Le interpretazioni e le diverse letture dell’inutile, irreligioso e idolatra episodio del Libro dei Giudici.
Le interpretazioni e le diverse letture dell’inutile, irreligioso e idolatra episodio del Libro dei Giudici.
1. Premessa: Il giudice Iefte
L’autore della lettera agli Ebrei, quasi al termine della sua esortazione, offre un rapido elenco di coloro che «trassero vigore dalla loro debolezza», citando, tra l’altro, alcuni personaggi assai controversi del Libro dei Giudici: «E che dirò ancora? Mi mancherebbe il tempo se volessi narrare di Gedeone, di Barak, di Sansone, di Iefte, di Davide, di Samuele e dei profeti; per fede, essi conquistarono regni, esercitarono la giustizia, ottennero ciò che era stato promesso, chiusero le fauci dei leoni, spensero la violenza del fuoco, sfuggirono alla lama della spada, trassero vigore dalla loro debolezza, divennero forti in guerra, respinsero invasioni di stranieri» (Eb 11,32-34). Limitandoci al libro dei Giudici, i quattro personaggi citati sono uno spaccato su una umanità eroica ma, allo stesso tempo, inconsistente:
– Gedeone viene chiamato ad essere strumento di salvezza per il popolo pur essendo il più piccolo di famiglia;
– Barak accetta la missione solo se avrà accanto la profetessa Deborah e, di fatto, non sarà lui a sconfiggere il nemico, Sisara, ma una donna, Giale;
– Sansone è evidentemente una psicologia con marcate dipendenze affettive;
– Potremmo aggiungere a questo elenco anche il mancino Ehud o lo straniero Shamgar.
Ora, tra tutti questi personaggi che «trassero vigore dalla loro debolezza» spicca la menzione inquietante di un padre – non so dire se più carnefice o vittima –, la cui storia sarà oggetto della nostra conversazione: il giudice Iefte. Iefte, figlio di una prostituta, è presentato come uno dei più abili strateghi militari dell’intero libro: uomo valoroso nelle armi, ma soprattutto ammirato per l’astuzia con cui tesse negoziati con i nemici. Di lui, tuttavia, si ricorda il fallimento della sua paternità, nei confronti della figlia che viene offerta in sacrificio a causa di un voto. Una tradizione esegetica consolidata (rabbinica e patristica), sebbene non indiscussa, legge in questo episodio l’unico caso di sacrificio umano della bibbia giunto a consumazione. La figlia di Iefte diventerà, così, il simbolo di tutte le vittime innocenti, di ogni tempo e di ogni dove, sacrificate davanti a una superiore ragion di stato. Le parole della figlia ancora oggi suscitano sgomento e ammirazione: «Padre mio, se hai dato la tua parola a YHWH, fa’ di me secondo ciò che è uscito dalla tua bocca» (Gdc 11, 36). L’innocenza e l’abbandono di questa ragazza non possono non richiamare l’innocenza e l’abbandono al Padre di Gesù orante al Getsemani. Anche nella vicenda di Gesù s’impone una superiore ragion di stato, come dirà Caifa: «Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo e non vada in rovina l’intera nazione?» (Gv 11,50).
2. Il libro dei Giudici: una discesa nella bolgia delle passioni umane
Prima di iniziare la nostra close reading sull’episodio della figlia di Iefte, riallarghiamo lo sguardo sul contesto dell’intero libro. Nel libro dei Giudici è protagonista un’umanità che precipita nel vortice delle più meschine passioni. I racconti hanno certamente più un valore simbolico che storico e intendono portare avanti l’idea che Israele, malgrado abbia già raggiunto la terra promessa, deve rimanere in assetto di guerra con le popolazioni nemiche interne. Faraone non fa più paura e la schiavitù d’Egitto è ormai solo un ricordo. Tuttavia, nemici più pericolosi minacciano la libertà del popolo eletto, nemici che non provengono da fuori, ma da dentro gli stessi confini della terra: filistei, moabiti, ammoniti, cananei… Il dono della terra e il giuramento di YHWH esigono che non si scenda ad alcuna forma di compromesso con gli abitanti idolatrici di Canaan, i quali devono essere annientati insieme alle loro divinità. L’Israele di allora, come la Chiesa di oggi, fa tanta fatica a combattere questi nemici interni. Preferisce adottare politiche matrimoniali accomodanti o tollerare culti stranieri o autoaffermare la propria esistenza in Canaan senza passare dalla logica del dono. Oggi come allora, il cuore dell’uomo è incline a occupare spazi più che a generare processi; a serrare le mani sull’oggetto della promessa più che a tenerle aperte in attesa che si porga come dono.
A questa succinta presentazione della tematica generale del libro si deve aggiungere lo schema narrativo che ricorre in vari episodi: lo schema delle cinque P.
– Peccato. Nel libro si trova spesso un ritornello: “A quel tempo non c’era un re in Israele e ognuno faceva quel che voleva”. Difatti, l’antefatto di ogni saga raccontata nel libro inizia dal peccato del popolo, che si allontana da YHWH e dagli impegni di sradicare l’idolatria dalla terra promessa.
– Pena. Dopo il peccato arriva presto la punizione, strumento privilegiato di Dio per “svegliare” il suo popolo e dissuaderlo dalla sua vuota condotta. Spesso questa pena prende le sembianze della vessazione subita da una popolazione straniera.
– Pentimento. Il popolo si accorge del proprio peccato e invoca un liberatore. Dio s’impietosisce e suscita un giudice.
– Penitenza. Il popolo è messo davanti a un’alternativa (di stampo deuteronomista): o servire gli dei stranieri o continuare a rendere culto a YHWH. Ecco, allora, che scegliendo YHWH, il popolo si mette nelle mani del giudice di turno, che libera Israele dall’oppressione straniera e prosegue il compito della conquista della terra.
– Pace. La fede ritrovate e l’unione del popolo o delle tribù conducono alla vittoria e alla speranza di un tempo di pace.
Con queste brevi linee teologiche, possiamo dire anche qualcosa sul ruolo determinante delle donne nel libro dei Giudici. È davvero impressionante la declinazione del femminile nei tanti racconti del libro: Deborah (= “ape”, ma con le radicali che richiamano “parola”), la profetessa che fa vedere a Baraq (= “fulmine”, ma che si mostra poco brillante e virile) chi indossa i pantaloni a casa-Israele; la straniera Giale, precisa e senza esitazioni nel piantare un paletto nella testa di Sisara; la sventurata figlia di Iefte, che, come vedremo, è vittima di un inutile voto; la sterile moglie di Manoach che diventa la madre di Sansone; la concubina del levita, smembrata in 12 pezzi [ Lo smembramento della donna (Gdc 19 – 21) — divisa in dodici pezzi, distribuiti in tutto il territorio d’Israele — è la metafora di un paese mutilato; forse, la macabra spedizione dei pezzi di cadavere aveva il compito, appunto, di rinsaldare i legami tra le tribù, richiamando ciascuna di esse al proprio “pezzo” di responsabilità in questa storia di potere e di violenza.
Qui emerge un altro interessante aspetto del levitismo: il “referente” del levita, straniato e itinerante, non è nessuna tribù in particolare, perché tutte quante insieme sono da lui chiamate alla responsabilità: l’habitat in cui si muovono questi “pezzi” è l’anfizionia d’Israele e il lugubre gesto del levita sembra presupporre questo collegamento intertribale. Tuttavia, se la tradizione alle spalle di questa storia è molto antica, non così il prodotto letterario finale: infatti, il numero 12 sembra, piuttosto, espressione di una coscienza nazionale certamente postesilica]. Nella saga di Sansone ci sono anche figure femminili negative, come la prima amante filistea di Sansone; oppure la prostituta di Gaza; o ancora Dalila, che porterà alla rovina il giudice forzuto. Alle donne, l’autore del libro affida l’effetto-sorpresa. Se nella tragedia greca la risoluzione di trame inestricabili era affidata al deus ex machina, nel libro dei Giudici l’imprevisto che porta a compimento il progetto di salvezza di Dio o che vanifica le vittorie degli uomini passa attraverso figure femminili. In questo effetto-sorpresa del femminile c’è anche un forte elemento ironico, che disvela il vero senso degli eventi, governati solo da Dio, non certo dalle capacità militari o diplomatiche degli uomini.
3. Il voto di Iefte: inutile, irreligioso e idolatra
Ritorniamo a Gdc 11. La saga di Iefte, come sappiamo, ha un epilogo tragico. Anzi, sembra che la narrazione sia studiata per impressionare, come in una sceneggiatura horror. L’esultanza di Iefte si trasforma in macabro sgomento; il vincitore diventa vittima. Tutto ha inizio con pio atto religioso, conosciuto nella devozione di tutte le religioni, di tutti i tempi: il voto. Un voto è un impegno assunto solennemente verso la divinità. Consiste nella promessa di compiere una determinata azione, sia come contropartita di un beneficio ricevuto da essa (voto condizionato) sia, senza alcuna richiesta specifica (voto incondizionato). Perché Iefte emette questo voto? Ripercorriamo gli eventi (Gdc 11,29-31). La notte prima della battaglia, Iefte sprofonda nell’angoscia. Il testo registra anche un passaggio da Mitspah prima di arrivare sul campo di battaglia. Stranamente non si dice che il voto sia stato fatto alla presenza del Signore a Mitspah, ma dopo averla superata. Forse che YHWH, interrogato al santuario di Mitspah, non aveva dato alcun responso? Forse che il voto ha rappresentato il modo per forzare il silenzio della divinità? Il voto condizionato, fatto con questo cuore, potrebbe rappresentare la quintessenza di un atto irreligioso. Infatti, rende evidente una pretesa o, peggio, anche un ricatto nei confronti della divinità, quasi un tentativo di impossessarsi della sua forza a proprio vantaggio, dietro il versamento di un corrispettivo: il voto, appunto.
Iefte è in ansia perché la posta in gioco è alta: un’eventuale sconfitta personale avrebbe comportato la perdita definitiva dell’identità nazionale e dell’indipendenza politica. Ma c’è anche un’altra scottante verità da salvare. Difatti, l’argomentazione di Iefte circa la proposta di risoluzione per via diplomatica del conflitto verteva tutto sulla storia esodale (cf. Gdc 11,12-27). Perdere la guerra, allora, avrebbe comportato anche un grave problema teologico. Qui c’è molto di più che la semplice ragion di Stato! Era a rischio la credibilità della stessa divinità nazionale (YWHW). Il silenzio di Dio acuisce il profondo senso d’insicurezza di Iefte. Il grande guerriero non riesce a fidarsi dello spirito di YHWH, che pure scende su Iefte in questo momento delicato (cf. Gdc 11,29). Non può lasciare che Dio sia distratto nella battaglia tra Israele e Ammon. Dio deve essere svegliato e, poi, imbrigliato, manipolato, nonostante Dio si fosse già impegnato con lui, assicurandogli il suo spirito. E così, invece di accogliere il dono come dono, lo incamera come oggetto di rapina.
In quello che si è detto si trova la chiave per capire questo racconto: il voto, che Iefte formula, non era necessario o, meglio, era necessario solo per sfamare il suo insaziabile bisogno di sicurezze. Non era espressione di una fiducia totale in Dio, ma coazione psicologica a eliminare ogni rischio nella relazione con Dio. Il voto di Iefte è un atto d’infedeltà che desidera legare Dio, piuttosto che abbracciare il dono dello spirito. C’è ancora un altro elemento abnorme in questo voto: la dabbenaggine di Iefte. Si prenda, per il momento, per buona la possibile, oltre che consolidata, interpretazione del voto di Iefte, secondo cui egli giura di sacrificare in olocausto a YHWH «l’uscente» che per primo gli correrà incontro per festeggiare la sua vittoria. Ora, Iefte certamente aveva in mente una persona, perché non poteva ignorare l’usanza di accogliere con danze e suoni di tamburelli il guerriero che faceva il suo ritorno trionfale a casa (cf. Es 15,20; 1Sam 18,6). L’astuzia che il nostro eroe mostra nell’arte della guerra qui si trasforma in superficialità, in stupidità, perché Iefte non poteva non immaginare che, avendo soltanto una figlia, fosse proprio lei a aprire il corteo festante.
Ma l’anomalia più importante che si vuole segnalare non è tanto questa stupidità di Iefte, quanto il fatto che, oltre all’irreligiosità del voto per non aver confidato nell’azione dello spirito, si aggiunge anche l’idolatria. Come si dirà meglio tra breve, giurare un sacrificio umano non solo è incompatibile agli insegnamenti della Torah (Lv 20,2-5), ma è un atto conforme al culto degli dèi stranieri: il dio ammonita Molok, infatti, come attestato in Lv 18,21, ammette il sacrificio umano come medium per accaparrarsi l’assistenza speciale della divinità. Detto in breve, il voto di Iefte non soltanto è un atto irreligioso e infedele, non soltanto è un atto superficiale e abnorme, ma è soprattutto un atto opportunista e idolatrico. D’altra parte, questo frammento non è altro che la parte di una vicenda triste di Iefte: proprio lui, che era stato vittima dell’opportunismo del suo popolo, non può fare a meno di vivere le sue relazioni, compresa quella con Dio, in maniera opportunistica, ritenendo più conveniente rinunciare ai propri valori e accettare compromessi, pur di raggiungere il proprio tornaconto. Il paradosso, con una punta di ironia, di questa vicenda è il fatto che Iefte crede di fare un atto religioso per YHWH d’Israele, ma in realtà non si accorge di fare il gioco di Molok di Ammon. Egli fa un voto che è più gradito al dio del popolo che vuole sconfiggere: sebbene gli ammoniti verranno sconfitti, in realtà, ironicamente, sarà lui a risultare asservito al dio di Ammon al quale aveva inconsapevolmente reso culto. Parafrasando la celebre locuzione oraziana – Grecia capta ferum victorem cepit – potremmo dire: gli ammoniti, vinti da Iefte, finirono per conquistare il loro vincitore. Il cavallo di Troia è, appunto, il voto, che nella sua innocua apparenza di atto religioso dà agio all’idolatria.
4. Qual è l’oggetto del voto di Iefte? Per una diversa lettura…
Osserviamo adesso cosa dice il testo a proposito del voto e del suo esito. I padri della Chiesa e i commentatori medievali non hanno esitato a rintracciare qui un caso abnorme di sacrificio umano, certamente narrato non laudato. Se già appare assurdo il bisogno di emettere un voto, ancora più insensato appare il contenuto del voto emesso da Iefte. Lo sgomento più profondo che il lettore avverte in questa storia è, appunto, la vigliaccata di un padre, ammantata di religiosità, che compie un femminicidio per saziare la fame di un dio sanguinario. A questo proposito, è bene porre più attenzione alla lettera del testo, in particolare alle possibili interpretazioni del giuramento emesso da Iefte. A ben vedere, il sacrificio umano non è una lettura cogente. Un’altra interpretazione è possibile: al lettore il compito di scegliere l’una o l’altra. Nelle righe che seguono vorrei sostenere, appunto, che il voto di Iefte potrebbe non riferirsi a un sacrificio umano. Dico questo senza nessun intento apologetico, anche perché il nostro brano non sarebbe l’unica “provocazione” della bibbia.
Qualunque sia l’opzione ermeneutica di Gdc 11, con o senza sacrificio umano, il Dio veterotestamentario non perde o guadagna punti “etici” in base alla nostra difesa d’ufficio. Stiamo parlando, infatti, di quello stesso YHWH che chiede ad Abramo la vita di suo figlio Isacco: è vero che, alla fine Isacco verrà sostituito da un ariete mentre nel nostro episodio il sacrificio della figlia di Iefte giungerebbe a consumazione (almeno, secondo il modo d’intendere tradizionale), ma è vero anche che in Gn 22 è Dio che mette alla prova il patriarca, mentre nel nostro episodio è Iefte che mette alla prova Dio. Non sarebbe facile dire cosa sia peggio, se il sadismo di YHWH sul monte Moria o l’omertà dello stesso con la figlia di Iefte. Dico questo per affermare ancora una volta l’importanza di una lettura attenta al paradigma ermeneutico contenuto in questi episodi. Quindi, davvero, l’intento che mi anima in questa rilettura non è apologetico. Semmai desidero entrare dentro la polivocità di un testo, che è generoso di significato più di quanto apparentemente sembri.
Vediamo di capire, tramite alcuni indizi, perché il testo potrebbe escludere il sacrificio umano.
– Anzitutto, come abbiamo detto, la Torah si esprime contro i sacrifici umani: Tu non farai così con l’Eterno, il tuo DIO, perché con i loro dèi esse hanno fatto tutto ciò che è abominevole per l’Eterno che egli detesta; hanno persino bruciato nel fuoco i loro figli e le loro figlie, in onore dei loro dèi (Dt 12,31).
– Yefte viene presentato dalla Nuova Alleanza come un eroe della fede e non come un pagano omicida (Eb 11,32).
– Sappiamo che il primo essere vivente che uscì incontro a Iefte vincitore sarà proprio la sua anonima figlia. Il padre forse si sarebbe aspettato che fosse un animale? Come abbiamo detto, questa speranza sarebbe stata troppo ingenua. Iefte, piuttosto, sperava che a venirgli incontro fosse la figlia di qualcun altro.
– La reazione di Iefte alla vista della figlia, cioè lo stracciarsi le vesti, non è un argomento per avvalorare la tesi del sacrificio umano. È vero che questo gesto rituale è associato anche al lutto, ma nel nostro caso avrebbe avuto senso farlo dopo l’uccisione della figlia, non prima. In realtà, il gesto di stracciarsi le vesti nella bibbia può voler dire anche indignazione o riverenza.
– Iefte, dopo aver lasciato che la figlia piangesse la sua verginità, adempie il voto di YHWH. Il racconto si chiude con l’osservazione che la disgraziata non ha mai avuto rapporti sessuali: «Alla fine dei due mesi tornò dal padre ed egli compì su di lei il voto che aveva fatto. Ella non aveva conosciuto uomo; di qui venne in Israele questa usanza: le fanciulle d’Israele vanno a piangere la figlia di Iefte il Galaadita, per quattro giorni ogni anno» (Gdc 11,39-40).
– Il testo, dunque, non parla mai di olocausto. Non si dice mai chiaramente che la ragazza sia stata arsa viva dal fuoco!
Senza troppe forzature, è anche possibile trovare un appiglio testuale a quanto stiamo dicendo. La traduzione della CEI 2008 propone questa traduzione: Iefte fece voto al Signore e disse: «Se tu consegni nelle mie mani gli Ammoniti, chiunque uscirà per primo dalle porte di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per il Signore e io lo offrirò in olocausto» (Gdc 11,30-31). Si ponga attenzione a quest’ultima frase, l’apodosi del voto condizionato di Iefte: «sarà per YHWH e/o io lo farò salire in olocausto». Ora, la congiunzione ebraica waw che si unisce procliticamente a «io l’offrirò» non deve necessariamente essere resa con la coordinante “e”, ma può anche essere tradotta con la disgiunzione “o”. Se si dà credito a questa seconda possibilità, il testo dischiude una nuova comprensione (Gdc 11,30-31): «… Se tu consegni nelle mie mani gli Ammoniti, l’uscente che esce dalle porte di casa mia incontro a me, nel mio tornare in pace dagli Ammoniti, sarà per il Signore oppure io lo offrirò in olocausto». In altre parole, Iefte formula il suo voto in modo da poterlo applicare in ogni eventualità, prospettando, così, due possibili alternative: se ad uscire fosse stato una persona (maschio o femmina), sarebbe stata data al sevizio del Signore; invece, se ad uscire fosse stato animale, allora lo avrebbe sacrificato in olocausto.
Ormai lo sappiamo: si verifica il primo caso. Il fatto straziante, che rende troppo caro e amaro il voto, è la circostanza che ad uscire sarà proprio la sua unica figlia. Il testo sembra attardarsi su questo fatto, quasi a mettere il dito nella piaga, precisando che «egli non aveva altri figli o figlie» (Gdc 11,34). Orbene, che cosa significa offrire una persona a YHWH? Questa domanda ci fa sporgere su un mondo affascinante e storiograficamente problematico che non può esaurirsi in poche battute: il mondo della “vita religiosa” in Israele antico. Qui vengono in ballo fenomeni poco esplorati come il nazireato (una forma di consacrazione temporanea: cf. Nm 6,1-21, ma anche il nazireato di Sansone in Gdc 13,1-14) o il levitismo, entrambi riservati (a quanto pare) solo ai maschi. Non si dimentichino, a questo proposito, anche i cosiddetti servi di Salomone e i Netinei (Esd 2,58), di cui si conosce poco o nulla. Tra l’altro, il Tempio di Gerusalemme doveva avere una fervente vita religiosa, non sempre incasellabile dentro le istituzioni templari tradizionali (come i sacerdoti o i leviti): basti pensare a Simeone e Anna che accolgono il bambin Gesù (Lc 2). Nel tentativo di trovare qualcosa più corrispondente al nostro caso, vorrei proporvi due citazioni in cui figure femminili sono associate a un qualche servizio yahwistico.
In Es 38,8, a proposito della costruzione del Tabernacolo, si fa menzione della generosa donazione degli specchi di alcune «donne che venivano a prestare servizio all’ingresso della tenda del convegno». Il loro stare all’ingresso della tenda sembra circoscrivere uno spazio che nel futuro tempio gerosolimitano si chiamerà, appunto, cortile delle donne. Più interessante al caso nostro è la citazione di 1Sam 2,22. Qui si parla del vecchio sacerdote Eli, che è costretto a sentire le lamentele contro i suoi sacrileghi figli che approfittavano della povera gente nell’esercizio del loro ministero e, cosa ancor più grave, «giacevano con donne che prestavano servizio all’ingresso della tenda del convegno».
In che modo, dunque, sarebbe stato adempiuto il voto? La traduzione CEI 2008 così rende Gdc 11,38-39: «… e la lasciò andare per due mesi. Ella se ne andò con le compagne e pianse sui monti la sua verginità. Alla fine dei due mesi tornò dal padre ed egli compì su di lei il voto che aveva fatto. Ella non aveva conosciuto uomo». Quest’ultima frase, non mi sembra una traduzione adeguata. La CEI 2008, usando un piuccheperfetto, sembra rimandare a una situazione precedente al voto. Se fosse così, però, la frase non aggiungerebbe nulla di nuovo. Dando spazio alle plasticità della sintassi ebraica, invece, possiamo tradurre diversamente l’inciso del v. 39, con un aspetto verbale puntuale e indecomponibile. Difatti, il waw (“e”) iniziale (con sfumatura conclusiva), la posizione enfatica del pronome personale di terza femminile singolare e la forma qatal del verbo «conoscere» suggeriscono che il voto sia stato realizzato attraverso una sorta di consacrazione alla continenza perpetua: e così ella non conobbe uomo. Ella, cioè, non conobbe uomo in tutta la sua vita; anzi, il “non conoscere uomo” è diventato il suo stato di vita. Il fatto che il voto di Iefte non sia un sacrificio umano può essere dedotto anche dalle stesse esternazioni della figlia. Passiamo ad analizzare più da vicino le sue parole in Gdc 11,36-37: «Ella gli disse: “Padre mio, se hai dato la tua parola a YHWH, fa’ di me secondo ciò che è uscito dalla tua bocca, perché YHWH ti ha vendicato dei tuoi nemici, i figli di Ammon”. Poi disse a suo padre: “Che questa cosa mi sia fatta: lasciami libera per due mesi, affinché io possa andare e scendere per i monti e io possa piangere sulla mia verginità, io e le mie compagne”».
Nel desiderio della figlia di piangere la propria verginità non sembra profilarsi l’attesa di una uccisione rituale imminente… a meno di non voler applicare al testo una sensibilità libertina, secondo cui la figlia lamenterebbe il fatto di non “essersela spassata abbastanza” fino a quel momento. Se lei piange la sua verginità è perché a causa del voto la sta perdendo! Infatti, nell’antico Israele una vergine non era altro che una donna adatta alla vita sponsale, era una condizione temporanea in stretto rapporto di tensione con la maternità. La vergine è essenzialmente una “pronta”, una che “prende la rincorsa” verso la fecondità. Nel caso della figlia di Iefte, questa rincorsa verso la maternità è stata bloccata: non potrà essere altro che una continente. Se avesse perso la vita, nell’offerta cruenta del sacrificio umano, lei avrebbe pianto la sua vita. Invece, la ragazza piange la sua verginità, perché da lì a poco l’avrebbe persa … e con essa avrebbe perso anche la maternità!
Quanto detto è controintuitivo secondo la sensibilità odierna. Noi non diremmo mai che una ragazza perde la verginità diventando “suora”. Nell’opinione comune di oggi, molto moralistica, perdere la verginità significa consumare un rapporto sessuale; certamente non significa compromettere la propria maternità. Per capire meglio l’atteggiamento della figlia di Iefte, dobbiamo collocarci nella mentalità antica. La verginità non era uno stato di vita permanente. Non era una conquista virtuosa, ma una tappa di un processo che avrebbe portato alla fecondità. Una vergine, proprio perché tale, era una donna aperta all’incontro sponsale e alla maternità. La fecondità non era considerata come la perdità della verginità, ma l’esito sommo della verginità.
Desidero farmi capire bene. Secondo il comune sentire odierno, la verginità è una “cosa” che si “rompe” nel momento in cui si “conosce” un uomo. Nella mentalità antica, invece, la verginità è una “potenzialità” che si attualizza nel momento in cui si diventa madri. Non c’è cesura, ma un rapporto di tensione.
Ora, ritornando alla figlia di Iefte, quello che ella piange è appunto questo: a causa del voto del padre, ella perderà la sua “potenzialità” perché non potrà mai più diventare madre. Piangere la verginità significa piangere una maternità mancata. Detto con una battuta, la povera ragazza perde la sua verginità proprio quando, secondo gli schemi mondani di oggi, l’acquisterebbe! Dunque, secondo lo schema antico che stiamo analizzando, la “consacrazione” alla divinità della figlia di Iefte inaugura il “lutto” della sua fertilità. Questa condizione non può essere definita “verginale”, almeno nell’accezione in cui la verginità è stata risemantizzata nella spiritualità cristiana. Ritorniamo, ora, alla domanda sull’oggetto del voto. È difficile tirare una somma certa da questi pochi conti. Tuttavia, non sarebbe strano ipotizzare che anche per le giovani donne fosse prevista una forma di consacrazione alla continenza. Pertanto, una ragazza “sacrificata”, ossia “resa sacra” per il servizio al santuario doveva essere una sorta di vestale yhwhista, costretta a vivere nella perfetta continenza: questa menomazione, questa umiliazione, era, appunto, il sacrificio gradito alla divinità e, nel nostro caso, l’oggetto specifico del voto di Iefte.
5. Conclusioni
L’esegesi biblica contemporanea sta via via scoprendo tracce di un’antica e complessa storia incastonata nel libro dei Giudici, intrisa di leggende e di riletture, alle quali inutilmente si potrà chiedere una cronaca dettagliata dei fatti, ma dalle quali emergono significati potenti, simboli di straordinaria attualità, approfondimenti che rivelano l’uomo all’uomo, contenuti che si arricchiscono soprattutto alla luce del Nuovo Testamento. Il voto di Iefte, come abbiamo visto, apre a diverse possibilità ermeneutiche. Nel caso in cui si trattasse di olocausto, l’anonima figlia di Iefte certamente diventa l’antitipo del sacrificio di Cristo. Come questa ragazza – che afferma: «Padre mio, … fa’ di me secondo ciò che è uscito dalla tua bocca» – anche Gesù non si sottrae alla volontà del padre. Come la ragazza, anche Gesù è sacrificato ad una superiore ragion di stato.
Carmelo Russo
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