni in campo economico, rimangono la mancanza di lavoro e l’emigrazione di molti giovani.

Con la pace firmata il 9 luglio dello scorso anno, chiesta dal premier etiope Abiy Ahmed al presidente eritreo Isaias Afewerki dopo due anni di guerra e diciotto di stato di non belligeranza, l’Eritrea ha perso il suo principale nemico, grazie al quale veniva giustificato il regime di rigida autarchia economica accompagnata da una forte stretta politica. In questi mesi, è cambiato poco o nulla da un punto di vista politico, con la costituzione democratica redatta alla fine degli anni Novanta non ancora entrata in vigore. Le piccole trasformazioni sono avvenute soprattutto in campo economico. Alla Rivista Missioni Consolata, Erminia Dell’Oro, scrittrice italo-eritrea, racconta:

“Con l’apertura delle frontiere con l’Etiopia, prevista dagli accordi di pace, i prezzi dei generi alimentari e di prima necessità sono fortemente calati. Il teff, cereale base della cucina eritrea ed etiope, fino a pochi mesi fa costava moltissimo e la gente soffriva la fame, perché doveva pagare cifre elevate. Oggi il costo è calato, nei mercati ce n’è maggiore disponibilità grazie alle importazioni dall’Etiopia. Da anni, la mia famiglia voleva rifare la facciata della casa, ma aveva soprasseduto perché il cemento e gli intonaci costavano troppo. Adesso i prezzi sono calati e stiamo progettando di mettere in campo i lavori.”

Mancanza di lavoro, povertà diffusa, mendicanti nelle strade che un tempo non c’erano, giovani fuggiti all’estero che hanno lasciato gli anziani a crescere i nipoti tra mille difficoltà. Una ragazza di Asmara spiega alla Rivista cosa sarebbe necessario per un futuro migliore:

“Servirebbero politiche che favoriscano la reindustrializzazione del paese. Il paese deve recuperare la sua vocazione commerciale. Pensiamo solo all’importanza dei nostri porti, in particolare Massaua e Assab. Se ben sfruttati possono diventare lo sbocco al mare per tutto il Corno d’Africa. L’Eritrea deve però investire per ricostruire quel tessuto industriale e artigianale un tempo così fiorente (cotonifici, birrifici, aziende artigiane, ecc.). Solo questo ci può garantire un flusso costante di entrate e maggiore occupazione.”

E ancora: la paura di parlare di politica, un apparato repressivo con una capillare rete di informatori, la mancanza di elezioni regolari, il sistema giudiziario non indipendente. Mussie Zerai, sacerdote dell’eparchia di Asmara, sottolinea:

“Quello di Asmara è uno dei regimi politici più duri del mondo, una dittatura che ha soppresso ogni forma di libertà, annullato la Costituzione del 1997, soppresso di fatto la magistratura, militarizzato l’intera popolazione per quasi tutta la vita. Una dittatura che ha creato uno stato prigione. Anche di recente sono stati arrestati oppositori, sono state chiuse scuole cattoliche e islamiche, sono stati sbarrati otto centri medici e ospedali cattolici, mentre il patriarca della chiesa ortodossa Abune Antonios, fermato nel 2004, si trova ancora agli arresti dopo ben quattordici anni.”

E le persone continuano a fuggire. Una volta lo si faceva di notte per eludere le guardie al confine, oggi anche alla luce del sole. Passando per l’Etiopia, vanno verso altri paesi africani o l’Europa. Tekle Haile, storico oppositore del regime eritreo da anni in esilio in Italia, spiega:

“L’Eritrea ha siglato un trattato di pace di cui non si conoscono i contenuti. L’opposizione, oggi frazionata, ma che nei prossimi mesi darà vita a un unico soggetto, teme che il nostro paese sia stato svenduto all’Etiopia. Che ne sarà dei nostri porti? Delle nostre strade? Dei nostri ponti? Della nostra economia? Non vorremmo che, dopo trent’anni di guerra di indipendenza, un altro conflitto durato tre anni seguito da vent’anni di dura non belligeranza, ora l’Eritrea torni a essere una sorta di provincia di Addis Abeba. Questa incertezza economica e questo regime così oppressivo fanno paura e la gente continua a fuggire.”